Roger, Rafa e Nole, al di là della realtà

Anno dopo anno, i tre ultratrentenni sono sempre più imbattibili.

Ci sarebbe una sola consolazione possibile: arrampicarsi fino alla nuvoletta doppi servissi che indubbiamente Rudyard Kipling si sarà fatto assegnare, trascinarlo per cinque ore sul Centre Court, fargli giocare cinque set senza eccezione sublimi, e farglieli perdere. Poi trascinarlo davanti al suo venerato Duca di Kent, mettergli in mano il piatto del finalista, e vedere se ha ancora voglia di ripetere la sua immane baggianata sul Trionfo e il Disastro, quella scolpita proprio all’ingresso del campo.

Certamente ne aveva pochissima voglia Roger Federer, che per una volta ha lasciato sulla sedia, oltre all’inaudito piumino con cui lo sponsor tecnico lo ha costretto a entrare in campo, anche la soavità con cui è solito uscirne. All’intervistatrice che gli confessava la propria emozione per avere assistito a un match indimenticabile, ha ansimato che per quanto lo riguardava sperava di dimenticarlo il prima possibile; e quando la disgraziata gli ha fatto notare, indicando la famiglia nel box, chissà come saranno contenti di portarsi a casa un altro trofeo, si è sentita rispondere che sì, certo: però non è che i piatti li facciano impazzire. È stato il singolare epilogo dei Championships forse più singolari degli ultimi anni.

Per tante ragioni, molte delle quali riguardano la comunicazione, tradizionale ultimo rifugio dei peccatori in fuga dai campi.  Dove fin effetti fino alle ultime due partire del singolare maschile, con la possibile eccezione di quel sideshow che è stato il secondo turno Kyrgios-Nadal, non è successo praticamente nulla. O forse sì, volendo considerare una notizia l’ennesimo smottamento collettivo di tutta la NextGen – da Tsitsipas a Shapovalov, da Kachanov a Zverev – , che a questo punto rischia di passare direttamente dal kinderheim alla pensione. Sono strani ragazzi. Fra di loro giocano spesso a un livello altissimo, poi coi grandi, senza una ragione apparente, si squagliano. Ci sono eccezioni relativamente casuali, ma la regola rimane. E riguarda sempre meno solo la NextGen: col passare dei mesi, anziché affievolirsi, il dominio dei tre vecchi minotauri acquattati in fondo ai tabelloni dei majors,  pronti a sbranare chiunque si avvicini, si espande, assumendo proporzioni inquietanti. Per riscontro, guardare la fine che ha fatto un grande tennista intelligente e esperto come David Goffin, ridicolizzato da Djokovic nei quarti. Ridicolizzato, cioè, da un giocatore che in passato riusciva spesso a mettere in difficoltà, e contro il quale oggi è stato costretto ad ammettere di non avere armi di alcun genere.

Per vedere un po’ di tennis, insomma, abbiamo dovuto aspettare le semi. La, semi. E però, che tennis. In preparazione al rematch, l’industria globale della comunicazione si è rivista, nella versione integrale o per highlights, la leggendaria finale del 2008. Lo scopo del gigantesco ripasso collettivo era sempre il solito – alla fine della partita di oggi, dire che era meglio quella di ieri. E così è andata. Partendo dalla constatazione che – ma va’ – undici anni fa Fed e Nadal avessero più capelli, e corressero come leprotti, quasi tutti sono saltati alla conclusione che quel livello non è stato raggiunto, semplicemente perché non era raggiungibile. Una lucidata rituale al santino  dell’abbraccio fra Rafa in canotta e Roger in cardigan, che tuttavia come spiegazione di quanto accaduto venerdì risulta deboluccia.

Novak Djokovic durante la finale contro Federer. Per il tennista serbo, quello di ieri è stato il quinto trionfo a Wimbledon. (Shaun Botterill/Getty Images)

La semifinale si è retta, fin dal primo quindici, su un livello di tensione inimmaginabile, e di inimmaginabile concentrazione su ogni singolo punto – talmente evidenti, talmente fisiche, da trasmettersi senza filtro agli spettatori. In più, nel tempo trascorso dall’ultima volta ai Championships il tennis di Federer e quello di Nadal ha continuato, inverosimilmente, a crescere. I singoli colpi – il servizio di Rafa, il rovescio di Roger – sono migliorati, ma soprattutto si sono rarefatti, ridotti all’essenziale, scarnificati. E oggi, come il gioco di entrambi, risultano straordinariamente efficaci, ma anche straordinariamente leggibili, visibili. Non è una novità banale. In genere, alla fine di una partita quasi nessuno è in grado ricostruire, se non in un senso molto generale, quello che è successo. In questo caso, invece, è come se sulla foto del match destinata alla stampa qualcuno avesse deciso di aumentare di parecchie tacche il grado di contrasto, eliminando le ombre e rendendo l’immagine persino troppo nitida. Risultato, a partire da uno scatto qualsiasi chiunque abbia visto l’incontro è in grado di ricostruire, e rivivere, la trama degli scambi, e la loro conclusione. Come fosse nato un nuovo modo di giocare, e quindi di guardare, il tennis.

Si poteva pensare fosse un effetto dell’aura che circonda da sempre Roger e Rafa, e della storia imponente che entrambi hanno alle spalle. Ed era prevedibile che la finale, dove Roger si sarebbe trovato davanti un fenomeno, sì, però di aura quasi sprovvisto, sarebbe stato un anticlimax. Manco per niente. Non uso l’aggettivo epico perché ormai designa anche il primo turno un po’ lottato di un challenger a Rapallo, ma per dare il senso di quello che è stata la finale faccio fatica a trovarne altri. A meno di rifugiarsi in irreale, che forse è il più adatto a cinque ore di tennis fatte solo, ed esclusivamente, di colpi sensazionali. E quasi prive di errori. Abbiamo visto di tutto, e spesso, tutto al contrario: Federer vincere palleggi estenuanti da fondo, Djokovic entrare per un intero set in una misteriosa zona buia e poi riemergerne con un’aria stravolta che in genere non gli appartiene. In più c’era lo schema del match, elementare nella sua bellezza: Nole rispondeva quasi a ogni punto a una decina di vincenti, senza che dall’altra parte della rete Feder interrompesse, anche solo un secondo, la sua danza infernale. Come è finita non c’è bisogno di ripeterlo, ma la sensazione di avere assistito  a qualcosa di ulteriore – qualcosa di molto più feroce, cupo e livido di una partita di tennis nel senso corrente della parola – si è sprigionata subito dopo il match point. Ha lasciato il segno su protagonisti e spettatori, e chissà quando ce ne libereremo.

Rafa Nadal esulta durante la semifinale contro Federer, poi persa al quarto set. Si è trattato del 40esimo confronto diretto tra i due tennisti, a poche settimane dal successo dello spagnolo nella semifinale del Roland Garros (Daniel Leal-Olivas/AFP/Getty Images)

In sala stampa, quest’anno, è successo un po’ di tutto. Per chi ha la perversione di seguirle, le conferenze del dopo partita hanno sempre i loro momenti, ma a Wimbledon 2019 si è rotto un diaframma. Chissà se è stato il «Don’t patronize me» rivolto da Johanna Konta a un cronista che se lo meritava. Lì per lì è sembrata solo l’ennesima dimostrazione di come una certa pronuncia di un certo tipo di inglese possa essere un’arma da taglio quasi illegale, ma in effetti dopo quel siparietto, di cui molto si è parlato, gli argini sono parsi non reggere più. Anche qui, abbiamo visto di tutto: Roger confessare in pubblico il suo odio della solitudine, e il suo bisogno di avere sempre qualcuno intorno; ammettere, con una franchezza insolita, che nel tennis sull’erba le chiacchiere e la tattica sono fumo negli occhi, uno attacca e buonanotte; persino rispondere a un infiltrato di qualche lobby di floricultori che in effetti sì, un’occhiata all’edera o alle petunie la dà, almeno prima che cominci il torneo – mentre a Rafa la stessa domanda ha strappato lo sguardo di chi lo apprende in quel momento, che a Wimbledon ci sono edera e petunie. Eppure, per quanto insoliti e anche rivelatori, questi siparietti hanno finito per risultare una mera preparazione al gran finale, che è stata la conferenza stampa del vincitore.

Sempre incerto se proporsi come asceta o come trickster, e sempre prono a impelagarsi in una confusa miscela fra i due, qualche giorno prima della finale Nole aveva postato sul suo Twitter un imprevisto omaggio a Nikola Tesla, dichiarandosene più o meno un devoto, e alludendo ai segreti per incanalare l’energia dell’universo. Poi, nel Q&A più dimesso di cui un fresco vincitore si sia mai reso protagonista, ha attaccato dicendo di aver vinto per essere riuscito a vedere la partita, con gli occhi della mente, prima di giocarla. Nessuno in sala ha fatto una piega, e la domanda successiva è stata sui colpi in controbalzo di Federer. Da lì in poi, Nole ha ripetuto per un lungo quarto d’ora di avere giocato solo in difesa, limitandosi a mandare dall’altra parte i colpi del più grande tennista di tutti i tempi. Fin qui eravamo nella semplice onestà intellettuale, ma la confessione successiva – Quando urlano Roger, Roger! io sento Nole, Nole! – è stata un passo ulteriore. E nemmeno si capisce verso cosa.

Federer e Djokovic si salutano al termine della finale giocata ieri. Per lo svizzero si è trattata della quarta sconfitta all’ultimo atto in Inghilterra, il serbo ha vinto 5 finali su 6 a Wimbledon (Laurence Griffiths/AFP/Getty Images)

In effetti, cosa ci aspetti non possiamo più dirlo, e dopo aver visto due signori entrambi molto oltre i trent’anni giocare a tennis in quel modo per cinque ore, e tentare una previsione esporrebbe al comico involontario. Sul finale di questa storia irripetibile – fatta di infiniti e sempre più stupefacenti sottofinali – non abbiamo certezze. O forse solo una, che è poi quella su cui gli stessi protagonisti ritornano ossessivamente.

La corsa di tutti e tre non è contro gli altri due, ma contro il Tempo. E forse non si tratta di vincere un altro Slam, e un altro – fino a diventare, al di là di ogni ragionevole faziosità, il GOAT. Probabilmente no. Si tratta di giocare ancora un match, e un altro, per allontanare il più possibile quello che ormai  tutti quanti, a cominciare da Roger, Rafa e Nole – temiamo succeda: che al primo ritiro di uno dei tre, di colpo, il tennis come lo abbiamo conosciuto smetta di esistere. Sembra l’ultima scena di un episodio neanche troppo riuscito di Al di là della realtà, d’accordo. Ma francamente a cos’altro abbiamo assistito, sul Centre Court, fra il 12 e il 14 luglio 2019?