I campionati oggi contano meno?

Nel valutare la stagione di una squadra, la Champions League ha un peso molto maggiore rispetto ai tornei nazionali: i casi di Barcellona e City ne sono un valido esempio.

La sconfitta interna del Manchester United contro il West Bromwich Albion ha consegnato al Manchester City la quinta Premier League della sua storia e a Pep Guardiola il settimo campionato della sua carriera da allenatore in nove stagioni complessive. A eccezione del 2011/12 e del 2016/17, il tecnico catalano ha sempre manifestato la tendenza a dominare nei tornei nazionali: eppure, in questo recente articolo sul Guardian, Barney Ronay non ha potuto fare a meno di chiedersi se Guardiola fosse o meno «una frode straniera senza capelli», partendo dall’eliminazione ai quarti di Champions League. Da quando ha lasciato il Barcellona, infatti, il massimo risultato raggiunto da Guardiola in ambito continentale sono state le tre semifinali consecutive (perse contro le tre grandi di Spagna) alla guida del Bayern Monaco.

Il gol di Jay Rodriguez a Old Trafford che ha di fatto consegnato il titolo al Manchester City

Il continuo sottolineare questa dicotomia di risultati dimostra come la massima competizione europea abbia relativizzato, anche a livello di narrazione, l’importanza rivestita dai singoli campionati nazionali, amplificando il paradosso che vorrebbe un torneo fortemente caratterizzato dall’episodicità dei momenti più adatto a far emergere i reali rapporti di forza rispetto a una maratona di oltre 30 partite. Tanto più nell’anno in cui, ad eccezione del Bayern (sesta semifinale nelle ultime sette edizioni di Champions e sesto Meisterschale nelle ultime sei Bundesliga), le prime classificate dei principali campionati non figurano tra le prime quattro squadre d’Europa. Non si tratta, banalmente, di una differenza legata al prestigio o al ritorno economico: è una questione di diversa percezione della realtà competitiva e del valore della stessa, con la legittimazione dei top team che sembra dover passare esclusivamente dall’unico terreno di confronto comune, derubricando come accessoria e scontata l’affermazione entro i propri confini.

Si tratta di un tema che ricorre ciclicamente nel moderno racconto calcistico se è vero che, già nel 1986, Mario Sconcerti scriveva su Repubblica che «è un brutto campionato. Si gioca male, si segna pochissimo, ci si diverte solo con il risultato, quando il risultato diverte. Non ci sono nemmeno grandi speranze per il futuro. Manca la squadra guida, la stessa Juventus sembra bravissima soprattutto a nascondere i propri affanni. Per tutti più che un problema di schemi, sembra soprattutto un problema di uomini. Il livello tecnico medio si è sensibilmente abbassato, sotto questo aspetto i risultati del Mundial messicano sono stati tutt’altro che casuali e quelli di Coppa confermano i disagi». Tradotto: vincere non basta e stravincere equivale a fare metà del proprio dovere, soprattutto se in Champions League non va come previsto.

Il campionato 1986/87 fu vinto dal Napoli, per la prima volta nella sua storia, che sconfisse 2-1 la Juventus campione d’Italia in carica nel ritorno al San Paolo

In tal senso, il caso statisticamente più clamoroso di questa stagione è quello del Barcellona. La “normalizzazione” portata avanti da Ernesto Valverde attraverso un sistema solido e concreto, in cui la centralità di Messi è più accentuata che mai, ha pagato fin da subito grossi dividendi: ancora imbattuto nella Liga (allungando a 39 la striscia di partite senza sconfitte, migliorando il precedente record della Real Sociedad stabilito tra il 1979 e il 1980), vetta solitaria della classifica con 12 punti di vantaggio sull’Atletico Madrid (e 16 sul Real), finale di Coppa del Re raggiunta agevolmente. Eppure è bastata la prima sconfitta stagionale, coincisa con una delle più memorabili imprese della storia della Roma, per ribaltare totalmente ogni prospettiva sulla stagione.

E se la relativa rotazione tra gli elementi della rosa rappresenta una valutazione meramente tecnica, Gill Clark ha sottolineato come la questione sia anche di tipo filosofico: «Il calcio di Valverde non avrà conquistato tutti ma lui ha semplicemente lavorato con quello che ha. La squadra potrà non essere bella ma è stata efficace e ci sono state anche prestazioni notevoli come il 3-0 alla Juventus al Camp Nou e la vittoria del Clasico al Santiago Bernabeu. Anche se ha commesso degli errori, la traumatica eliminazione dalla Champions non può essere solo colpa sua, pur essendo stato il primo ad assumersi le responsabilità. Valverde merita credito per questa stagione e tempo per costruire la sua squadra. Tuttavia, Barcellona non è un contesto in cui abbondano le riserve di pazienza: Valverde ha iniziato bene ma deve dimostrarsi qualcosa di più di un allenatore solido che renda una squadra difficile da battere. Il club desidera ardentemente un altro titolo europeo e la sconfitta contro la Roma ha dimostrato che il dubbio sul fatto che possa essere Valverde a consegnarglielo è del tutto giustificato».

Manolas elimina il Barcellona dalla Champions League 2017/18

Vittime illustri del ridimensionamento post eliminazione, soprattutto a causa di campagne acquisti particolarmente dispendiose, sono anche Manchester City e Paris Saint-Germain, che hanno vinto i rispettivi campionati in anticipo, dominandoli in maniera speculare: per entrambe 87 punti in 33 partite (28 vittorie, tre pareggi e due sconfitte), una differenza reti gargantuesca (rispettivamente +68 e +80) favorita da una qualità offensiva di prim’ordine (93 reti alla media di 2,81 a gara per il City contro le 102 – 3,12 ogni 90’ – del Psg) e un sistema difensivo di un livello tale da consentire di arrivare alle soglie del 50% di clean sheets (25 gol concessi dai Citizens, 23 dai parigini).

Ma se il livello complessivo della Ligue 1 sembra giustificare il siluramento di Emery “annunciato” da Di Maria («L’eliminazione dalla Champions è stata un duro colpo. Il club ha speso 400 milioni ed è normale che le aspettative fossero alte. Il prossimo anno ci sarà un cambiamento»), l’analisi intorno al progetto che Guardiola sta portando avanti passa da alcune considerazioni doverose. Con il City in pieno ricambio generazionale al suo arrivo, il catalano ha dovuto procedere per gradi: progressivo ringiovanimento della rosa (basti pensare che, nella scorsa stagione, l’età media più elevata di un undici schierato da Guardiola superava i 30 anni: quest’anno non si è andati oltre i 26), riapertura di un ciclo vincente in Inghilterra e, solo successivamente, provare a portare il City al livello delle tre grandi d’Europa, attraverso ulteriori investimenti comunque funzionali alla sua idea di calcio e in grado di garantire la necessaria continuità ad alti livelli nel futuro a medio-lungo termine (i vari Sané, Bernardo Silva, Laporte, Gabriel Jesus, Stones che non superano i 23 anni d’età). Ricondurre il tutto ai quasi 530 milioni di euro utilizzati nelle ultime quattro sessioni di mercato vorrebbe dire relativizzare ulteriormente il valore di una vittoria arrivata al termine di un campionato che, secondo lo stesso Guardiola, è «difficilmente ripetibile» dal punto di vista prestazionale e dei risultati conseguiti.

Con il 7-1 sul Monaco, il Psg si è aggiudicato il quinto titolo nelle ultime sei stagioni di Ligue 1

E in Italia? La Juventus, pur essendo ancora in corsa per centrare il quarto double consecutivo (e che a fine stagione avrà comunque disputato 216 delle 224 partite giocabili dal 2014/2015 nelle tre competizioni principali: dal 2010 è la squadra italiana più continua nelle competizioni europee) sembra comunque mancare di un’affermazione continentale che legittimi un ciclo irripetuto e irripetibile, quasi a voler normalizzare un’eventualità (quella del settimo scudetto consecutivo) che normale non sarebbe, soprattutto in considerazione dell’overperforming di un Napoli che, di contro, sull’altare della Serie A ha sacrificato quasi scientemente la sua stagione europea. Eppure il dibattito attuale, legato principalmente alla divisività della figura di Massimiliano Allegri, alla sua capacità di gestione di una rosa qualitativamente e quantitativamente superiore rispetto alla concorrenza e alla percezione dell’effettivo grado di competitività della stessa, prescinde dalla considerazione dell’effettiva difficoltà di ripetersi ad alti livelli. Come se vincere “solo” il campionato costituisse una deminutio dei meriti di una squadra andata a un rigore al 93’ di distanza dall’impresa di rimontare tre gol al Real Madrid al Bernabeu, in un turno ad eliminazione diretta di Champions League.

Al di là dei vari distinguo, la sensazione è che non si possa più tornare indietro, quanto meno nella definizione e nell’accettazione di una scala valoriale tra le competizioni che prescinda da valutazioni sbrigative e superficiali. In questo articolo dello scorso settembre, Simon Barnes lo spiega perfettamente: «Guardiamo la Premier League per il coinvolgimento emotivo e la Champions League per l’eccellenza. È un dato di fatto che le migliori squadre diano il meglio nelle grandi partite, quindi ne consegue che quando le migliori squadre d’Europa si trovano di fronte è più probabile ritrovare un livello di calcio più alto rispetto a quello espresso in qualsiasi altro campionato nazionale. Quando si guarda la Champions è normale chiedersi: è questo il miglior calcio che si sia mai giocato?». Si tratta, in effetti, di forzature narrative evidenti, eppure giustificate da quella visione globalizzata del calcio che, nonostante l’accantonamento del progetto Superlega, sembra aver sdoganato l’idea del palcoscenico internazionale come l’unica cartina di tornasole adatta a misurare forza e prestigio di un top club. Perché vincere aiuta a vincere, a patto che non sia entro i patri confini: lì è (o dovrebbe essere) del tutto normale, a tratti scontato. O, almeno, questo è quello che si vorrebbe far credere.