Domenica è terminato il campionato di Serie A 2017/2018. Per celebrare questa stagione, abbiamo deciso di selezionare dieci cose di campo, abbastanza ricorrenti, che ci hanno colpito in maniera particolare e che vorremmo ricordare. L’ordine è puramente casuale, abbiamo cercato di esplorare l’intera geografia del campionato, toccando tutte le latitudini della classifica.
L’arte difensiva di Skriniar
Pavel Hapal è l’allenatore dello Sparta Praga, a marzo ha sostituito Stramaccioni dopo un’esperienza di tre anni alla guida della Nazionale Under 21 della Slovacchia. In una sola intervista, anzi in una sola frase, ha saputo definire meglio di chiunque altro la forza di Milan Škriniar: «Tutti i calciatori dovrebbero prendere esempio da lui, soprattutto per quanto riguarda l’approccio al lavoro. Milan ha capito che il calcio non è solo una questione di talento».
Sono parole che tracciano una linea tra la percezione che abbiamo di Škriniar e la realtà: il centrale dell’Inter non è solo un «corazziere elegante, attento, aggressivo, bravo a difendere sempre in alto e con un background da centrocampista» (Oscar Cini, su Undici), quindi un giocatore dominante grazie alle proprie doti naturali; è anche un operaio della propria qualità, che prova sempre ad aggiungere qualcosa al suo portfolio, in fase passiva come di impostazione. Nella seconda parte di stagione, dopo la definitiva esplosione di Cancelo, Spalletti ha spesso disegnato una terza linea dinamica, in grado di scalare a tre in alcuni segmenti della partita. Škriniar è stato fondamentale per questo cambiamento: grazie alla sua versatilità, ha saputo occupare perfettamente tutti e tre gli slot, aggiungendo alla sua completezza tecnica le attese, le letture, i tempi d’uscita necessari per essere funzionale anche in questo sistema. È un ulteriore upgrade della sua arte difensiva, è un timbro sul suo passaporto di fuoriclasse in divenire, prontissimo per la Champions League.
Potenza e difesa in avanti
Douglas Costa che accelera
L’eccezionalità di Douglas Costa è innanzitutto una questione statistica: nessun calciatore di Serie A ha i suoi numeri per quanto riguarda la combo tra assist decisivi (12, solo Luis Alberto tocca quota 14) e dribbling riusciti per match (3.4). Si tratta di cifre che restituiscono fedelmente, in maniera compiuta, la sostanza del gioco di Douglas Costa, fatto di avversari saltati in accelerazione o con dribbling di grande impatto spettacolare, di superiorità numerica costruita con spaventosa continuità, di appoggi decisivi ai compagni.
Oltre l’aritmetica, però, c’è anche la sensazione rispetto all’efficacia dell’esterno brasiliano, che Jacopo Azzolini ha sintetizzato così su Undici: «Douglas Costa ha una velocità pazzesca, abbinata a una resistenza fuori del normale. La sua conduzione palla al piede permette alla Juventus di arrivare in porta con rapidità, un contributo cruciale per la squadra di Allegri, per il ribaltamento offensivo dopo lunghe fasi di difesa posizionale». Se il percorso di inserimento è stato accidentato, la parte finale della stagione ha mostrato la perfetta aderenza tra le qualità di Douglas Costa e le necessità tattiche della Juventus, secondo la nuova interpretazione del suo allenatore. Un racconto di programmazione, qualità e lavoro di perfezionamento, per determinare un contributo fondamentale nella costruzione dello scudetto.
Douglas Costa, in breve
La crescita di Allan
È singolare che i migliori elementi nella miglior stagione del Napoli di Sarri – una sorta di squadra-brand diventata famosa in Europa per la sua cifra estetica – siano stati un difensore centrale e un interno dall’impostazione conservativa, Koulibaly e Allan. Se il franco-senegalese ha almeno un profilo in continuità ideologica con l’alta intensità dagli azzurri, Allan può essere considerato un calciatore distante dal loro gioco di posizione. Eppure anche all’estero, per esempio in Francia, secondo So Foot, l’ex Udinese è «un ingranaggio essenziale nei meccanismi del Napoli, grazie al suo modo unico di coprire gli spazi, di sporcare le linee di passaggio, di ribaltare l’azione».
L’anno fantastico di Allan potrebbe sembrare un paradosso, una contro-narrazione rispetto alla presunzione di bellezza del Napoli, ma la realtà è ben diversa: la crescita fragorosa del brasiliano è una rappresentazione plastica dello sviluppo della squadra di Sarri, che è riuscita a toccare quota 91 punti grazie ad un consistente upgrade difensivo (da 39 a 29 gol subiti in campionato), bilanciato da una flessione realizzativa (da 94 a 77 reti segnate). L’equilibrio tattico garantito da Allan e i suoi progressi in tutte le fasi di gioco – 4 gol e 39 occasioni create, con 5 assist decisivi – hanno caratterizzato la stagione del Napoli, ben oltre i luoghi comuni. E hanno mostrato come un sistema strutturato possa aiutare un calciatore ad esaltarsi, a superare i propri limiti.
Un lancio geniale di Allan
La completezza di Barella
In un’intervista pubblicata sul Numero 20 di Undici, Nicolò Barella ha parlato così del suo approccio al gioco: «Per me, ogni partita è come un allenamento: do sempre il massimo, ma non mi faccio paranoie. Mi tremano le gambe, ma non per paura. Per l’emozione». Probabilmente, questo atteggiamento ha spinto Diego López a concepire per lui un ruolo senza troppi vincoli, interno destro con licenza di roaming posizionale e concettuale. Barella ha recepito e sfruttato al meglio questa responsabilizzazione della libertà, ha imparato ad essere efficace in tutte le situazioni, in tutte le fasi di gioco: non a caso, è il calciatore del Cagliari con il maggior numero di eventi difensivi per match (5.5 tra tackle, intercetti e palle respinte), ma anche quello con più dribbling riusciti ogni 90′ (1.5) e il secondo per occasioni create (34 in tutta la stagione). Ed ha anche realizzato 6 gol.
Barella è un giocatore con un portfolio tecnico-tattico completo, se esiste un aspetto negativo della sua generosità va ricercato negli eccessi disciplinari (13 cartellini gialli, record in Serie A). Ma a 21 anni ha ancora tutto il tempo per crescere, soprattutto quando il calcio dei grandi sembra essere già il suo habitat naturale, tanto che le gambe non gli tremano per la paura, ma solo per l’emozione.
Visione, dribbling, interdizione
La riscoperta di Cristante
La seconda qualificazione consecutiva all’Europa Leagua è uno storico remake per l’Atalanta, che solo nel biennio 1988-1990 aveva raggiunto lo stesso traguardo, con la vecchia Coppa UEFA. Il merito di Gasperini è quello di aver trovato il compromesso tra la valorizzazione dei calciatori, il core business del club orobico, e i risultati sul campo. Da questo punto di vista, la riscoperta di Bryan Cristante rappresenta probabilmente l’intuizione più alta del tecnico piemontese: l’ex Benfica e Milan, recuperato dopo due fallimentari esperienze in prestito a Palermo e Pescara, ha trovato una dimensione nuova, è diventato un centrocampista di livello superiore, efficace nella costruzione della manovra e decisivo in zona gol (12 marcature in tutte le competizioni), grazie a puntuali letture avanzate – tanto che Gasperini ha eliminato la prima punta dallo schieramento di partenza in diverse partite della stagione.
Cristante si è inserito in maniera perfetta, ha costruito un’assoluta simbiosi con un sistema tattico ed un ambiente basato sulla cultura giovanile e sul primato creativo di Papu Gómez (10 assist in campionato e una media di 3 occasioni create per match), fino a rispolverare ambizioni che sembravano appartenere solo al passato. L’Atalanta, anche quella bellissima di Gasperini, forse è già troppo piccola per un Cristante così vicino alle promesse giovanili, così forte, così completo.
La potenza in un colpo di testa
Cutrone, la freschezza di un anacronismo
La rivelazione di Patrick Cutrone è un viaggio nel tempo in due direzioni. Il ritorno al passato è un discorso di caratteristiche tecniche, di storicizzazione del ruolo di prima punta: Cutrone è distante dal modello contemporaneo, non ha grandi qualità associative, partecipa in maniera elementare alla manovra d’attacco. Due grandi testate internazionali, The Guardian ed Espn, hanno raccontato così il suo calcio: «Non è elegante, ma ha una capacità sorprendente di farsi trovare sempre al posto giusto. Ha un istinto naturale per la finalizzazione, ama giocare sul filo del fuorigioco, forse per questo è già stato paragonato a Pippo Inzaghi, un simbolo nella storia del Milan».
Nonostante questi anacronismi del gioco, Cutrone ha rappresentato una delle novità migliori nella stagione altalenante del Milan. È proprio questo il salto nel futuro, è un ragazzo di 20 anni in grado di realizzare 18 gol in tutte le competizioni – esattamente una rete ogni 148 minuti giocati – alla prima stagione da professionista. Gattuso, parlando del giovane Patrick, ha deciso di essere sensibile ma sincero, gli ha indicato con schiettezza il percorso da seguire: «Deve insistere, il suo compito è crescere dal punto di vista tecnico». È l’evoluzione del calcio che reclama qualcosa di più, perché la classicità del centravanti d’area di rigore non può bastare, a certi livelli. Cutrone ha tempo e modo per migliorare sé stesso, inoltre sembra possedere anche la giusta etica del lavoro: in un’intervista a Undici, ha spiegato che «è sbagliato valutare un attaccante solo dal numero dei gol, perché ha il dovere di giocare con la squadra»; ha detto pure che sa benissimo di «non aver fatto ancora niente», di essere «solo all’inizio». Difficile immaginare parole, premesse e promesse migliori per il suo futuro.
Cutrone lavora di sponda, poi fa gol: quello che potrebbe fare meglio, quello che sa fare benissimo
La salvezza di Politano
Udinese-Sassuolo si è giocata il 17 marzo 2018, fino a quel giorno i numeri di Matteo Politano raccontavano un’annata mediocre: 3 gol segnati e 3 assist decisivi in 29 partite, troppo poco per un calciatore di qualità superiore, in grado di interpretare in maniera dinamica il ruolo di esterno offensivo.
Pochi giorni fa, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport, lo stesso Politano ha commentato l’ultimo segmento della sua stagione: «Dalla partita di Udine in poi, Iachini mi ha schierato come seconda punta. Ho scoperto un ruolo che mi concede maggiore libertà, che mi permette di seguire l’istinto, per me è stata una svolta». I numeri confermano questa lettura (7 reti e 2 assist nelle successive 11 partite), ma non bastano a quantificare la reale incidenza di Politano sulla salvezza del Sassuolo: l’esterno cresciuto nella Roma ha permesso alla sua squadra di assorbire con serenità la transizione verso un gioco di rimessa che si è rivelato estremamente efficace, contro ogni avversario. Le reti realizzate contro il Napoli, il Milan, la Fiorentina e l’Inter sono state la sublimazione del nuovo Politano, hanno ampliato la sua prospettiva, hanno mostrato una possibile strada alternativa, come i bonus stage di alcuni videogame, necessari per completare la storyline, per essere davvero consapevoli del tutto.
Politano, modello seconda punta
La maturità di Immobile
Il discorso sulla stagione di Ciro Immobile non si esaurisce con il secondo titolo di capocannoniere in Serie A – 29 gol in coabitazione con Icardi. È anche un racconto di completezza, di perfezionamento in via di conclusione: a 28 anni, l’ex centravanti di Borussia Dortmund e Siviglia sembra aver individuato uno spazio in cui muoversi cancellando l’incostanza del passato, un modo di essere centravanti che si sposa perfettamente con la filosofia della sua squadra.
Il merito è anche di Inzaghi, ovviamente: ha costruito la Lazio secondo un sistema ibrido, tra calcio reattivo e gioco di posizione verticale, proprio per sfruttare le caratteristiche dei migliori uomini della rosa. E allora è successo spesso, praticamente sempre, che Luis Alberto e Milinkovic-Savic si associassero, allargassero o restringessero il campo mentre Immobile faceva quello che sa fare meglio: attaccare lo spazio, correre alle spalle della difesa avversaria, creare uno scompenso difficile da risolvere. A quel punto, ecco la maturità: Immobile ha imparato a domare parte del suo istinto, ad andare oltre il tiro in porta come unica opzione, tanto da concludere il campionato con 9 assist, ottavo calciatore in questa graduatoria particolare. La Lazio, in questo modo, è diventata la squadra con l’attacco più prolifico e più vario della Serie A. Non è bastato per la Champions, ma è servito a consacrare definitivamente Immobile: per la prima volta due stagioni consecutive in doppia cifra, e nella stessa squadra.
Il gol del pari contro la Juventus
Simone Verdi, oltre la balistica
Due punizioni segnate nella stessa partita, contro il Crotone, prima volta in Serie A dalla stagione 2004/2005. Soprattutto, due punizioni segnate nella stessa partita con due piedi diversi, risulta un solo precedente nel grande calcio europeo (Marcial Pina dell’Atletico Madrid, nel 1978 al Camp Nou). Per trovare qualcosa di simile in Italia, bisogna tornare ad Hernanes, durante la sua esperienza all’Inter – anche se il brasiliano segnò da fermo, col destro e col sinistro, in due match differenti. L’annata eccellente di Simone Verdi potrebbe ridursi all’unicità di questo primato balistico, se non fosse che il suo calcio va decisamente oltre, per qualità, completezza della proposta tecnica, impatto sul sistema di gioco e sui risultati del Bologna.
Questione di responsabilizzazione, di centralità: Donadoni ha concesso a Verdi ampia libertà creativa, ha spesso rinunciato a una prima punta di riferimento (solo 19 partite da titolare per Mattia Destro), privilegiando l’interpretazione associativa di Palacio. In questo modo, Verdi ha potuto muoversi lungo tutto il fronte d’attacco, in modo da ricercare in ogni azione gli spazi giusti e la soluzione migliore per creare l’occasione buona e/o finalizzare in prima persona. Una dimensione tattica che ha esaltato la sua crescita, e che ha permesso al Bologna di vivere una stagione di relativa tranquillità: con la sua doppia doppia (10 gol e 10 assist) e il suo contributo continuo nella costruzione della manovra offensiva (1,5 passaggi chiave e 1,3 cross per match), Verdi è stato il calciatore più determinante dell’organico rossoblu. Dopo il mancato trasferimento al Napoli a gennaio, il passaggio a un livello superiore è uno step meritato, viene da dire obbligato, per un elemento così talentuoso, così moderno nel suo approccio al gioco.
Simone Verdi gioca bene anche in movimento
Alisson, fuoriclasse
In un’intervista rilasciata a Undici, Alisson si è espresso così: «Un portiere, per essere moderno,deve avere personalità, posizionamento, concentrazione e soprattutto deve saper leggere le situazioni in anticipo. Certo, anche giocare con i piedi è importante: significa avere un giocatore in più».
L’estremo difensore della Roma voleva descrivere e sintetizzare la dimensione contemporanea del ruolo, solo che in realtà ha spiegato la propria grandezza, ha praticamente elencato le sue qualità. Al primo anno da titolare in Europa, Alisson ha mostrato un repertorio completo, perfettamente calato in quest’era calcistica, conforme al sistema di gioco di Di Francesco. Il suo impatto è stato davvero dirompente proprio per questo motivo: ha influenzato positivamente il gioco della Roma, al di là degli interventi decisivi, al limite del miracoloso, che hanno scandito con regolarità la stagione giallorossa tra campionato e Champions League. È un discorso di miglioramento fattivo e percettibile, di sicurezza e consapevolezza in aumento, sensazioni garantite solo dai grandi fuoriclasse. Ecco, Alisson ha dato spesso l’impressione di essere molto vicino a questa definizione, di poter aspirare a questo status. Con un Mondiale alle porte, a 26 anni da compiere, forse è solo questione di tempo.