Alla classica domanda “qual è la tua giornata-tipo”, Piero Ausilio, direttore sportivo dell’Inter, rispose: «Faccio incontri con altri direttori o agenti, anche quando il mercato è chiuso; dopo seguo l’allenamento al centro sportivo; poi, ancora appuntamenti. E fuori dall’orario di lavoro, ancora lavoro: nel senso che quando torno a casa guardo partite di tutto il mondo, o i filmati sui giocatori che stiamo seguendo. Fino a notte fonda, fino ad addormentarmi sul divano, insomma. Il giorno dopo si ricomincia». Lo ha detto Ausilio, ma avrebbe potuto dirlo qualsiasi altro suo collega: è la routine di tutti i direttori sportivi di massimo livello. Sono passati tre anni da quell’intervista, e guardare le partite, farsi un’idea dei giocatori sul taccuino e imbastire trattative rimane il cuore del lavoro di un diesse, ma nel frattempo è diventato anche altro. Non più soltanto un esperto di calciatori, ma anche di bilanci, contabilità, economia. Si chiama ancora “direttore sportivo”, ma la parte sportiva non è più l’unica di cui si deve occupare. O meglio: per occuparsene, deve possedere anche le competenze degli altri ruoli dirigenziali.
La metamorfosi del mestiere è stata completata negli ultimi anni, ma era cominciata nel 2009, quando fu introdotto il Fair Play Finanziario. Il nuovo regime imposto dalla Uefa ha modificato le regole del mercato, disegnando un perimetro all’interno del quale ogni società è obbligata a muoversi: in estrema sintesi, puoi spendere al massimo quanto guadagni. Prima, la proprietà concedeva un determinato budget per il mercato, e con quel budget il direttore sportivo doveva essere in grado di migliorare la rosa. Solo che il perimetro era autoimposto, quindi non era vincolante ed era tendenzialmente più largo. Quando si è ristretto, ma gli obiettivi sportivi sono rimasti gli stessi, i ds hanno dovuto arrangiarsi. E quindi hanno dovuto aggiornarsi, studiando la materia finanziaria a fondo. L’obiettivo è diventato manipolare il perimetro, per allargarlo e muoverlo a seconda delle necessità.
Non per caso, negli ultimi dieci anni sono state create nuove formule di mercato. Formule creative. Si sono rivelate necessarie per chiudere affari che altrimenti, con i nuovi vincoli, sarebbero stati impossibili, spesso anche per i grandi club. E quindi, ecco i prestiti biennali, i diritti di riscatto e controriscatto, la clausola di recompra, le percentuali sulla futura rivendita, i pagamenti rateizzati e le compartecipazioni, abusate al punto da indurre il governo del calcio a vietarle definitivamente. E, infine, gli scambi come leva per creare plusvalenze nei bilanci, cioè quei segni positivi che consentono ai conti di rimanere in equilibrio e quindi conservano la dimensione del perimetro di manovra: non rispettare i parametri, almeno in teoria, significa rischiare delle sanzioni. E dunque avviare un circolo vizioso da cui qualsiasi ds vuole tenersi alla larga.
Un altro aspetto con cui i direttori sportivi hanno dovuto confrontarsi è quello della comunicazione. È un ulteriore cambiamento indotto dal Fair Play Finanziario, perché se le società hanno dovuto ripensare il loro modo di fare mercato, ai direttori è toccato spiegare il loro nuovo lavoro. Così, dal dietro le quinte sono stati trascinati su un palcoscenico perennemente illuminato, i cui riflettori sono stati alimentati dai media: negli ultimi anni è cresciuto il numero di trasmissioni e articoli dedicati al mercato, così i ds hanno subito un processo di mitizzazione paradossalmente in contrasto all’esigenza di segretezza del loro ruolo. Hanno imparato a comunicare per veicolare i messaggi della proprietà, ma anche per proteggere il loro operato, usando un linguaggio complesso, sobrio ma anche ambizioso, professionale ma anche empatico, strategico ma anche onesto. Inoltre, il rapporto con i media è ormai entrato nell’ordine del giorno, se è vero che molti ds lo usano a loro vantaggio: la segretezza agevola le trattative, ma alle volte concedere qualche indiscrezione ai giornalisti può dirottare altrove l’attenzione del pubblico e delle rivali. La comunicazione è rivolta anche verso l’interno: sono decisivi anche i contatti con i giocatori in rosa per valutarli dal punto di vista mentale e per pianificare il mercato in uscita.
Un buon direttore sportivo, oggi, deve quindi essere anche un abile psicologo dei giocatori e di se stesso, deve essere freddo di fronte ai sentimenti che questo contatto umano può creare. In fondo, i ds che comprano i calciatori sono spesso anche gli stessi che li vendono. Gestiscono persone, ma li muovono come se fossero figurine. Trovare la misura è tutt’altro che scontato. In più, a un direttore sportivo è richiesta anche una visione aziendale coraggiosa, diversa rispetto a quella di altre componenti della dirigenza, perché i giocatori sono un patrimonio instabile, in continua evoluzione e in balia delle prestazioni, sia singole che di squadra, e vanno quindi gestiti in controtempo. Un ds deve saper vendere prima che sembri necessario, e comprare prima che lo facciano gli altri. Il suo lavoro è un’eterna scommessa in cui la pianificazione va di pari passo con l’improvvisazione, e la calma si mescola all’adrenalina.
Negli anni in cui hanno applicato le loro nuove competenze, i direttori sportivi hanno lasciato in secondo piano i vecchi ferri del mestiere: si sono persi nei tecnicismi che loro stessi hanno creato, hanno abbandonato la classica guerra alle società rivali e non hanno saputo fermare la crescita del potere in mano ai calciatori e agli agenti, sempre più rilevanti. In quest’ultima estate la situazione sembra cambiata, molti hanno ripristinato l’importanza piena della loro figura. Un esempio del ritrovato spirito antico dei direttori sportivi è l’atteggiamento inflessibile di Marotta nei confronti di Nainggolan e Icardi, la cui esclusione è stata ribadita a più riprese, anche nei momenti di difficoltà. Così il dirigente nerazzurro ha ricordato la rilevanza di una figura che spesso subiva l’ingombro dei giocatori e dei loro agenti. Certo, Marotta non è un direttore sportivo, ma ne svolge le funzioni durante le finestre di mercato, è essenzialmente quella figura ibrida eppure plenipotenziaria a cui i direttori sportivi tradizionali si sono avvicinati.
La svolta estiva del ruolo è stata dettata anche da una coincidenza: quasi tutti i grandi club italiani hanno cambiato direttore sportivo, o uomo-mercato. È arrivato Marotta all’Inter al fianco di Ausilio; Paratici è diventato direttore unico alla Juventus; Petrachi ha sostituito Monchi alla Roma; Massara è passato al Milan, per collaborare con Boban. Per tutti, questo mercato è un biglietto da visita. È quindi cambiato l’approccio agli affari dei grandi club, di chi ha più soldi da spendere. Anche del Napoli, che è rimasto con Giuntoli ma ha modificato l’impostazione: più giocatori pronti, come Manolas e Lozano, e meno giovani da valorizzare. È stato un mercato diverso, perché diversi sono i direttori che l’hanno orchestrato. Ed è stato un mercato battagliero, in cui si è preferito rischiare. Non accadeva da anni. La distanza con la Juventus aveva sopito l’aggressività dei grandi club, ognuno badava ormai a sé senza disturbare il prossimo. Gli obiettivi, poi, a parte rare eccezioni, non erano condivisi per via delle differenze economiche. Stavolta i direttori si sono sfidati. Paratici, prima dell’inizio del mercato, aveva ammesso a Sky Sport che è solito effettuare «azioni di disturbo», informandosi su quali giocatori stanno trattando le concorrenti. È accaduto con Lukaku; forse anche nell’ipotetico scambio Icardi-Dybala, utile per i conti di entrambe, eppure impraticabile per via della guerra fredda in atto; e probabilmente con lo scambio Spinazzola-Luca Pellegrini, che ha soddisfatto il bisogno di plusvalenze della Roma, regalandole una posizione di forza con Dzeko, ricercato, guarda caso, dall’Inter. Alla fine, il tempo si è dilatato e ha invitato il bosniaco al rinnovo, e i nerazzurri hanno rimediato con Alexis Sánchez, ma è interessante notare come un’azione apparentemente collaterale della Juve possa, almeno un po’, aver condizionato il mercato di una rivale.
Walter Sabatini, in un’intervista a Repubblica rilasciata subito dopo aver salutato la Roma, dichiarò che «sì, un direttore sportivo legge la scheda tecnica, ma quello che vedono i suoi occhi e quello che legge il suo cuore su un giocatore nessuno lo metterà mai per iscritto»; anche Ausilio confidò che gli basta «vedere i giocatori un paio di volte per capire se fanno al caso nostro». Sabatini e Ausilio intendono dire che le sensazioni, spesso, fanno la differenza nonostante l’uso sempre più frequente delle statistiche. Con il reparto scouting, il ds deve saper mantenere i rapporti, valorizzarli come se fossero suoi dipendenti, una piccola azienda nell’azienda. E quindi, deve avere anche doti di leadership notevoli. E a proposito di rapporti, anche quello con gli allenatori è delicato. Se però funziona, è spesso sinonimo di successo: non è un caso che molti ds, quando cambiano società, cerchino di lavorare insieme a tecnici con cui hanno già condiviso una o più stagioni. Nel calcio contemporaneo, che chiama gli allenatori a imporre un’identità di gioco specifica, e quindi a utilizzare giocatori con determinate e particolari caratteristiche, i ds sono sempre più chiamati a lavorare in funzione delle richieste dei tecnici piuttosto che seguendo le loro idee personali. Devono quindi conoscere nel dettaglio anche il gioco del mister a cui consegneranno i nuovi calciatori, devono essere coinvolti nello sviluppo del lavoro sul campo. E se non è possibile raggiungere i giocatori indicati dagli allenatori, il loro compito è proporre delle alternative valide, ma soprattutto che abbiano le stesse caratteristiche.
È un lavoro così sfaccettato da non poter essere svolto da chi gestisce anche la squadra. Infatti, anche in Premier i manager all’inglese stanno svanendo, stanno scomparendo le figure alla Ferguson e nel mentre cresce il numero di ds puri. Non è un caso che proprio il Manchester United, che aveva Sir Alex in persona, sia uno dei pochi club che non ha ancora un direttore sportivo. Si affida infatti all’amministratore delegato Ed Woodward, che conduce anche il mercato. Woodward fu criticato da José Mourinho a più riprese e dai fan per una mancanza di esperienza tecnica, di conoscenza dei calciatori. E oggi è stato identificato, sia dai tifosi che dagli opinionisti, come responsabile della difficoltà del club in questi anni. Non tanto per un’incapacità, quanto perché è impossibile riciclarsi, improvvisarsi o sdoppiarsi in un ruolo così complesso, e rilevante, e decisivo come quello del direttore sportivo.