I dubbi dell’Argentina

Tutto ruota intorno a Messi, ma potrebbe non bastare.

Il 5 ottobre del 2017, l’Argentina ha pareggiato contro il Perù nella penultima giornata delle qualificazioni ai Mondiali. Lo 0-0 maturato alla Bombonera è stato raccontato da Martín Caparrós con un pezzo non convenzionale pubblicato dal New York Times – lo scrittore di Buenos Aires non era allo stadio, ma ha seguito il match con la comunità argentina residente nel Queens. Probabilmente, la parte più suggestiva e significativa del testo di Caparrós riguarda la presa di coscienza rispetto alla reale forza della Selección: «Nei primi minuti, il Perù si è comportato come un timido e pauroso sparring partner. Fino a che la timidezza e la paura non sono svanite, e allora i calciatori peruviani si sono resi conto di una cosa che tutti sanno, ma a cui nessuno vuole credere: l’Argentina è una squadra mediocre, e allora puoi attaccarla, puoi permetterti di non rispettarla».

Cinque giorni dopo, l’Argentina ha battuto l’Ecuador in trasferta per 3-1 e si è qualificata alla Coppa del Mondo. Le tre reti della squadra di Sampaoli sono state realizzate da Lionel Messi. L’inviato del Clarín a Quito ha commentato così la partita: «Lionel Andrés Messi ha sconfitto da solo l’Ecuador, con una prestazione assoluta ha reso memorabile una notte che era cominciata in maniera drammatica. Messi è riuscito a salvare una squadra e una federazione che avrebbero pienamente meritato di godersi i Mondiali in televisione».

La paura, poi la gioia

I narratori del fútbol gaucho sembrano avere consapevolezza dello stato di crisi in cui versano la federazione di Baires, i club della Primera División, la Nazionale maggiore e le selezioni giovanili. Una condizione che nasce da lontano, dall’inadeguatezza dei dirigenti, dalla mancanza di una visione prospettica rispetto allo sviluppo del movimento. In un articolo pubblicato da Undici poco più di un anno fa, Antonio Moschella ha ricostruito l’intero percorso di decadenza istituzionale del calcio argentino, dall’operazione Fútbol para todos voluta da Nestor Kirchner fino alle bufere successive alla morte di Julio Grondona, boss dell’Afa dal 1979 al 2014. La squadra che si appresta a disputare il Mondiale in Russia è figlia di questa perdurante instabilità politica, che ha indebolito l’intera filiera di produzione del talento. È una questione di struttura e sovrastruttura, come spiegava già nel 2009 l’ex ct della Selección José Pekerman: «Dopo le sconfitte degli anni Settanta, fu implementato un sistema di reclutamento e valorizzazione dei calciatori che ha portato l’Argentina a grandi successi, a livello senior e giovanile. Il metodo di lavoro contemporaneo è decisamente disorganico, il campionato si è impoverito, è diventato meno attrattivo rispetto ad un mercato globale che scopre nuove frontiere. Oggi è possibile emigrare anche in Turchia, in Russia o nei Paesi arabi, e per farlo non c’è più bisogno di primeggiare nei club o di giocare in Nazionale, quindi finisce che i migliori prospetti lascino prestissimo il paese. È una situazione che sfavorisce una reale selezione e rende sempre meno competitive le squadre locali, costrette a fare affidamento su calciatori di basso livello, oppure su vecchie glorie di ritorno da lunghe esperienze in Europa, come ad esempio Simeone, Verón, Palermo o Riquelme».

Le parole di Pekerman anticipano la realtà dei giorni nostri, quella per cui la convocadoria di Sampaoli è profondamente squilibrata dal punto di vista anagrafico e tecnico. La spina dorsale della squadra che vedremo in Russia è di grande qualità, ma si compone di calciatori con un età superiore o vicina ai trent’anni, all’ultima grande vetrina con la maglia albiceleste (Messi, Biglia, Mascherano, Agüero, Fazio, Mercado, Otamendi, Banega); ci sono alcuni giovani di valore (Dybala, Lo Celso, Lanzini e Cristian Pavón), ma hanno un ruolo ancora marginale rispetto ai senatori. Parallelamente a questo vuoto generazionale, l’Argentina soffre di un enorme scompenso tra i vari reparti, il talento è abbondante soprattutto negli uomini offensivi, mentre difesa e centrocampo sono aggrappati a giocatori dall’età avanzata, oppure distanti dal valore assoluto dei compagni in attacco (Caballero, Rojo, Tagliafico, Ansaldi, Meza, Acuña). È il sintomo di una politica di formazione improvvisata, non sistemica, legata esclusivamente alla forza casuale delle individualità.

La scarsa organizzazione strutturale ha letteralmente cancellato un decennio di calcio giovanile, tanto che appena due dei 63 calciatori convocati per le edizioni 2011, 2015 e 2017 dei Mondiali Under 20 sono entrati nella lista di Sampaoli (Tagliafico e Pavón). Nel 2013, invece, la Sub-20 non è nemmeno riuscita a qualificarsi per la fase finale, eliminata da Cile, Colombia e Paraguay. Per spiegare questa crisi, Hugo Tocalli – storico collaboratore di Pekerman – ha chiamato in causa la professionalità dei tecnici e le politiche dei club: «Ci sarebbero dei buoni giocatori, ma mancano d’esperienza, di un circuito progressivo e meritocratico di inserimento. Prima di arrivare alla Selección Mayor, Mascherano ha dovuto giocare 50 partite con le Nazionali minori, mentre oggi elementi come Lo Celso vengono lanciati direttamente nella prima squadra. È un problema di formazione, un allenatore che lavora con i giovani dovrebbe essere in grado di comprendere le esigenze dei suoi ragazzi, di individuare e valorizzare il talento. Oggi è tutto diverso, le squadre del massimo campionato hanno perso di vista questo aspetto, dovrebbero comprendere che il loro compito primario è quello di costruire dei buoni giocatori». Anche Jorge Valdano si è espresso in questo modo, con una frase decisamente più romantica: «El fútbol argentino perdió el amor por la pelota. Hemos cambiado de la pasión por el juego hacia la pasión por el resultado». In questo caso il risultato è un evento composito, tra la classifica e la speranza di una plusvalenza sul mercato, necessaria alla sopravvivenza economica delle società.

Alla vigilia dell’amichevole di marzo contro l’Italia, Jorge Sampaoli ha parlato così in conferenza stampa: «La Nazionale argentina appartiene più a Messi che al sottoscritto». È una frase impegnativa, forse discutibile, ma il concetto espresso aderisce profondamente alla realtà e va ben oltre l’interpretazione cospirazionista del “clan Messi” che decide o comunque orienta le convocazioni del commissario tecnico – una narrazione che ha trovato terreno fertile in Italia, soprattutto in relazione alla scarsa considerazione nei confronti di Mauro Icardi. La squadra costruita dall’ex allenatore del Siviglia ruota completamente intorno alla figura del suo capitano, è un discorso legato alla grandezza assoluta di Messi ma anche all’assenza di una reale alternativa tattica e carismatica. Anche questa è una conseguenza diretta della crisi di cui abbiamo parlato finora, e mostra la sua tangibilità nelle valutazioni di mercato: secondo Transfermarktil calciatore argentino più costoso dopo Messi è Paulo Dybala (quotazione di 100 milioni di euro); Icardi tocca quota 75 milioni, poi per trovare un altro under 25 bisogna scendere fino ai 25 milioni di Lautaro Martínez e Ángel Correa – elementi di buon livello ma ancora lontani da una definitiva affermazione internazionale, e che non sono stati convocati da Sampaoli per il Mondiale in Russia. Da questo punto di vista, il confronto con altre realtà è impietoso: sempre utilizzando le liste di Transfermarkt, Brasile, Spagna e Germania hanno rispettivamente sette, otto e dieci under 25 con valutazioni superiori ai 25 milioni.

Pochi giorni dopo il successo contro l’Italia, l’Argentina ha offerto la rappresentazione plastica della propria crisi tecnica e progettuale, rimediando una sconfitta per 1-6 nel test match di Madrid contro la Spagna – con Messi assente, bloccato da un problema muscolare. Il Clarín ha commentato con toni molto molto severi la partita del Wanda Metropolitano: «In linea di principio, non è un novità che la squadra di Sampaoli non esista in quanto tale, che dipenda totalmente da Messi. Ma la realtà è che non funziona, anche con Leo in campo. Non è una questione di approccio al gioco, quanto di qualità: l’Argentina prova a giocare un calcio propositivo, a costruire l’azione partendo dalla difesa, a replicare il modello associativo e dinamico della Spagna. Solo che la squadra di Lopetegui ha mostrato un’efficacia travolgente, mentre quella di Sampaoli è una fiera delle buone intenzioni che si scontra con le caratteristiche dei suoi calciatori». 

Spagna-Argentina 6-1

In vista del Mondiale che sta per iniziare, l’Argentina si troverà alle prese con una situazione anomala, praticamente inedita: per la prima volta dopo tanti anni, il valore assoluto della Selección è inferiore a quello di molte altre selezioni candidate al titolo. La federazione, esattamente un anno fa, ha provato a controbilanciare questa condizione da underdog assumendo Jorge Sampaoli, un ct di grande impatto, un visionario potenzialmente in grado di garantire un surplus tattico ed emotivo alla squadra, di costruire sul campo la visione sistemica che è mancata alle istituzioni calcistiche negli ultimi vent’anni. Finora, l’ex allenatore del Cile non è riuscito ad invertire il trend, ad attuare compiutamente la sua rivoluzione, dimostrando una volta di più come una Nazionale dell’era moderna possa essere competitiva – o quantomeno equilibrata, anche dal puro punto di vista tecnico – solo passando attraverso una pianificazione politica che vada in profondità, che possa guidare l’intero sistema di produzione e valorizzazione del talento.

È il paradigma del calcio contemporaneo, al quale non si sfugge a lungo: l’Argentina di Messi e Sampaoli, dei Mascherano e dei Lo Celso, è una squadra anacronistica e romantica, che ha un certo presente di competitività relativa e un futuro che si presenta abbastanza nebuloso. In un pezzo pubblicato da El País, si legge di come Sampaoli sia «molto preoccupato» degli ultimi sopralluoghi agli allenamenti della rappresentativa Under 20; alla base della sua inquietudine, ci sarebbero «le carenze tecniche dei giovani calciatori argentini, soprattutto per quanto concerne la ricezione e lo smistamento del pallone». Il cambiamento è necessario e urgente, perché Messi non è bastato, e non potrà neanche fungere da immortale giustificazione, da eterno parafulmine. Il domani dell’Argentina dovrà passare da un altro modo di pensare e costruire le cose, di approcciare al calcio, se vorrà essere all’altezza della storia.