Perché gli allenatori sono sempre più longevi

Sono il centro del progetto, costruiscono e custodiscono l'identità dei club.

Mentre Diego Pablo Simeone rivolgeva quel gesto alla tribuna del Wanda Metropolitano, per sottolineare gli attributi del suo Atletico Madrid dopo il 2-0 alla Juventus, sorgeva spontanea una domanda collaterale: come è possibile che, dopo (oltre) sette lunghi e logoranti anni alla guida dell’Atlético Madrid, il Cholo sia ancora così “partecipativo”? O meglio: come è possibile che sia ancora così profondamente “nella parte” di tecnico emotivamente coinvolto? La risposta alla domanda è la chiave per capire la tendenza alla longevità dei tecnici, sempre più diffusa nei top team europei. Simeone non ha perso “smalto” perché i suoi gesti – quello sopracitato è rilevante soprattutto perché è l’ultimo in ordine cronologico – sono diventati il marchio dell’Atlético Madrid, un tratto distintivo di un’identità costruita in prima persona dallo stesso Simeone.

Il Cholo è il secondo tecnico più longevo d’Europa dopo Stéphane Moulin (all’Angers dall’1 luglio 2011, cinque mesi e mezzo prima dello sbarco a Madrid di Simeone), ma soprattutto è il primo di una lista di top manager ormai legati da tempo a un solo club:  Pochettino al Tottenham (4 anni e 11 mesi), Allegri alla Juventus (4 anni e 10 mesi), Klopp al Liverpool (3 anni e 7 mesi), Guardiola al City (2 anni e 10 mesi) ma anche Zidane al Real Madrid (2 anni e 4 mesi, più il nuovo mandato cominciato da 47 giorni). La causa è la crescita della loro influenza nelle società. Gli allenatori stanno svestendo la tuta per indossare abiti da scrivania, fissano insieme ai dirigenti le linee guida dei progetti, sono informati sulle possibilità economiche dei club, contribuiscono a delineare obiettivi plausibili rispetto al valore competitivo della rosa, indicano giocatori sul mercato in relazione ai budget e al modello di gioco che intendono applicare. Ma non solo: sono anche i volti più esposti al pubblico, se non altro per obblighi contrattuali con i media, dunque sono le figure che meglio possono filtrare verso l’esterno ciò che accade all’interno del club. E, in ultimo, svolgono il loro mestiere, in senso stretto: allenano la squadra, progettano un modello di gioco e cercano di applicarlo. Sono, in sostanza, il principale perno attorno al quale ruotano le squadre di calcio contemporanee.

Simeone è un manifesto perché è stato (ed è) il punto di convergenza dell’Atletico Madrid, colui dal quale è nata la nuova era e attorno al quale continua a evolversi. La sua permanenza prolungata stupisce per via del suo stile: un ciclo così lungo sembra impossibile da concepire, visto che parliamo di un tecnico particolarmente esigente con i giocatori, sia a livello emotivo che fisico, e quindi (potenzialmente) uno la cui “presa” sulla squadra può allentarsi in fretta. Invece la sua longevità ha permesso all’Atletico di creare e consolidare un’identità che dal campo si è propagata nella società e nel pubblico, formando oggi un tutt’uno inscindibile. Un’impalcatura così solida da poter resistere anche ai venti contrari dei risultati negativi. Che diventano un’eventualità da accettare pur di proteggere la continuità in panchina, i progetti di crescita a immagine e somiglianza dell’allenatore.

È questo il punto chiave della questione: nell’era del calcio in cui i fatturati sono impennati e le storiche grandi società hanno consolidato un dominio primariamente economico, chiunque voglia raggiungerle senza svenarsi attraverso campagne acquisti faraoniche è obbligato a programmare. Ma, di contro, anche chi ha investito tanto si è ritrovato (il City) o si ritrova (il Psg, in particolare) nella condizione di dover avviare un progetto incentrato su un tecnico e sulle sue idee, in modo tale da gettare le basi solide per alimentare uno sviluppo organico.

Un altro caso di crescita graduale, e incentrata sulla sfera tecnica, è quello del Tottenham di Pochettino. Eliminando il City ai quarti, il tecnico argentino ha riportato gli Spurs in semifinale di Champions a quasi sessant’anni dall’ultima volta. Almeno per ora è il miglior frutto di una semina che ormai dura da cinque anni, ma il rapporto tra il Tottenham e Pochettino va decisamente oltre: la crescita sportiva del club londinese (certificata anche dalle presenza sul podio della Premier nelle ultime tre stagioni) procede di pari passo rispetto a quella economica – in quattro stagioni il fatturato è passato dai 209 milioni di sterline del 2016 ai 380,7 dell’ultimo esercizio – e a quella strutturale, come dimostra il nuovo stadio da oltre 800 milioni di euro appena inaugurato. Non è un caso, poi, che gli Spurs raggiungano il miglior risultato europeo della loro storia nella stagione in cui hanno rinunciato al mercato: è semmai la prova che la società ha puntato tutte le sue fiches su Pochettino, considerando la sua idea di gioco come il miglior investimento per il miglioramento della qualità media della rosa, una specie di pozzo da cui i giocatori possono continuare ad attingere per implementare le loro performance. E così è stato, in effetti: basti pensare alla recente ascesa di Son, possibile solo con  un allenatore che ne ha levigato pregi e difetti. In questo contesto di reciproca fiducia tra dirigenti e club, la scelta conservativa della proprietà sul mercato ha avuto un effetto contrario rispetto a quello “tradizionale”: anziché alimentare il malcontento del tecnico, ha fortificato il valore del suo lavoro, suggerendo implicitamente che quest’ultimo è il motivo per cui non c’è bisogno di operare nuovi acquisti.

Ad opera di Pochettino, Guardiola è uscito sconfitto dai quarti di finale di Champions, fallendo per il terzo anno consecutivo la consacrazione europea per cui il City l’avrebbe assunto. La permanenza di Pep a Manchester è ormai giunta al terzo anno, e dovrebbe andare per il quarto. Non sembrano esserci sorprese all’orizzonte, anche in caso di titolo mancato. Proprio perché, per paradosso, non sono i trofei vinti ad incentivare il prolungamento del matrimonio, ma le sensazioni relative al progetto: Pep è stato ingaggiato per costruire nel City le fondamenta mancanti di un progetto nato velocemente, quindi puntualmente traballante nei momenti decisivi delle campagne europee. Guardiola è a Manchester per fare ciò che Pochettino e Simeone stanno facendo o hanno fatto nel Tottenham e nell’Atlético, per far sì che il City diventi un’entità riconoscibile, riconosciuta, solida e quindi in grado di crescere con continuità nel tempo, anche in sua assenza. Sabotare Guardiola per l’impazienza di compiersi in ambito europeo sarebbe un rischio eccessivo per un club che gli ha affidato le chiavi del futuro. Pep è necessario al consolidamento di un progetto che, senza di lui, andrebbe rivisto, o più probabilmente riavviato completamente.

La pazienza verso gli allenatori di prim’ordine, in sostanza, paga. Lo dimostra la crescita di altre società che l’hanno avuta. Il Liverpool, ad esempio, ha rifondato la propria immagine attorno a Klopp, alla sua idea di gioco appassionata e appassionante, in linea con il sentimento dei tifosi Reds, e alla sua comunicazione positiva. Il tecnico tedesco è sbarcato a Liverpool ormai tre anni e mezzo fa, e in questo arco temporale non ha portato alcun trofeo ai Reds, ma ha di certo costruito le basi per un successo, sia in Premier, dove ora lotta punto a punto con il City, che in Europa, dove ha disputato due finali (di Europa League prima, di Champions poi) e quest’anno è arrivato in semifinale.

E ancora: il giorno prima del contrappasso del Tottenham sul City, Allegri annacquava la sconfitta della Juventus contro l’Ajax annunciando l’intenzione di voler rimanere a Torino anche nella prossima stagione. Dovesse mantenere la promessa, diventerebbe la sesta stagione consecutiva alla guida della Juve, una longevità d’altri tempi per i canoni della Serie A. Anche in questo caso, il metodo gestionale di Allegri è così coerente rispetto alle necessità della Juve che nessuna delle due parti in causa, almeno ad oggi, sembra voler rompere l’equilibrio. Il tecnico punta a valorizzare i giocatori quasi annullando la ricerca di un’idea di gioco, e al di là dei dubbi (leciti) della critica in merito, la realtà è che svolge il compito che gli ha assegnato la società. Il patrimonio tecnico, nel corso di questi anni con Allegri, è senz’altro migliorato, ed è diventato una garanzia di successo in Italia. Anche questa è una coerenza gestionale che spiega la longevità del tecnico livornese, caso unico nei top team italiani dell’ultimo decennio.

Non si tratta di top manager né di top club, ma il fatto che il secondo allenatore più longevo in Italia sia Semplici alla Spal (4 anni e 5 mesi), e che Howe e Dyche superino i 6 anni e mezzo alla guida di Bournemouth e Burnley in Premier, e che in Bundesliga siano ben 4 gli allenatori sopra i 3 anni di permanenza, con Streich al Friburgo addirittura a quota 7, certifica l’allungamento della durata media della vita degli allenatori europei, motivato dal cambio d’idea nella gestione dei club. Oggi, dopo anni frettolosi e frenetici in cui Wenger e Ferguson all’Arsenal e al Manchester United erano le eccezioni, le società hanno rivalutato l’esigenza di progetti a tutto tondo a lungo termine a discapito del desiderio di vittorie estemporanee. È, paradossalmente, una restituzione al valore del gioco in un calcio sempre più desideroso di crescere sul piano economico, come se non fossero più i fatturati a indurre un upgrade della sfera tecnica, piuttosto l’esatto contrario, e allora il consolidamento dell’identità del club funge da rampa per arrampicarsi verso la crescita finanziaria, verso il successo.

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