La Premier League 2019/20 sarà dominata da Manchester City e Liverpool, di nuovo?

Citizens e Reds sembrano troppo più forti rispetto alle avversarie.

«Ho parlato al telefono con Pep Guardiola. Ci siamo ripromessi che ci prenderemo a calci nel sedere anche l’anno prossimo. Proveremo a vincere tutto di nuovo». Commentando, tra il serio e il faceto, la sua telefonata con il tecnico del Manchester City a margine del trionfo del Liverpool in Champions League, Jurgen Klopp ha di fatto anticipato quella che sarà la principale chiave attrattiva della Premier League 2019/2020. Un campionato che vivrà nuovamente sul duello, ravvicinato e a distanza allo stesso tempo, tra due squadre che sembrano già da ora troppo più avanti rispetto alle concorrenti. Il paradosso solo apparente di un calciomercato in tono minore – Guardiola si è dovuto “accontentare” di Rodri e Cancelo, mentre Klopp ha commentato l’immobilismo del Liverpool sottolineando come «non siamo in un mondo di fantasia in cui possiamo fare ciò che vogliamo. Ci sono quattro squadre che possono farlo: Real, Barcellona, City e Psg, ma non è una critica» – non fa che rafforzare la sensazione di superiorità della prima e della seconda classificata dell’ultima edizione. Non solo siamo al cospetto di due squadre difficilmente migliorabili a breve termine, ma anche di due progetti di cui esiste una versione ulteriore, ulteriormente migliore, che non abbiamo ancora ammirato. E che solo il prevedibile confronto diretto contribuirà a far emergere.

Il duopolio di Manchester City e Liverpool si sostanzia in un’affinità filosofica e manageriale tra due realtà di campo inconciliabili solo in apparenza, e si esprimerà in un confronto lungo 38 partite, giocato su terreni d’eccellenza sconosciuti e inesplorati per gli altri. Una situazione di disuguaglianza competitiva che non dovrebbe essere il tratto distintivo del campionato globale e globalizzato per eccellenza, e che perciò è stato rappresentato alla perfezione da un commento di Ryan O’Hanlon su Espn in merito alla corsa al titolo della scorsa stagione: «Niente di tutto questo sarebbe dovuto accadere».

Invece, l’ultimo campionato sembra aver sdoganato quella visione – americana più che anglosassone – dei due pesi massimi al centro del quadrato, e il resto del mondo a guardare, che ha cambiato totalmente la percezione generale della moderna Premier League. Non più il campionato equilibrato delle “big six” – in cui persino un Leicester può permettersi il lusso di far saltare il banco nella giusta congiuntura temporale –, ma un torneo perfettamente allineato al trend europeo di una supremazia netta da parte di uno/due club più forti, più organizzati, più ricchi. Un dominio che, tra l’altro, non sembra scalfibile nel medio-lungo periodo, soprattutto se si proseguirà su quel rapporto di proporzionalità diretta per cui la crescita di una squadra passa dalla volontà di attestarsi sugli altissimi standard di rendimento dell’altra, adeguando progressivamente la propria strategia in funzione del raggiungimento e superamento dei limiti imposti dalla rivale.

In quella che sembra una scala gerarchica cristallizzata sui valori espressi nell’ultima stagione, il ruolo di “terzo incomodo” spetta una volta di più al Tottenham. Gli Spurs sono tornati a fare mercato – 65 milioni di sterline versati nelle casse del Lione per Tanguy Ndombele, il prestito con obbligo di riscatto a 60 milioni per Lo Celso, 25 milioni di sterline per Ryan Sessegnon – a quasi tre anni dall’ultima operazione in entrata, e ora vogliono confermare di essere la terza forza del calcio inglese, una posizione già occupata a causa del vuoto di potere generato dalla discontinuità progettuale e prestazionale delle altre grandi tradizionali. È un discorso che va oltre la classifica e la finale di Champions conquistata pochi mesi fa, traguardi raggiunti con la stessa rosa dell’anno precedente: nel loro essere un club dall’identità – tattica e non solo – riconosciuta e riconoscibile, calata all’interno di un sistema costruito modellando ruoli, compiti e funzioni sulla base del materiale umano a disposizione, gli Spurs sono riusciti a raggiungere quell’equilibrio tecnico e finanziario necessario per accreditarsi come alternativa credibile a City e Liverpool. La sfida, contro se stessi più che contro gli altri, diventa quindi quella di mantenere inalterato questo equilibrio, provando contestualmente ad alzare il livello di competitività attraverso l’inserimento di elementi utili e funzionali ad un progetto tecnico efficace, eppure unico nel suo genere.

Paul Pogba e Tanguy Ndombele, connazionali, a contrasto durante un’amichevole tra il Manchester United e il Tottenham. L’ex Lione è passato nel giro di due anni dalla Ligue 2 giocata con l’Amiens ad essere l’acquisto più caro nella storia degli Spurs (Di Yin/Getty Images)

Alle spalle dei londinesi c’è un limbo di astrazione e incertezza in cui Arsenal, Chelsea e Manchester United si stanno muovendo – e, presumibilmente, continueranno a muoversi, almeno per i primi mesi della stagione – come “personaggi in cerca d’autore”. I Gunners, riprendendo la calzante metafora usata da Nick Miller su Espn, «sono come quell’uomo che, per salvare il proprio matrimonio, entra in una gioielleria per comprare un anello dal valore di 5.000 sterline, avendone a disposizione appena 500». Gli arrivi di Pépé, Ceballos, David Luiz e Tierney, pur rappresentando un notevole upgrade nella varietà di soluzioni tattiche ora a disposizione di Unai Emery, non sembrano però sufficienti a garantire nell’immediato quello switch in termini di conduzione tecnica ed emotiva del gioco necessario a una squadra che sembra eternamente incompiuta.

Il Chelsea sembra ugualmente in cerca della direzione da intraprendere, seppur con presupposti diversi. La scelta di rimpiazzare il sempre discusso Sarri con Frank Lampard, oltre che essere la miglior rappresentazione possibile dell’altalena di risultati dell’ultimo lustro – due titoli nazionali una Fa Cup e la fresca vittoria in Europa League, ma anche un decimo e un quinto posto –, sembra dettata più dalla necessità di stabilizzare l’ambiente con una figura dal carisma indiscutibile piuttosto che dalla volontà di imprimere una svolta decisa al progetto tecnico del club, tra l’altro privato di Eden Hazard, centro di gravità delle ultime stagioni. In più, c’è da gestire e superare il blocco del mercato.

Ha scritto Jacob Steinberg sul Guardian: «Al posto di Sarri, che ha concluso la sua stagione di debutto in Premier arrivando terzo e battendo l’Arsenal in finale di Europa League, arriva un quarantunenne che ha allenato appena un anno, finendo sesto in campionato con il Derby County e che ha perso lo spareggio contro un manager più esperto, Dean Smith dell’Aston Villa. In altre circostanze non ci sarebbe stata nessuna possibilità che il Chelsea si rivolgesse a Lampard». Un’idea, quello del rischio non si sa quanto calcolato, condivisa anche da José Mourinho, che di Lampard sembra essere il riferimento principale, in campo e fuori: «Solo il tempo potrà dire se Lampard sarà un successo. Io lo amo e sarebbe facile per me dire che sarà un manager fenomenale, ma non lo dirò. Non posso, però, neanche dire il contrario. Sento che ha un potenziale, che ama quello che fa e questa è una cosa molto importante. Gli auguro il meglio, ma solo il tempo potrà parlare».

Frank Lampard è stato assunto al Chelsea dopo un anno sulla panchina del Derby County, in Championship: 57 partite da manager con uno score di 24 vittorie, 17 pareggi e 16 sconfitte (Isabel Infantes/AFP/Getty Images)

A proposito del portoghese. Nel Manchester United che sembra aver disperso velocemente gli effetti benefici della “cura Solskjaer” – 14 vittorie nelle prime 19 partite con il norvegese in panchina, uno score che però non ha evitato un poco onorevole sesto posto a -32 dai rivali cittadini del City –, la sensazione è quella di una squadra ancora alle prese con le conseguenze del cortocircuito generato dalla volontà di affidare al tecnico di Setubal il proseguimento del percorso iniziato con Louis van Gaal. Una scelta che ha pagato dividendi immediati per quel che riguarda i 3 trofei conquistati nel 2016/2017, ma che ha finito con il generare tutta una serie di equivoci – primo tra tutti quello relativo alla centralità di alcuni calciatori, ad esempio Paul Pogba – che, ancora oggi, rendono i Red Devils un ibrido dalla natura ancora sconosciuta, dalle prospettive incerte.

Del resto anche le scelte sul mercato sono state operate in evidente discontinuità con il recente passato: piuttosto che su giocatori già pronti, le scelte di Solskjaer e della dirigenza si sono orientate su elementi giovani oppure in cerca di affermazione definitiva, come Maguire, Wan Bissaka e Daniel James. Una strategia che racconta come lo United deve capire cos’è prima ancora di capire cosa potrebbe diventare. Un lusso che in questa Premier, dominata da Manchester City e Liverpool, nessuno potrebbe permettersi.