L’idea che la versione 2019 di Team Usa impegnata nei Mondiali in Cina sia la peggiore di sempre, prescinde dalla composizione di un roster funestato dalle rinunce dei giocatori stabilmente nella top-20 dei power rankings Nba; va anche oltre le difficoltà riscontrate nei test match di preparazione, con lo zenit raggiunto in occasione della storica sconfitta contro l’Australia, la prima dal 2006, che ha interrotto una striscia di 78 vittorie consecutive.
La percezione negativa è legata al clima che si è venuto a creare intorno a una squadra che è comunque “obbligata a vincere”, anche in un momento storico in cui vincere è diventato una questione di se e non più di come e quando. Se dal punto di vista strettamente tecnico non c’è un singolo motivo per cui gli americani non possano vincere il terzo mondiale consecutivo – sarebbe anche la sesta medaglia d’oro di fila considerando anche i Giochi Olimpici –, l’assenza di giocatori iconici, riconosciuti e riconoscibili fa pensare che i tempi siano maturi per una nuova “caduta degli dei”. Soprattutto in considerazione del fatto che, come scritto da Zach Kram su The Ringer, «Team Usa non può essere considerata la migliore o la seconda miglior squadra della Coppa del Mondo di quest’anno: la Grecia, con Giannis Antetokounmpo, e la Serbia, con Nikola Jokic, possono contare, rispettivamente, sull’Mvp della Nba e su un giocatore che ha chiuso al quarto posto nelle votazioni per il miglior giocatore della stagione; Team Usa, invece, non ha a roster un singolo candidato Mvp dell’ultima stagione e, presumibilmente, anche delle prossime».
Nella patria delle statistiche applicate allo sport, ne hanno fatto (anche) una questione numerica. Secondo alcuni dei dati riportati da Kram i dodici giocatori a disposizione di Gregg Popovich combinano appena cinque apparizioni in totale all’All Star Game. È il dato più basso dal 2010, ed è in netta controtendenza rispetto alle 33 dell’ultima squadra olimpica, quasi quanto quello relativo alla percentuale di vittorie relativo alla regular season precedente una grande manifestazione – 54% contro l’80,4 successivo ai Mondiali in Turchia del 2010. Sotto questo profilo, nessun membro del roster di Team Usa impegnato in terra cinese – eccetto Brook Lopez e Kemba Walker – raggiunge la media necessaria per poter anche solo pensare di far parte di una squadra chiamata a vincere e convincere sempre, comunque e contro chiunque. L’età media di 25,7 anni è stata un’altra chiave che ha alimentato il pessimismo, perché i vari Team Usa tra il 1992 e il 2016 hanno avuto giocatori con un’età media più alta di quasi due anni anche se i trionfi mondiali nel 2010 e nel 2014, ottenuti entrambi con squadre “giovani”, dimostra che il problema è qualitativo e non anagrafico.
Questa volontà di restringere il piano di analisi di uno sport a forte connotazione collettiva, riconducendolo ad una dimensione statistica e individuale che non avrebbe più molto senso nell’epoca in cui i giocatori europei (e non solo) stanno dominando la Nba e i Toronto Raptors hanno interrotto l’epopea dei Golden State Warriors di Curry e Durant, racconta di un’idea di fondo che è sempre la stessa pur nel suo evidente anacronismo. E cioè che una squadra formata da professionisti Nba non possa comunque perdere, anche quando le statistiche lo preannunciano con una così sconcertante evidenza. E anche quando, a causa dei vari infortuni e di una free agency che ha stravolto la geopolitica della NBA dei prossimi cinque anni, questo “nuovo” Team USA risulta essere, evidentemente, una squadra dalle potenzialità relative e le cui probabilità di avere successo sono legate agli exploit di giocatori provenienti da realtà di secondo e terzo piano, fatta eccezione per i tre (Jaylen Brown, Marcus Smart e Jayson Tatum) dei Boston Celtics. A questo punto, quindi, qual è la verità vera? Può la squadra più forte del mondo riuscire a confermarsi tale nella sua versione peggiore? Oppure il gap con il resto del mondo si è assottigliato al punto tale che una sconfitta o un torneo in tono minore debbano essere considerati come una nuova normalità?
Domande cui solo il tempo e il campo potranno rispondere, in un ribaltamento dei canoni narrativi cui siamo stati abituati nel racconto della squadra americana. Per la prima volta, con Gregg Popovich head coach e Steve Kerr suo vice, i volti più noti e in grado di accendere la fantasia dei tifosi sono in panchina e non sul parquet. L’idea, evidentemente, è quella di cambiare la prospettiva: Team Usa vuole essere una squadra allenata e allenabile, non più e non solo legata all’estemporaneità, all’istintività e all’immediatezza di quei talenti che hanno deciso di prendersi un giro di riposo sulla strada che porta a Tokyo 2020. Questa trasformazione ha creato una mentalità quasi da underdog, esplicitata dalle parole di Kemba Walker: «Il fatto di essere così poco considerati sarà la nostra principale motivazione. Siamo un gruppo di ragazzi cui non interessa essere considerati sfavoriti o non all’altezza. Chiunque creda che noi saremo il peggior Team Usa di sempre si ricrederà. Non siamo preoccupati o assillati da alcun dubbio. Siamo affamati, motivati e non ci interessa del rumore che ci circonda: stiamo trascorrendo del gran tempo insieme e siamo pronti a scendere in campo e provare a vincere la medaglia d’oro».
Ecco, probabilmente è in quel provare che sta tutta la discontinuità con il passato, la differenza che passa tra gli altri Team Usa e questo, così perfettamente preparato all’idea di essere allo stesso livello degli altri, in attesa che il campo confermi questa visione di normalità che è sempre sembrata così lontana e che è invece terribilmente vicina. Senza che questo debba per forza essere un problema, come ribadito anche da Dan Devine: «Anche l’inevitabilità a un certo punto invecchia e Superman non può essere sempre coraggioso. Proviamo ad abbracciare quest’idea di incertezza e vulnerabilità in funzione di un cambiamento. Magari non è ciò cui siamo abituati quando parliamo di Team USA, ma potrebbe essere proprio quello che il medico, e questo roster, ci hanno prescritto».