Neymar non è andato oltre se stesso

Il personaggio-Neymar ha travolto il giocatore, che non è riuscito a fare il salto di qualità e non ha portato il Psg a un livello superiore.

Quando, sulla copertina dello scorso 3 luglio, la redazione dell’Equipe ha accostato per la prima volta il termine “bluff” a Neymar, in pochi hanno pensato ad un’accezione deteriore del termine, a un riferimento alla trattativa che potrebbe riportare il brasiliano al Barcellona. Più immediato è stato l’accostamento con quell’idea di sopravvalutazione che ha accompagnato “O’Ney” nel corso delle sue due stagioni al Paris Saint-Germain. Un’idea in realtà smentita dai numeri – 51 gol e 29 assist in 58 presenze complessive, di cui 23 e 13 nell’ultima stagione caratterizzata da una seconda parte da dimenticare dentro e fuori dal campo –, ma che riflette ciò doveva essere nell’immaginario collettivo, e cioè la percezione che i parigini volessero legittimare il proprio status di top club strappando a una diretta concorrente l’unico giocatore in grado di ambire, realisticamente, al trono di Cristiano Ronaldo e Lionel Messi.

A due anni dal trasferimento che avrebbe dovuto riscrivere la geopolitica del calcio europeo, questa legittimazione personale e di squadra non solo non è arrivata, ma addirittura Neymar si è visto scalzato da Mbappé sia nella classifica delle magliette più vendute del PSG che dal ruolo, molto più importante e significativo, di primus inter pares, di erede diretto di Messi e Ronaldo una volta che il loro duopolio avrà la sua naturale conclusione.

Si tratta, comunque, di un discorso più ampio e non necessariamente legato alla portata economica dell’operazione più importante della storia del calciomercato – del resto lo stesso Neymar, alla vigilia dei Mondiali in Russia, aveva detto al sito tedesco Spox che «fare riferimento solo ai 220 milioni del costo del mio cartellino non aiuta e non dice nulla su quanto sei bravo veramente». Come se quella sovradimensionalità tecnica riconosciuta, riconoscibile e che non può costituire oggetto di discussione – e che, spesso, si è tradotta in gol come quello realizzato al Tolosa – non sia stata sufficiente a realizzare ciò che ci si aspettava Neymar realizzasse con la sua sola presenza, in campo e fuori. Soprattutto da quando, come dichiarato da Pelé a Canal+ in dicembre, «ha cominciato a farsi notare in un altro modo, non solo segnando gol ma rendendosi protagonista di brutti gesti, simulando, complicando la vita agli arbitri: ecco perché la sua immagine è diventata così negativa». Talmente negativa che, stando a un recente sondaggio online di France Football, il 79% dei tifosi parigini si è detto favorevole a una cessione del brasiliano.

Il lasso temporale relativamente breve in cui è venuto a verificarsi questo downgrade emozionale non ha fatto altro che accrescere la percezione – talvolta errata, talvolta esagerata – di un Neymar costantemente al di sotto delle aspettative, e con la valutazione delle sue prestazioni fortemente condizionata dal contesto extracampo. Non a caso, il giorno precedente alla copertina de L’Equipe, Eduardo Musa, che dell’ex menino da Vila è stato consigliere per cinque anni, aveva raccontato ad AS come il problema principale risiedesse nel fatto che «tra Neymar e il suo entourage regna il conflitto e non accettano le critiche: oggi stanno raccogliendo quello che hanno seminato. Lui ha classe, è buono e generoso, però l’immagine che ne danno i media è l’esatto contrario».

Una conferma ulteriore di quanto scritto a suo tempo da Ryan O’Hanlon su The Ringer commentando il modello sviluppato da FiveThirtyEight, secondo cui il rendimento di Neymar ai Mondali 2018 era comparabile a quello di Cruyff in quelli del 1974: «Ci sono due cose da dire, entrambe vere: Neymar cade spesso, anche quando non viene toccato da nessuno. Ma è stato uno dei migliori giocatori di questa Coppa del Mondo. E trovo fastidiosa una discussione incentrata unicamente sulla questione della simulazione perché spesso deriva da una visione tossica della virilità applicata al gioco».

In due stagioni con la maglia del Psg, Neymar ha tenuto una media impressionante: 51 gol in 58 presenze, una marcatura ogni 87 minuti di gioco (Franck Fife/AFP/Getty Images)

Questo cambiamento nel racconto di Neymar non è originato da un numero più o meno elevato di partite sotto la media: affinché il Neymar personaggio, nella sua dimensione negativa, fagocitasse il Neymar giocatore, è stato sufficiente che lo star system esasperato ed esasperante messo in piedi da chi continua a curarne gli interessi facesse il suo corso naturale nella direzione sbagliata. E se oggi, al netto di quelle problematiche strutturali e di squadra che Thomas Tuchel sta provando a risolvere dopo le macerie ereditate da Emery, il numero 10 continua ad essere identificato come il motivo per cui il Psg non è ancora al livello di Real, Barcellona e delle altre grandi, è proprio a causa di quella centralità prima cercata e poi non gestita nei modi e nei tempi opportuni, soprattutto per ciò che riguarda una certa comunicativa da leader che non si è tradotta nei fatti.

Un ruolo di primissimo piano già scritto nel destino di Neymar, che, prima o poi, si sarebbe dovuto affrancare dal “messicentrismo” blaugrana per affermarsi definitivamente come il più forte del mondo; e, nell’estate 2017, nessuna squadra sembrava più adatta del Psg, con cui condivideva  l’ambizione di legittimarsi a un livello superiore, diventando, a sua volta, il Messi della situazione, il centro di qualsiasi discorso tattico, tecnico, persino economico. Scriveva in proposito Sid Lowe sul Guardian: «Neymar vuole dominare, e ora può giocare dove vuole e come vuole senza doversi adattare a nessuno se non a se stesso. Al Parco dei Principi il successo sarebbe merito suo, il Psg sarà la sua squadra e i giocatori dovranno adeguarsi alle sue caratteristiche».

Con la maglia del Brasile, Neymar ha segnato 60 gol in 97 partite (Franck Fife/AFP/Getty Images)

Qualcosa, però, non è andato come previsto. Nonostante l’essere riuscito ad esprimere con maggiore continuità quel calcio istintivo, creativo e verticale (in termini di dribbling e finalizzazione) che al Barça restava spesso confinato sul centro-sinistra per non configgere con quello lievemente più compassato – ma enormemente più efficace – di Messi, Neymar ha continuato ad essere “solo” Neymar: quindi quasi il più forte ma non il più forte in senso assoluto. Con l’aggravante che, stavolta, ad oscurarlo – non certo tecnicamente, ma come centro di gravità permanente di una squadra con ambizioni di vertice – non c’era Messi, ma c’erano Cavani prima e Mbappé poi. Tutto quel che ne è conseguito, dai problemi con i compagni di squadra, alla sua chiacchierata vita privata, fino al recente braccio di ferro con la proprietà qatariota per favorire un suo ritorno in Catalogna, è stata solo la conseguenza di quel paradossale senso di incompiutezza che non dipendeva da quanto accadeva in campo, ma che ha finito con il coinvolgere, anzi travolgere, ciò che il campo stesso diceva di lui.

Si tratta di una lettura probabilmente superficiale e sottostimante del tipo di impatto che Neymar a 27 anni (e, quindi, all’apice del suo prime) può ancora avere in un contesto di alto livello, ma che sembra ormai radicata sia nel modo di raccontarlo che nella consapevolezza dei propri mezzi da parte del diretto interessato. Quando Neymar afferma di non essere «orgoglioso di quanto sono stato pagato, né del fatto di essere il giocatore più caro della storia. Sono solo soldi, nient’altro. Non posso farci nulla, personalmente, avrei speso meno per me stesso», non fa altro che alimentare la sensazione di avere a che fare con un giocatore incompleto, che ha fallito nel momento in cui avrebbe dovuto compiere il definito salto di qualità, e che adesso spinge per tornare nella sua comfort zone, accettando quella condizione di “migliore tra gli altri” dalla quale, invece, stava cercando di fuggire in ogni modo. Il tutto in funzione del cambiamento culturale e filosofico di un club che non è (ancora) avvenuto perché il primo a non essere (ancora) cambiato è stato proprio colui dal quale tutto doveva passare.