Mi ero preparato con un certo entusiasmo per questo Mondiale femminile, da qualche mese: un po’ per lavoro – avevamo deciso di aprire le pagine di questa rivista, che si inserisce nel solco editoriale chiamato “maschile”, con interviste ad alcune delle calciatrici italiane più forti – e un po’ per passione, per curiosità, per entusiasmo verso questo Mondiale che si avvicinava e che vedeva un’attenzione mediatica, mi pareva, che non avevo mai riscontrato in precedenza. Ero impreparato, naturalmente e colpevolmente, prodotto anche io di un sistema che non ha considerato per decenni null’altro se non la Serie A maschile. Ma sono Mondiali, questi francesi, che hanno naturalmente un significato che va un bel po’ oltre quello semplicemente sportivo: sono parte di un percorso alla ricerca di una più diffusa parità di genere, di empowerment, parola bella e purtroppo intraducibile e che ci toccherà allora felicemente adottare.
L’entusiasmo è cresciuto nei giorni che si avvicinavano al Mondiale, ma non mi pareva nulla di paragonabile a quello che ho sempre provato, ogni quattro anni, per la Nazionale maschile, quella che mi sembrava fosse l’unica. Le Under sì, c’erano, ma sono sempre state un punto di partenza, non di arrivo. La domenica dell’esordio contro l’Australia avevo organizzato la giornata intorno alla partita: la colazione abbondante per non pranzare alle 13, gli impegni tutti spostati al pomeriggio. “Come per le grandi occasioni”, mi dicevo. Inizia la partita, Manuela Giugliano lancia Barbara Bonansea con una verticalità da Rui Costa, lei fa gol, anzi no è un gol annullato. Poi attacca l’Australia, che avevo imparato a conoscere sulla carta e di cui avevo imparato a temere quella Samantha Kerr, che infatti anticipa nettamente Sara Gama, capitano dell’Italia, che la butta giù ed è rigore. Impreco contro Gama, mi arrabbio, soprattutto mi accorgo che non sto guardando una partita “come per le grandi occasioni”: sto guardando una di quelle grandi occasioni. Spengo il computer, prendo la bicicletta, sudo mentre mi dirigo verso il bar dove so di trovare altre decine di persone davanti a un maxischermo, proprio come per le grandi occasioni.
C’entra questo fatto di imparare a conoscere i nomi, i volti, le capacità tecniche e le smorfie di una squadra nuova: oltre le vittorie e il passaggio del turno, è soprattutto la nuova didattica dell’entusiasmo a essere importante nell’innamoramento di una nuova squadra. Trasformare i protagonisti dello sport in protagonisti di una narrazione romanzesca è l’attività automatica che sta alla base del tifo: bisogna allontanare dalla realtà, difettosa, e incastonare in un iper-mondo, in cui i colpi a effetto diventano superpoteri, i tratti caratteriali si ingigantiscono, e così via. Abbiamo, io e milioni di tifosi, preso ormai una buona iniziale confidenza con queste atlete – queste donne – durante le partite contro Australia, Giamaica, Brasile, e le stiamo lentamente trasformando in personaggi, eroine, parte dell’immaginario condiviso.
So che va cercata sempre Barbara Bonansea perennemente spostata sul lato sinistro, perché punta la porta in diagonale e può rientrare sul destroSono sempre più familiari, adesso, le figure come quella di Milena Bartolini elegante vestita di Armani e con lo sguardo severo, di Manuela Giugliano a cui affiderei la palla sempre, lei che la controlla e la lavora di suola, evita l’intervento di una centrocampista e alza la testa e lancia, con un rasoterra preciso, in avanti o sul lato. So che va cercata sempre Barbara Bonansea perennemente spostata sul lato sinistro, perché punta la porta in diagonale e può rientrare sul destro per aprire un tiro a giro, e me la immagino ormai sempre con i capelli all’indietro e la fascia rosa sulla fronte. Cristiana Girelli mi dà sicurezza e mi esalta più di tutte perché è capace di controllare il pallone sulla destra spalla alla porta, inaspettatamente si gira con un tacco e lasia lì un’avversaria correndo lungo la fascia, e allo stesso tempo è così duttile da essere in grado di prendere posizione in area piccola come un vero 9 più che un 10. Mi fa ridere e commuovere quando poi scherza nel dopopartita o dice, come ci disse in un’intervista di qualche settimana fa, un po’ amaramente, «si sono buttati via troppi anni» parlando del calcio femminile in questo Paese. Poi ho imparato a contare su Elena Linari che non ne fa passare una, a sperare in un inserimento di Aurora Galli che corre tantissimo, segna, e corre ancora tantissimo, a pregare Elisa Bartoli di andarci piano con i contrasti e le proteste, a fidarmi di Laura Giuliani e sui suoi istinti, con quella faccia gentile e che però mormora “mortacci tua” in primo piano nonostante la milanesità.
Poi c’è la parte fuori dal campo, la cornice, l’entusiasmo e la sensazione di vivere una prima volta: l’Italia doveva essere un’outsider e si è scoperta essere molto di più, gioca bene e soprattutto cresce di partita in partita in sicurezza, fa girare il pallone all’indietro senza paura, sa tenere la testa alta non in senso retorico ma proprio con gli occhi che guardano in alto e cercano soluzioni. È, questa, una Nazionale che sta creando qualcosa che non si aspettava nessuno, nemmeno la stessa Bertolini, come ha detto in un’intervista successiva alla partita contro il Brasile. È una sorpresa calcistica ed è, soprattutto, una sorpresa emotiva: è già provata e allo stesso tempo nuova la sensazione di tornare a casa dopo una vittoria dell’Italia e sentire la sensazione di far parte di qualcosa che può crescere oltre ogni aspettativa, aggiungendo aspettative e tensioni alla giornata precedente la partita, e tutte queste cose qui che il calcio sa fare. Non è un caso, alla fine, che i Mondiali si giochino d’estate.