Sarà il Team Usa peggiore di sempre?

Ai Mondiali, la Nazionale americana sarà priva di grandi stelle.

L’idea che la versione 2019 di Team Usa impegnata nei Mondiali in Cina sia la peggiore dal 1998, se non la peggiore di sempre, prescinde dalla composizione di un roster funestato dalle rinunce delle stelle di primo, secondo e, in alcuni casi, anche terzo piano; va anche oltre le difficoltà riscontrate nei test match di preparazione, con lo zenit raggiunto in occasione della storica sconfitta contro l’Australia, la prima dal 2006, che ha interrotto una striscia di 78 vittorie consecutive.

Se ventuno anni fa il contestuale lockout portò ad avere in Grecia una squadra composta da giocatori collegiali e da quelli impegnati al di fuori del contesto Nba, che pure ottenne un onorevole – considerate premesse e circostanze – terzo posto, quest’anno la percezione negativa è legata al clima intorno alla squadra “obbligata a vincere” per eccellenza, ogni volta in cui il successo finale torna ad essere una questione di se e non più di come e quando. Se dal punto di vista strettamente tecnico non c’è un singolo motivo per cui gli americani non possano vincere il terzo mondiale consecutivo – sarebbe anche la sesta medaglia d’oro di fila in competizioni internazionali –, l’assenza di giocatori iconici, riconosciuti e riconoscibili fa pensare che i tempi siano maturi per una nuova “caduta degli dei”. Soprattutto in considerazione del fatto che, come scritto da Zach Kram su The Ringer, «Team Usa non può essere considerata la migliore o la seconda miglior squadra della Coppa del Mondo di quest’anno: la Grecia, con Giannis Antetokounmpo, e la Serbia, con Nikola Jokic, possono contare, rispettivamente, sull’Mvp della Nba e su un giocatore che ha chiuso al quarto posto nelle votazioni per il miglior giocatore della stagione; Team Usa, invece, non ha a roster un singolo candidato Mvp dell’ultima stagione e, presumibilmente, anche delle prossime».

Jayson Tatum, ala dei Boston Celtics, ha conquistato la medaglia d’oro ai Mondiali giovanili nel 2015, in Grecia (Kelly Defina/Getty Images)

Nella patria delle statistiche applicate allo sport, ne hanno fatto (anche) una questione numerica. I dodici giocatori a disposizione di Gregg Popovich – che pure, da assistente di Larry Brown, ebbe un posto in prima fila per assistere all’implosione del “Nightmare Team” ai Giochi del 2004 – combinano appena cinque apparizioni in totale all’All Star Game. È il dato più basso dal 2010, ed è in netta controtendenza rispetto alle 33 dell’ultima squadra olimpica, quasi quanto quello relativo alla percentuale di vittorie relativo alla regular season precedente una grande manifestazione – 54% contro l’80,4 successivo ai Mondiali in Turchia del 2010. Sotto questo profilo, nessun membro del roster di Team Usa impegnato in terra cinese – eccetto Brook Lopez e Kemba Walker – raggiunge la media necessaria per poter anche solo pensare di far parte di una squadra chiamata a vincere e convincere sempre, comunque e contro chiunque. L’età media di 25,7 anni è stata un’altra chiave che ha alimentato il pessimismo, perché i vari Team Usa tra il 1992 e il 2016 hanno avuto giocatori con un’età media di 26,7 anni. Il problema, però, è qualitativo e non anagrafico: i roster del 2004, 2006, 2010 e 2014 erano tutti più “giovani”. Ma comunque hanno portato a casa due ori mondiali e un bronzo olimpico.

Questa volontà di restringere il piano di analisi di uno sport a forte connotazione collettiva, riconducendolo ad una dimensione statistica e individuale che non avrebbe più molto senso nell’epoca in cui gli “internationals” stanno dominando la NBA e i Toronto Raptors hanno interrotto l’epopea dei Golden State Warriors di quattro futuri “Hall of Famers”, trova una base solida sulla ciclicità dei risultati ottenuti dalla Nazionale americana in occasione di Mondiali e Olimpiadi. In un continuo ossequio alla teoria dei corsi e ricorsi storici, lo schema tende a riprodursi con regolarità: prima c’è la sconfitta, bruciante nelle proporzioni per quanto non inattesa nelle premesse, come a Monaco ’72, Seoul ’88, Indianapolis 2002, Atene 2004 e Giappone 2006; poi c’è l’intervento salvifico delle superstar che riporta la “Star Spagnled Banner” in cima al mondo, con una dimostrazione di superiorità tale da ridurre progressivamente l’hype per competizioni in realtà segnate ben prima di cominciare.

Quanto accaduto in era moderna non ha fatto eccezione: dopo i disastri del periodo 2002-2006, il “Redeem Team” del 2008, oltre a rinverdire in quel di Pechino le sbiadite polaroid dell’epopea del 1992 a Barcellona, ha inaugurato una seconda età dell’oro del basket pro a stelle e strisce, in cui i vari Kobe Bryant, LeBron James, Dwyane Wade, Carmelo Anthony, Kevin Durant, James Harden, Russell Westbrook e Stephen Curry sono stati ben felici di “fare la loro parte per il paese”, in quella visione tendente al patriottico e al militaresco che parlando di sport e Stati Uniti d’America è sempre attuale. Fino ad oggi. Fino a quando, cioè, per dirla ancora con le parole di Kram, tra infortuni e una free agency che ha stravolto la geopolitica della NBA dei prossimi cinque anni, «il nuovo Team USA risulta, evidentemente, un mix tra i titolari dei Boston Celtics 2019/2020 – una squadra progettata per vincere poco più di 50 partite –  e una serie di role players pescati qua e là nella lega». A questo punto, come sottolineato da Rodger Sherman, bisogna chiedersi «in quale momento del ciclo di Team USA ci troviamo: siamo nel momento in cui una squadra assemblata a caso si mette in imbarazzo generando una rinascita nell’interesse per il basket internazionale? Oppure siamo ancora al punto in cui una squadra, seppur dimenticabile, riesce a vincere il suo terzo Mondiale consecutivo, preservando lo status quo?».

Gregg Popovich guida i San Antonio Spurs dal 1996; dal 2015 è head coach di Team Usa (Daniel Pockett/Getty Images)

Una domanda cui solo il tempo e il campo potranno rispondere, in un ribaltamento dei canoni narrativi cui siamo stati abituati nel racconto della squadra americana. Per la prima volta, con Gregg Popovich head coach e Steve Kerr e Lloyd Pierce suoi vice, i volti più noti e in grado di accendere la fantasia dei tifosi sono in panchina e non sul parquet: «Avere la possibilità di trascorrere un paio di mesi essendo allenati da uno staff simile sarebbe un sogno per chiunque», ha scritto Tom Ziller su SBNation. L’idea, evidentemente, è quella di cambiare la prospettiva: Team Usa vuole essere una squadra allenata allenabile, non più e non solo legata all’estemporaneità, all’istintività e all’immediatezza di quei talenti che hanno deciso di prendersi un giro di riposo sulla strada che porta a Tokyo 2020. Questa trasformazione ha creato una mentalità quasi da underdog, esplicitata dalle parole di Kemba Walker: «Il fatto di essere così poco considerati sarà la nostra principale motivazione. Siamo un gruppo di ragazzi cui non interessa essere considerati sfavoriti o non all’altezza. Chiunque creda che noi saremo il peggior Team Usa di sempre si ricrederà. Non siamo preoccupati o assillati da alcun dubbio. Siamo affamati, motivati e non ci interessa del rumore che ci circonda: stiamo trascorrendo del gran tempo insieme e siamo pronti a scendere in campo e provare a vincere la medaglia d’oro».

Ecco, probabilmente è in quel provare che sta tutta la discontinuità con il passato, la differenza che passa tra gli altri Team Usa e questo, così perfettamente preparato all’idea di essere allo stesso livello degli altri, in attesa che il campo confermi questa visione di normalità che è sempre sembrata così lontana e che è invece terribilmente vicina. Senza che questo debba per forza essere un problema, come ribadito anche da Dan Devine: «Anche l’inevitabilità a un certo punto invecchia e Superman non può essere sempre coraggioso. Proviamo ad abbracciare quest’idea di incertezza e vulnerabilità in funzione di un cambiamento. Magari non è ciò cui siamo abituati quando parliamo di Team USA, ma potrebbe essere proprio quello che il medico, e questo roster, ci hanno prescritto».