Il Liverpool trasformato da Jürgen Klopp

In tre anni è un'altra squadra, pronta per vincere. Cosa è cambiato?

Il fatto che, tra gli attuali allenatori delle venti squadre di Premier League, Jurgen Klopp sia il quinto più longevo (dietro Chris Hughton, Mauricio Pochettino, Sean Dyche e Eddie Howe), racconta due grandi verità del campionato più popolare del momento: il continuo e progressivo ricambio generazionale sulle varie panchine, prodromico dell’implementazione di filosofie calcistiche diverse ma ugualmente dominanti, e la notevole incidenza dell’ex tecnico del Borussia Dortmund in “appena” tre anni di gestione, tanto più se si considerano le condizioni in cui, l’8 ottobre del 2015, subentrò a Brendan Rodgers.

Provando ad andare oltre numeri e statistiche – su 166 partite Klopp ne ha vinte di più (88 vs 85), con una media punti (1.87 vs 1.77) e un rapporto reti fatte/subite decisamente migliori e impiegando un numero minore (58 vs 65) di giocatori – gli indubbi passi in avanti fatti rispetto alla gestione dell’attuale allenatore del Celtic Glasgow (che pure aveva incredibilmente sfiorato il titolo nel 2013/14), sono riconducibili a un processo di crescita continuo ed organico – dai 65 punti realizzati nelle prime 38 gare si è passati agli 82 delle ultime 38 – che ha portato una squadra capace di exploit più o meno estemporanei a diventare una seria candidata ai vari titoli in palio nel corso della stagione. Un qualcosa che va ben al di là della prossima scadenza della deadline che lo stesso Klopp fissò nella sua conferenza stampa di insediamento («Se tra quattro anni dovessi essere ancora qui, sono molto fiducioso nel fatto che avremo conquistato almeno un titolo»), della “maledizione delle finali” che continua a perseguitarlo (ne ha perse sei negli ultimi cinque anni, tre con i “Reds” da quando, nel 2016, perse la Coppa di Lega contro il City e l’Europa League contro il Siviglia), dei quasi 180 milioni di euro spesi nell’ultima campagna acquisti per provare finalmente a raccogliere quanto seminato.

Subentrando a Rodgers all’inizio del 2015/16, Klopp ereditò una squadra reduce da appena quattro vittorie nelle prime undici partite (più due sconfitte e cinque pareggi scialbi), incapace di segnare più di una rete in dieci di queste ultime nonostante un attacco che poteva contare su Philippe Coutinho, Roberto Firmino e Christian Benteke: dei 41 elementi allora in rosa, appena 12 sono ancora a Liverpool e solo quattro – Henderson, Milner, Firmino e Gomez – possono vantare la titolarità, mentre i vari Origi, Lallana, Lovren, Moreno, Sturridge, sono passati da un minimo di 20 presenze stagionali al ruolo di backup players. La rimodulazione del parco giocatori è stato il principale, ma non unico, strumento attraverso il quale l’allenatore ha cercato (e sta cercando) di plasmare una squadra a sua immagine e somiglianza. Jack Lusby ha scritto su FourFourTwo: «Fin da subito Klopp ha dimostrato una decisione nettamente in contrasto con la delicatezza della sua posizione al momento del suo arrivo. Anche se alcune decisioni, come nel caso di Coutinho ed Emre Can, sono andate contro la sua volontà, l’attuale formazione del Liverpool è arrivata alle condizioni del suo manager».

Tuttavia non è, e non può essere, solo una questione di investimenti fatti sul mercato («Abbiamo davvero una buona squadra. Migliorarla è costoso. Giocatori migliori di quelli che già abbiamo non si trovano certo dietro l’angolo», ha recentemente ribadito il tecnico), benché perfettamente funzionali ad un sistema di gioco ugualmente identitario, riconosciuto e riconoscibile ma molto più versatile rispetto al recente passato: anzi è stato proprio questo voler “scendere a compromessi” con una filosofia meno improntata alla verticalità e all’immediatezza ad ogni costo, a rendere il Liverpool 3.0 una macchina potenzialmente perfetta per gareggiare fino all’ultima curva con il Manchester City campione in carica e dare nuovamente l’assalto, con ragionevoli probabilità di successo, alla Champions League. Una “liquidità” che sembra maggiormente rispondente alle esigenze del calcio del XXI secolo, dove non sembra esserci più spazio per gli estremismi, almeno per competere con continuità a certi livelli.

In tal senso la svolta più significativa può essere fatta risalire all’ingaggio di Virgil van Dijk: non tanto e non solo per l’effettivo valore tecnico del giocatore stesso o per l’esborso economico (a tutt’oggi risulta essere il difensore più caro di sempre e il quarto acquisto più costoso della storia della Premier) quanto, piuttosto, per quello che ha significato in termini di cambiamento dei meccanismi difensivi e globali. Perché, come abbiamo sottolineato anche qui su Undici, è sulla rinnovata compattezza e stabilità in non possesso che il Liverpool sta costruendo le proprie fortune, lasciando a Salah, Firmino (quest’ultimo, tra l’altro, è il giocatore più presente ed efficace della gestione Klopp in campionato: 104 presenze condite da 38 gol, 23 assist e 187 occasioni create, oltre che un considerevole apporto in fase passiva con 190 contrasti effettuati) e Mané il compito di dare concretezza a tutto il resto. Anche in questo caso bisogna andare oltre i numeri, pur se ragguardevoli (fino alla rete di Hazard nell’1-1 a Stamford Brige, dal 22 ottobre 2017 i Reds avevano concesso appena 24 reti, con 18 clean sheet e la media di un gol subito ogni 130 minuti): pur restando fermi i capisaldi del Gegenpressing (soprattutto quando si tratta di aggredire in avanti i centrali difensivi avversari in situazioni di parità numerica), lo switch è stato possibile grazie alla scelta di accorciare ulteriormente le distanze tra i reparti, aumentando la densità in mezzo al campo e rendendo difficile la prima costruzione e l’altrui occupazione degli half spaces. E anche quando si tratta di modificare il proprio baricentro attraverso l’implementazione di blocchi difensivi posizionali più bassi, la squadra di Klopp sta dimostrato quella durezza mentale e quella concentrazione che tante in volte erano mancate in passato, soprattutto nei momenti decisivi.

 

Detto, poi, di modalità offensive molto più complete e multidimensionali di quanto la narrazione stereotipata della ricerca delle verticalità ad ogni costo lascerebbe supporre (è dalla seconda parte della scorsa stagione, infatti, che in fase di possesso i Reds tendono a privilegiare una costruzione della manovra che coinvolga anche i terzini per risalire più rapidamente possibile il campo e facilitare la preparazione degli inserimenti tra le linee delle mezzali), è proprio questa capacità di interpretare più spartiti tattici, spesso anche all’interno della stessa partita, il nuovo punto di forza del Liverpool. Oltre a costituire il principale discrimine con squadre magari più dotate tecnicamente (United e Tottenham su tutte), ma non altrettanto ricettive in relazione all’adattabilità ad un determinato contesto, nonché la testimonianza tangibile di quanto e come Klopp abbia inciso sulle prospettive presenti e future di una squadra che rischiava di rimanere incompiuta: «Da quando sono qui, in ogni stagione c’è sempre stato un momento in cui mi hanno chiesto dei nostri progressi. Sono abituato: certo non mi fa impazzire, ma va bene così. Tutto quello che dobbiamo fare è lavorare in base alle caratteristiche dei giocatori, con la consapevolezza che i nuovi ci renderanno più forti al 100%», ha dichiarato al Guardian lo scorso luglio. «Quando hai la squadra al completo e si hanno basi solide si può costruire sempre qualcosa in più poggiando sulle stesse. Il calcio che abbiamo giocato l’anno scorso non è stato facile, c’era un sacco di lavoro dietro per permetterci di esprimerci in quel modo. Sono fiducioso che possiamo ripartire da lì e costruire su quella base: questo è quello che faremo e non ho dubbi sul fatto che riusciremo a farlo di nuovo».

Nella speranza che il lavoro paghi e che, per una volta, a cambiare sia il finale. Ha scritto ancora Lusby: «Ora il tedesco guida una squadra che può contare su un realizzatore da record come Salah, supportato perfettamente da Mané e Firmino; un centrocampo dinamico e fluido che comprende Keita, Fabinho, Wijnaldum, Henderson e Milner; una difesa solida che poggia su van Dijk, Gomez e Allisson; un mix giovane e interessante sugli esterni con Robertson e Trent Alexander-Arnold; e un’ampia varietà di scelta in panchina con elementi del calibro di Shaquiri e Sturridge. Con tutto questo a disposizione, i trofei sono l’unica ambizione possibile».

 

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