Rio de Janeiro 13-07-2014

Nicola Rizzoli era l'arbitro della finale dei Mondiali del 2014, tra Germania e Argentina. Cosa vuol dire arbitrare una partita simile, raccontato da lui.
di Redazione Undici 30 Marzo 2018 alle 11:47

«Nel momento in cui sono finiti gli inni nazionali, la tensione è sparita completamente. A quel punto è diventata soltanto una partita di calcio, una cosa che sei abituato a fare», dice Nicola Rizzoli mentre ricorda quel pomeriggio del 2014 al Maracanã, a Rio de Janeiro. Con Andrea Stefani e Renato Faverani, assistenti, Nicola è diventato il terzo arbitro italiano ad arbitrare una finale di Coppa del mondo, poi vinta dalla Germania con un gol di Götze, nei minuti supplementari.

Germania-Argentina è stata una delle finali più belle, dal punto di vista dello spettacolo, degli ultimi anni, forse decenni. Il fatto che si sia segnato un solo gol, e dopo 113 minuti di gioco, non è una novità, è l’ultima partita di ogni Mondiali, e da sempre è equilibrata e tesa, ma le occasioni, il ritmo, gli scontri sono stati continui.

Il primo cartellino giallo Rizzoli l’ha mostrato dopo 29 minuti a Bastian Schweinsteiger, e dopo appena 5 minuti l’ha estratto di nuovo per scriverci il nome di Benedikt Höwedes. Un gol in fuorigioco di Gonzalo Higuaín è stato annullato correttamente, comunque una decisione non comune in una finale di Coppa del mondo. «Se avessi avuto paura non sarei stato concentrato», ricorda lui a proposito. Il momento più difficile, probabilmente, è arrivato nel sanzionare Higuaín dopo uno scontro piuttosto violento con il portiere Neuer. E ancora altri due cartellini gialli, uno di fila all’altro, in due soli minuti – il 64 e il 65 – mostrati a Mascherano e Agüero. La tensione, tra i calciatori, che sale, e altro fuorigioco complicato, chiamato correttamente a Thomas Müller, occasioni su occasioni per Messi e poi per Palacio, il gol di Götze, l’ultimo assalto degli argentini, la punizione della Pulce che va in tribuna e il triplo fischio. C’è ancora tensione per Rizzoli mentre si avvicina al palco per le premiazioni, ha la bandiera italiana in mano e la medaglia al collo, poi inizia a scendere le scale. «In quel momento, mentre tornavo al centro del campo, mi sono reso conto di tutto. Una situazione che era prima esclusivamente professionale è diventata umana, piena di sentimenti. Sono arrivato in campo e mi sono messo a piangere. È stato un momento davvero forte», ricorda lui. «Per arbitrare devi lasciare fuori tutti i sentimenti, tutte le emozioni, ma quando la partita finisce torni sulla Terra, torni a essere un uomo».

Nicola Rizzoli, in realtà, pensava che quella finale non l’avrebbe arbitrata: «Avevamo già fatto due volte l’Argentina, l’ultima volta ai quarti di finale. Sapevamo di essere tra i papabili, ma di sicuro non i favoriti». Ricorda: «Ho sentito il mio nome e all’inizio non ho collegato, ho pensato: “Ha detto il mio nome”, poi subito dopo: “No, non può essere”, poi di nuovo: “Eppure ormai l’ha fatto”. In realtà me ne sono davvero reso conto quando uno dei miei assistenti mi ha dato un pugno sulla gamba, e mi ha fatto un gran male».

Quando si pensa a cosa debba provare un arbitro, in uno scenario come quello della partita più importante dell’anno, anzi dei quattro anni precedenti, in uno stadio come il Maracanã, si pensa probabilmente alla paura, a come controllarla e come addomesticarla. Non è così, dice Nicola Rizzoli: «La preparazione psicologica è in realtà la più semplice: quello che hai fatto fino a quel momento è quello che andrai a fare anche in finale. È sempre una partita undici contro undici, e se sei lì e hai fatto tutta la strada per arrivare lì dopo 26 anni di carriera, sai di essere in grado di poterla fare». «È più la preparazione tecnica», spiega, un lato che si conosce poco del lavoro arbitrale, che consiste nello studio, come se si fosse un allenatore, delle due squadre in campo: «Ho avuto due giorni per studiare, e mi sono riguardato come un matto tutte le loro partite precedenti, come giocavano, come interagivano. Ho avuto anche un po’ di fortuna: conoscevo già bene l’Argentina, sapevo come erano messi in campo, conoscevo i giocatori. La Germania era un’europea, quindi un po’ l’avevo arbitrata, un po’ l’avevo vista giocare tante volte». E i consigli: «Ho parlato tanto con Webb, che aveva arbitrato la finale del 2010 ed era lì in Brasile con me, poi ho sentito sia Collina che Gonella». Ovvero, gli altri due arbitri italiani che avevano diretto finali Mondiali: Sergio Gonella nel 1978, Argentina-Olanda con la vittoria di Kempes, e Pierluigi Collina nel 2002, Brasile-Germania a Yokohama, doppietta di Ronaldo, quinto titolo ai verdeoro.

Qualche mese dopo la sua finale, a Dubai, Nicola Rizzoli ritira il premio come miglior arbitro dell’anno ai Globe Soccer Awards. La International Federation of Football History & Statistics lo nomina Miglior arbitro mondiale, cosa che succederà anche l’anno successivo. Sono i primi riconoscimenti internazionali, arrivati a 43 anni. «In quel momento», ricorda, «per la prima volta nella mia carriera mi sono guardato indietro. E ho pensato, beh, di strada ne ho fatta veramente tanta».

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