Jamie Vardy, la definizione dell’efficienza

Il Leicester è cambiato, ma il suo centravanti non ha perso nulla della sua capacità realizzativa.

Nonostante la sconfitta subita sabato contro il Manchester City, la prima a spezzare una serie positiva di risultati che durava da ben due mesi, il Leicester di Rodgers è ancora ben saldo al secondo posto in Premier League. Ha messo nel sacco trentanove punti in diciassette giornate, una prima metà di stagione in cui tutto, o quasi, è funzionato a meraviglia. La miglior fase difensiva del campionato (appena quattordici reti subite, le stesse del Liverpool), una batteria di centrocampisti complementari e dinamici, un rifinitore – James Maddison – che procede di buon passo verso la maturazione definitiva, senza dimenticare l’ormai rodata organizzazione messa in piedi da un manager che dopo qualche anno lontano dai riflettori ha confermato di meritarsi i grandi palcoscenici. E tuttavia, per quanto sia in un certo senso riduttivo, è inevitabile che il riferimento principale a cui appoggiarsi per parlare del Leicester sia anche di questi tempi il suo numero nove. Lo stesso Jamie Vardy che cinque anni dopo l’impresa è l’unico, insieme a Schmeichel, a fare ancora parte dell’undici titolare delle Foxes.

Il fatto che oltre il 40% delle reti segnate in Premier dal Leicester porti il suo nome ne è sicuramente la ragione principale, ma ci sono altri piccoli dettagli che dirigono l’attenzione verso l’ormai quasi trentatreenne di Sheffield. In primis il fatto che questa stagione è soltanto l’ultimo stadio di una carriera che dal 2015 procede, pure tra inevitabili oscillazioni, all’insegna della continuità: dopo le 24 reti segnate nell’anno del titolo, e dopo l’estate in cui il suo passaggio all’Arsenal sembrava cosa fatta, Vardy ha segnato ancora e ancora, mantenendosi su cifre magari non eccelse, ma ampiamente sopra la media dei suoi colleghi. Nel dettaglio, ha trovato il gol rispettivamente 16, 23 e 18 volte nelle stagioni 2016/17, 17/18 e 18/19, non a caso rimanendo un punto fermo nelle convocazioni di Hodgson, Allardyce e Southgate prima di lasciare la Nazionale poco più di un anno fa. Se oggi, a fine dicembre, si trova già a quota 17, ed è per distacco in testa alla classifica marcatori, è ragionevole stupirsi e identificare un fattore di novità; ma serve tenere presente che questo risultato è allo stesso tempo parte di un discorso di continuità che lo ha sempre visto uscire almeno con sufficienza da ciascuna delle passate quattro stagioni.

D’altra parte, assodata la continuità, se i numeri di Vardy si sono impennati a partire dalla seconda metà dello scorso anno è inevitabile chiamare in causa il rapporto che lo lega a Brendan Rodgers. Da quando l’ex tecnico di Liverpool e Celtic si è seduto sulla panchina delle Foxes, infatti, il suo numero nove ha segnato più gol in campionato di tutti i giocatori in attività: 26 in 26 partite. E ciò che veramente impressiona – lo notava anche Adam Bate su Sky Sports UK – è il fatto che dopo tutti questi anni Vardy non abbia manifestato il minimo segnale di rallentamento.

Fra due settimane compirà trentatré anni e quella in corso è destinata a diventare, salvo complicazioni di natura fisica, la sua migliore in termini di prolificità da quando gioca in Premier League. E non è tutto. Secondo quanto riportava il Telegraph poche settimane fa, durante il precampionato il database del Leicester ha registrato le migliori statistiche di Vardy in termini di velocità sul corto: ben 9,3 metri al secondo, il suo record personale. Un rapporto, quello generato da età e forma, che soltanto in casi eccezionali riesce a mantenersi in tensione, a non allargarsi in favore della prima. Ibrahimovic rappresenta uno di questi casi, ma Zlatan, a differenza di Vardy, non ha raggiunto l’apice della sua carriera nel campionato dove per eccellenza i ritmi, e quindi la richiesta di dispendio energetico, sono più alti.

In questo senso, nel preservarne la condizione fisica e atletica, l’apporto di Rodgers è stato decisivo sia in via indiretta, nell’assemblare una squadra in grado di supportarlo più attivamente, sia in via diretta, chiedendogli di giocare in maniera differente. Per quanto riguarda la prima, il Leicester di oggi è una realtà molto diversa dalle versioni viste nello scorso quadriennio, anche dal punto di vista tattico: mantiene un possesso palla medio superiore (55%, contro il 47% medio delle ultime quattro stagioni), è congiuntamente più precisa nella distribuzione dei passaggi (l’83% dei quali va a buon fine, contro un valore medio degli anni passati pari a 75%), e fa partire le sue azioni quasi sempre dalla linea difensiva (tutti e quattro i titolari – Pereira, Suyuncu, Evans e Chilwell – sono tra i primi venti in Premier per passaggi completati in valore assoluto). Descrivendo una squadra che tende a sviluppare un baricentro più alto sul campo, dunque, questa evoluzione esercita una influenza significativa sulla partita di Vardy: rispetto agli scorsi anni è più vicino ai compagni, e la fase di non possesso è (anche) per lui meno preponderante nei novanta minuti di quanto non lo fosse fino ad un paio di anni fa.

In più ci sono le indicazioni dello stesso Rodgers, che dichiaratamente si aspetta da Vardy un lavoro meno a tutto campo e quindi meno snervante e dispendioso. Questa richiesta riguarda entrambe le fasi, tanto quella di non possesso quanto quella di possesso. «A volte succede che gli attaccanti si sentano in dovere di partecipare alla manovra, anche solo con un tocco», ha spiegato Rodgers, «ma lui sa che non deve preoccuparsi per questo, che verrà giudicato soltanto per i gol». Una concezione radicalmente anti-moderna del ruolo dell’attaccante che trova conferma nella monotematicità delle partite di Vardy: rispetto alle sue prime stagioni a Leicester gioca meno con la squadra (appena 12 passaggi completati ogni novanta minuti, lontano dalla media di 18 che ha mantenuto fino ad un paio di stagioni fa), è molto meno “generoso” in termini di passaggi chiave (con 0,6 p90 sin qui è la sua peggior stagione in questo senso), e come se non bastasse si classifica appena 179esimo (!) in Premier League per dribbling riusciti a partita, con un valore ben inferiore dall’unità. Una descrizione calzante di questa sua evoluzione – per la verità iniziata già da un anno abbondante – l’ha fornita il Leicester Mercury, quotidiano locale della città, che ha scritto come Vardy sia diventato con Rodgers la «definizione dell’efficienza». Il suo ruolo sembra fondato pressoché interamente sulla presenza nell’ultimo terzo di campo: non gli viene chiesto di prendere parte alla costruzione delle occasioni, ma solo di finalizzarle.

Il modo in cui Vardy sta in campo nel 2019 insomma è meno turbolento, più consapevole e per certi versi più maturo. Oltretutto, una volta imparato a risparmiare energie preziose, la sua già notevole facilità nel trovare la porta non può che guadagnarne. Quello della qualità nella finalizzazione è un aspetto centrale nella sua stagione fino ad ora: secondo i dati di Understat sta registrando in termini di gol valori di overperforming davvero poco comuni, ovvero sta in poche parole concretizzando molto, molto più di quanto sarebbe lecito aspettarsi. L’ultimo dei gol segnati, quello all’Etihad nella sconfitta subita per mano del City, ne è solo un esempio – e neanche dei migliori.

Con la maglia del Leicester, Jamie Vardy ha realizzato 129 gol in 302 partite ufficiali in tutte le competizioni (Michael Regan/Getty Images)

A questo si aggiunga il fatto che Vardy non è certo un tiratore seriale (non lo è mai stato) e che in questa prima metà di Premier League gli sono bastati 48 tiri per segnare 17 reti. Ovviamente nessun attaccante con un minutaggio decente può vantare un rapporto così basso tra tiri e gol, ed è inevitabile ricondurre questa iper-efficienza allo sgravio di responsabilità legate a tutto il resto che Rodgers gli ha concesso. In una accurata analisi scritta per il Times, James Gheerbrant osservava come Vardy abbia in qualche modo ottimizzato il suo stile di gioco, ridimensionando la sua tendenza a correre per tutto il campo di partita in partita e dedicandosi di più al posizionamento e alla preparazione del tiro. È senza dubbio questa la chiave del suo rendimento sin qui.

Parlare di Jamie Vardy alla vigilia del 2020 significa parlare di un attaccante che a modo suo non si è mai davvero rilassato. È venuto fuori dal nulla, ha vinto un campionato che ancora oggi resta tutto sommato inspiegabile, e la sua decisione di restare nella città e nel club che lo avevano consacrato parve a suo tempo denotare una personalità meno ambiziosa, meno famelica di come appariva sul campo. Avrebbe potuto fermarsi, come in effetti sembrava avesse fatto rifiutando l’Arsenal, e invece cinque anni dopo è di nuovo in testa alla classifica marcatori, a trascinare un Leicester completamente nuovo in una nuova lotta per un posto in Champions League. Non è cambiato direttamente nel modo di stare in campo, è cambiato piuttosto il contesto intorno a lui: a trentatré anni è lo stesso ottimo attaccante di quando ne aveva ventotto, e che da lì in poi ha sempre continuato a segnare. Non si è mai fermato, Vardy; semmai ci eravamo fermati noi.