Iniesta, storia di un artista

Cosa ha rappresentato per il calcio Andrés Iniesta: l'uomo in grado di piegare le esigenze fisiche a quelle tecniche, dominando il tempo e lo spazio.

Raccontando Roberto Baggio nel Dizionario del Calcio Italiano, Roberto Beccantini lo descrive come «il pennello con il quale la nostra fantasia ha dipinto il calcio così come ci sarebbe piaciuto che fosse». Con Andrés Iniesta non è poi tanto diverso: scrivere di ciò che ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà, significa assecondare una narrazione legata all’iconografia di un fuoriclasse perfettamente calato nel ruolo di figlio ideale di questo tempo e di questo calcio. Ovvero il suo tempo e il suo calcio. Lo sa bene Paolo Condò che, nel suo editoriale del 28 aprile sulla Gazzetta dello Sport, ha scritto che «Iniesta è il giocatore più universalmente amato perché asseconda ogni istinto, dai lussuriosi del gioco agli implacabili del risultato», esprimendo quella trasversalità tipica non solo dei più grandi ma anche di quelli che appaiono esattamente per quello che sono, senza i filtri imposti dal professionismo e dallo star system a tutti i costi. L’essere sempre stato, in campo e fuori, l’unico abitante de La Mancha in grado di combattere e vincere i mulini a vento della diffidenza verso quel fisico troppo gracile e quel carattere solo apparentemente troppo schivo, gli ha permesso di guadagnarsi un credito sostanzialmente illimitato eppure mai riscosso grazie alla capacità di non sbagliare una singola scelta, compresa quella di lasciare il Barcellona a 34 anni per la paura di non essere all’altezza del club dal quale ha avuto (e al quale ha dato) tutto.

Un elogio all’umiltà e alla normalità declinate secondo i canoni di un atleta di livello superiore, così vicino all’uomo comune e così lontano dall’immagine del calciatore medio. José Félix Dias lo sosteneva già nel 2010 dopo il trionfo al Mondiale sudafricano: «Tra tutte le immagini del recente passato, in particolare quelle dell’ottimo reportage Informe Robinson su Canal +, resto con quello che mi trasmette Iniesta ogni volta che parla e non solo quando gioca a calcio. Anche perché quando è in campo si comporta allo stesso modo di quando si trova di fronte a una videocamera. Il giocatore del Barcellona non ha bisogno di fare confusione o di rendersi protagonista di gesti eclatanti per mettere tutti d’accordo. Il suo messaggio dimostra che un ragazzo normale, privo di eccessiva grazia, può essere riconosciuto e ammirato da tutti». Anche dai tifosi dell’Espanyol che, all’interno di un derby finito malissimo in una notte di dicembre più fredda del solito, decisero di alzarsi in piedi per omaggiare il simbolo dei rivali di sempre: e non (solo) per aver matato l’Olanda ma per aver dedicato il momento più importante della sua vita a Dani Jarque, quel loro figlio prediletto cui la vita era stata invece strappata senza un perché.

Il lampo di Johannesburg, comunque, è la rappresentazione anche delle altre due architravi della narrazione del manchego: la predestinazione, che va oltre le parole di un profetico Pep Guardiola a uno Xavi appena diciannovenne («tu prenderai presto il mio posto ma questo ci manda a casa tutti e due»), e la normalità insita nell’eccezionalità di ogni suo gesto tecnico, favorita dalla capacità, propria di chi vede tutto prima, di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Quando, nel descrivere la rete decisiva di quella finale – che sarebbe poi stata ribattezzata come “el gol de todos” – disse che «ho ascoltato il silenzio e ho capito che quella palla sarebbe entrata», Iniesta non fece altro che ribadire come la sua migliore dote fosse sempre stata quella di trovarsi nell’ideale dimensione spazio-tempo affinché poi tutto andasse come doveva andare. Come nel ritorno della semifinale di Champions League di un anno prima a Stamford Bridge («Il tiro è andato dove doveva andare. Dall’interno verso l’esterno, più lontano possibile da Cech, un portiere così grande che sembrava occupare tutta la porta»), come in occasione della rete che sigilla l’ultima finale di Coppa del Re contro il Siviglia, come nel resto di una carriera che potrebbe essere tranquillamente sintetizzata con un’altra citazione guardiolana: «Un ragazzo con un dono naturale unico nel suo genere. Con lui tutto scorre naturalmente, questa è la cosa più impressionante che posso dire di Andrés: quella naturalezza della perfezione, come correva con e senza palla, anche se non era il ragazzo più veloce del mondo. Posso dire molte cose su di lui, ma la cosa più importante è il piacere di vederlo allenarsi, sono sicuro che il calcio lo ricorderà tra 50 anni, e questo è molto importante. Ringrazio Iniesta perché mi ha aiutato a capire meglio il gioco del calcio. Spero che un giorno tornerà a Barcellona per insegnare ai giovani o ai professionisti ciò che lui è stato in campo».

La legacy di Iniesta, in effetti, trascende il numero di titoli collezionati, le polemiche su un Pallone d’Oro mai assegnato (con tanto di lettera di scuse da parte della redazione di France Football), la sfortuna di essere coevo di Messi e Ronaldo, il suo rapporto di reciproca proporzionalità, anche numerica (nel Barca sono sempre stati, rispettivamente, l’8 e il 6, in Nazionale il 6 e l’8), con Xavi: si tratta della ridefinizione a sua immagine e somiglianza del ruolo del centrocampista, innovato attraverso la personalissima interpretazione di una filosofia preesistente eppure resa sempre più moderna con e grazie a lui, fino a diventare la rappresentazione fisica, riconosciuta e riconoscibile del calcio alla spagnola così come è oggi inteso in tutto il mondo. Per questo Luis Miguel Echegaray non ha avuto dubbi quando su Sports Illustrated ha scritto che «ogni volta che lo guardiamo è come assistere a una lezione di calcio, a uno spettacolo, ad una partita nella partita. Iniesta controlla il centrocampo con grazia, delicatezza, visione. Il suo istinto di passatore, che gli deriva dalla filosofia pass-and-move del Barca, ha praticamente reinventato il modo in cui pensiamo ai centrocampisti. Il dominio del club passa attraverso quella zona del campo e Iniesta è l’esempio più puro di questa strategia. Certo, Messi è la figura chiave della squadra, ma Iniesta è l’orchestratore di tutti gli aspetti creativi. È il Mikhail Baryshnikov del calcio e il Camp Nou è il suo palcoscenico».

Eppure persino una simile chiave di lettura rischierebbe di essere parziale, limitativa e sottostimante del suo effettivo impatto sul gioco. Analizzare Iniesta unicamente attraverso il filtro del grande passatore/facilitatore della manovra significa non rendere giustizia all’intelligenza adattiva che ha permesso ad uno che visionario lo era già di suo di intuire con congruo anticipo i cambiamenti tecnici, fisici e filosofici del calcio, in modo da adeguare progressivamente il suo stile di gioco senza che questo perdesse di efficacia in termini di impatto sulle prestazioni personali e di squadra. Nel raccontare la sua prova all’interno di un Clasìco di fine 2015 letteralmente dominato (un gol, un assist e il 96% di pass accuracy nel 4-0 del Bernabeu) e che sarebbe costato la panchina del Real Madrid a Rafa Benitez, John Robertson scrisse su FourFourTwo che «la sua età non lo ha ridotto certo a un’entità monodimensionale. Dire che è un mero passatore sarebbe semplicemente falso. Certo, magari non potrà più ricoprire le stesse zone di campo del 2010, ma quando si prende i suoi momenti è ancora in grado di battere i suoi diretti avversari e fare la differenza».

E poco importava che, nel periodo considerato, un nuovo ideale di centrocampista (maggiormente tendente all’universalità del box to box player piuttosto che alla specializzazione del creativo di lusso) stava già prendendo forma nell’immaginario collettivo: Iniesta continua(va) ad essere il benchmark di riferimento pur nel parziale ridimensionamento della sua effettiva centralità, proprio per la sua abilità di risultare sempre perfettamente collocato in un sistema che, nel corso degli anni, si è dovuto adattare prima alla MSN e poi ad un sempre più accentuato “messicentrismo”. Il tutto grazie ad una cinestesica innata e costantemente in grado di piegare le esigenze fisiche a quelle tecniche e viceversa, ovvero il dettaglio che più di tutti ha contribuito alla sua unicità. Un concetto che lo stesso Messi spiegò non tento tempo fa: «Sia io che lui usiamo la nostra struttura fisica per evitare i contatti ed allontanarci dagli avversari. C’è sempre un momento in cui pensi di averlo preso, di riuscire a sottrargli la palla, ma non puoi. Non è particolarmente veloce ma ha la capacità di allontanarsi sempre da te, una capacità che gli deriva dalla sua tecnica».

Senza dimenticare l’aspetto puramente psicologico, ultima ma non ultima tessera di un mosaico che è un inno ad una filosofia di vita, prima ancora che di calcio. Iniesta è un uomo che, in quell’imperscrutabilità solo di facciata, ha dovuto e voluto lavorare su se stesso per far sembrare facile ciò che facile non era, per dare valore al viaggio prima ancora che alla meta da raggiungere: «Ogni atleta possiede quel gene, quella competitività, quella voglia di superare gli ostacoli, di combattere, di sacrificarsi. Potrebbe sembrare facile raggiungere la cima e rimanere lì, ma non è così. E’ un qualcosa che mi torna in mente ogni volta che vinco qualcosa. Quando l’arbitro fischiò la fine della finale della Coppa del Mondo la prima cosa cui ho pensato fu l’anno appena trascorso, gli infortuni, il fatto che a un certo punto credevo di non farcela. Se vinci senza sacrifici magari ti diverti, ma è tutto molto più soddisfacente quando hai dovuto lottare e faticare. Il Mondiale ha significato così tanto proprio per quello che ho dovuto fare per essere lì».

Fin dai primi difficili giorni alla Masìa, novello Ali a Kinshasa, Iniesta ha messo un corpo normale al servizio di una mente superiore, «costruendo il successo sulle lacrime silenziose» (Victor Valdes, The Artist: Being Iniesta), in una sfida costante ai suoi limiti prima ancora che ai suoi avversari, perché senza superare i primi non si può sperare di battere i secondi. Con il calcio al centro di tutto, terapia ideale per superare problemi, dolore, preoccupazioni. Come nel 2009 con quella finale di Champions League prima così vicina e poi così lontana a causa di un infortunio: «Ci sono momenti in cui il corpo umano è capace di cose che non ti aspetteresti mai. Mi sono infortunato 17 giorni prima di quella finale e volevo solo essere lì: lo strappo alla coscia era di circa tre centimetri, ho lottato, lavorato mattina e sera, ripensato al retrogusto dolce e amaro della finale di Parigi giocata da subentrato. A Roma ho dovuto giocare nonostante fossi infortunato e l’ho pagato a caro prezzo faticando per tutta la stagione successiva. Ma ne è valsa la pena».

Iniesta è stato, è e sarà un’esperienza unica, totalizzante, metafisica, punto di contatto ideale tra la filosofia dell’estetica insita in un certo modo di giocare e l’utilitarismo che sottende la concezione di quella stessa estetica come mezzo e non come fine. Fu lui stesso a raccontarlo a coronamento del triplete euro-mondiale: «Non stiamo certo dicendo che il calcio sia una scienza esatta e che giocando in questo modo si vincerà sempre. Noi giochiamo in questo modo perché ci piace, perché non abbiamo i giocatori per fare diversamente. La gente parla spesso di calcio pragmatico: beh per noi questo lo è. È il modo in cui ci piace giocare, è il modo in cui crediamo di avere maggiori possibilità di vincere». Una rivisitazione in chiave moderna del mito dell’eterno ritorno, in cui la circolarità dell’universo (calcistico e non) si sostanzia nella continua adattabilità allo stesso. Nel 2012 Sid Lowe scrisse sul Guardian che «Iniesta rappresenta uno spostamento nella percezione non solo dei calciatori ma del calcio stesso. Barcellona e Spagna hanno sfidato i preconcetti. Insieme a Xavi, Iniesta è l’incarnazione dello stile, un ideologo»: di una squadra, di una comunità, di una Nazionale, di un paese, così diversi eppure così uguali, uniti dalla e nella trasversalità dell’ultimo (e del primo) degli universali. “Iniesta de mi vida”, Iniesta de nuestra vida.

 

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