I 10 momenti sportivi che hanno segnato il 2019

Dieci firme raccontano gli avvenimenti sportivi più importanti dell'anno che volge al termine.

Il calcio-intrattenimento del Liverpool si è preso tutto

Jurgen Klopp chiama a sé Wijnaldum, lo abbraccia, gli dice qualcosa e sorride. Sta per cominciare il secondo tempo di Liverpool-Barcellona, la semifinale di ritorno della Champions League 2018/19, il risultato è di 1-0, lo 0-3 del Camp Nou è ancora da recuperare e stando ai fatti, pare un’utopia: si è appena fatto male anche Robertson, fino a quel momento il migliore, in aggiunta alle assenze di Salah e Firmino. Oltre al fardello degli infortuni, i Reds devono convivere con quello psicologico: la sera prima, avevano dovuto guardare dal divano l’inverosimile gol di Kompany al Leicester che, di fatto, consegnava al Manchester City la Premier. Chiunque avrebbe alzato bandiera bianca, arrendendosi ad un destino avverso, tranne Klopp e la sua impressionante capacità di sdrammatizzare, di divertirsi e di divertire. E di riflesso, non poteva arrendersi il suo Liverpool, e nemmeno Anfield. La sera del 7 maggio 2019 è il momento sportivo dell’anno perché è uno di quei momenti in cui il destino si compie e nulla può cambiarlo. Né gli infortuni, né la sfortuna, né Messi. Wijnaldum, lui, nel giro di 2′ segna una doppietta che allinea le stelle, e Origi, l’escluso dell’andata, firma l’apoteosi. Come spesso accade in Champions, la vera finale è la semifinale, e l’ultimo atto non è che una scontata conferma: basterà un Liverpool attento a schiantare il Tottenham al Wanda Metropolitano. Il successo dei Reds è l’evento del 2019 perché è un punto di rottura: è la dimostrazione che si può pensare al calcio come ad un intrattenimento puro anche ai massimi livelli. E che questo concetto di calcio (di sport) può anche essere sinonimo di vittoria. (Claudio Savelli)

Leo Messi va oltre il possibile, fino alla noia

Di anno in anno, e di record in record, descrivere Leo Messi attraverso una chiave che aggiunga qualcosa di nuovo è sempre più difficile. Lo è sicuramente per via del fatto che dopo quasi tre lustri si sono riempite pagine e pagine con il suo nome, ma anche perché in fin dei conti Leo Messi si descrive da solo e continua a farlo, settimana dopo settimana, alzando continuamente l’asticella e rendendo sempre più irraggiungibile la sua dimensione. Proviamo allora a chiamare in causa una parola che è certamente pericolosa, ma che se non fraintesa può aiutare a comprenderne la grandezza meglio di molte altre più inflazionate. La parola è noia. È Messi un calciatore noioso? Lo è il suo passato, la sua storia? Lo sono i suoi trionfi, le sue cadute, le sue imperfezioni? No.

Ad essere noioso, ripetitivo a tal punto da cancellare ogni effetto sorpresa e a portarci a dare per scontato tutto quello che fa, è piuttosto il fatto che Messi ha già sfondato la dimensione del possibile, lo ha fatto già da diversi anni, e ogni volta che batte un record non fa altro che aggiungere un mattone in più ad un edificio che è già fin troppo alto. Il sesto Pallone d’Oro è quello che gli consente di doppiare (doppiare) la triade Platini-Cruyff-Van Basten, che aveva agganciato ad appena ventiquattro anni – un’era fa, di questi tempi – e rappresenta precisamente uno di quei mattoni. Così superfluo e innecessario per descrivere la sua grandezza da far cadere le braccia. Certamente Messi è mostruoso, geniale, inumano, certamente è inarrivabile, imparagonabile, leggendario eccetera. Di più: lo è tal punto e in maniera tanto palese da diventare per l’appunto quasi noioso. Pensandoci bene, può forse esistere per un calciatore un riconoscimento più totale di questo? (Simone Torricini)

L’ottavo scudetto consecutivo della Juventus è stato diverso dai sette precedenti

Sembra, di anno in anno, di dover re-incollare quanto scritto già nei precedenti bilanci di fine anno: la Juventus padrona del campionato; una profondità e complessità di rosa che non ha eguali in Italia; una fame di successo che non conosce limiti e riscrive record – con quello del 2018/19, i bianconeri sono la prima squadra tra le top cinque leghe europee a essere riusciti nel vincere otto campionati di fila. L’ultima stagione, poi, ha raccontato come mancasse realmente un’alternativa credibile, con la Juve che nel corso della stagione ha raggiunto persino i venti punti di vantaggio sull’immediata inseguitrice.

Eppure l’ottavo anno di fila di dominio bianconero ha rappresentato qualcosa di diverso: ha segnato l’ideale conclusione di un ciclo, quello di Max Allegri con cui la Juve ha festeggiato cinque scudetti. Il cambio allenatore, in realtà, sottintende un significato più profondo, ovvero la necessità di affiancare alle vittorie un modo di vincere, che sia bello e seducente e al tempo stesso funzionale. Ha, in qualche modo, posto tutto il mondo del calcio italiano a un interrogativo: vincere non basta più, ma serve farlo con un certo stile? Di sicuro, un’epoca della Juventus se n’è andata con quest’ultimo scudetto, e solamente il futuro ci dirà se, con lui, sarà arrivato un nuovo modo di confrontarsi con il successo. (Francesco Paolo Giordano)

La Juventus è stata la prima squadra dei cinque campionati europei più importanti a conquistare otto titoli nazionali consecutivi (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

A Wimbledon, Nadal, Federer e Djokovic hanno portato il tennis a un livello superiore, ancora

Il momento che ha segnato il tennis del 2019 è durato due partite – la seconda semifinale e la finale di Wimbledon – e ha celebrato il dominio infinito e illuminato di Rafael Nadal, Roger Federer e Novak Djokovic. La bellezza del loro gioco è stata così assoluta e complementare da risultare stordente, perversa, quasi irritante. La vera assurdità di questi tre atleti, però, sta nel fatto che abbiano superato ancora, con divertita, ignobile ripetitività, ogni logica umana precedentemente teorizzata e/o riscontrata: il tempo non ha avuto effetti negativi su di loro, anzi il loro tennis è migliore, decisamente più magistrale, rispetto a quattro, sette, tredici anni fa. Perché è un tennis che non si è fermato: Rafa, Roger e Nole avrebbero avuto tutto il diritto di sedersi su una eccellenza propria e già raggiunta, invece hanno deciso di superarsi, e ci provano e ci riescono pure nel 2019 – ed è bello pensare che si siano stuzzicati a vicenda in questa continua ricerca del record più clamoroso, o di una perfezione ancora più perfetta, se esiste.

Djokovic e Federer si sono affrontati per 49 volte in carriera. Il bilancio è favorevole al serbo: 26 vittorie a 23 (Matthias Hangst/Getty Images)

In virtù di tutto questo, guai a credere che il percorso evolutivo del gioco si sia arrestato per colpa loro. Pure nell’ultimo anno, chi guarda e chi ama il tennis e chi giochicchia e chi gioca davvero a tennis è dovuto crescere perché sono cresciuti – ancora – i re di questo sport; ognuno è andato nella propria direzione ma tutti e tre sono andati oltre. Al punto che «per vedere un po’ di tennis a Wimbledon abbiamo dovuto aspettare le semi. La, semi. E però, che tennis», come ha scritto Matteo Codignola su Undici. Gli altri non possono arrivare al livello di Nadal, Federer e Djokovic perché non hanno il loro talento e la loro esperienza e neanche la loro carica innovativa, tre qualità che sono cresciute senza mai calare negli ultimi quindici anni e sono di nuovo scoppiate sull’erba inglese, a metà luglio 2019. Due partite indimenticabili con tre divinità in campo, ed è un esercizio inutile provare a capire o dire se siano state le migliori dell’anno o di tutti i tempi, se Djokovic ha vinto meritatamente oppure no, se Federer avrebbe potuto fare di più o se Nadal è meno elegante rispetto agli altri due, perché quello che è certo, quello che sappiamo tutti, è che loro, i tre fuoriclasse, hanno portato il tennis del presente, quindi anche quello del futuro, a un livello superiore. Per l’ennesima volta. (Alfonso Fasano)

A Toronto si è chiuso un cerchio

Vincere il primo titolo NBA è speciale. Vincerlo nell’era dei superteam, mettendo la parola fine alla dinastia dei Golden State Warriors, è straordinario. Farlo da prima franchigia non americana e al termine di un quarto di secolo in cui si è spesso finiti dalla parte sbagliata della storia, è unico.

Quando, il 13 giugno, i Toronto Raptors hanno chiuso sul 4-2 le Finals contro Steph Curry & co., nell’ultima partita disputata alla Oracle Arena, la sensazione è stata quella della chiusura di quel cerchio aperto dal gran rifiuto di B. J. Armostrong nell’expansion draft del 1995. Un viaggio di catarsi e redenzione culminato nella mistica da “team of destiny” che li accompagnati nei playoff. La sconfitta interna in gara-1 al primo turno con gli Orlando Magic quasi a ribadirne la condizione ancestrale di eterni perdenti, la danza tribale sul ferro del buzzer beater di Kawhi Leonard in gara-7 contro i Philadelphia 76ers, la vittoria in gara-3 dopo due supplementari che riapre la serie contro i Milwaukee Bucks dell’MVP Antetokoumpo, gli Warriors che perdevano per infortunio Durant, Thompson e altri elementi decisivi della rotazione: turning points in cui i Raptors sono stati al posto giusto nel momento giusto. E con i giocatori giusti, oltre al Leonard in versione “veni, vidi, vici e andai via”: Fred VanVleet “uomo in missione”, Pascal Siakam go to guy presente e futuro, Marc Gasol e Serge Ibaka perfettamente collocati nel sistema di coach Nick Nurse, Kyle Lowry ripagato dei sacrifici fatti in una carriera in cui «mai, mai una volta, ho pensato di mollare». Era tutto scritto nelle stelle. Bastava saper aspettare. (Claudio Pellecchia)

Kawhi Leonard ha giocato una sola stagione a Toronto, poi quest’estate si è trasferito ai Los Angeles Clippers (Lachlan Cunningham/Getty Images)

L’Atalanta è nella storia

La prima volta non si scorda mai. Il 2019 dell’Atalanta è stato probabilmente l’anno migliore dell’ultracentenaria storia del club bergamasco, espressione di una piccola realtà che però, da qualche tempo a questa parte, ha cominciato a pensare in grande. Se Bergamo è l’epicentro della magia, Reggio Emilia e Kharkhiv rappresentano quelle città che resteranno impresse per sempre sulla mappa delle imprese nerazzurre. Al Mapei Stadium la squadra di Gasperini ha conquistato la matematica qualificazione in Champions League, battendo il Sassuolo e terminando la Serie A 2018/19 al terzo posto in classifica, tenendosi dietro Inter, Milan e Roma. In Ucraina, invece, la Dea ha strapazzato lo Shakhtar guadagnandosi l’accesso agli ottavi di finale della manifestazione.

Un traguardo insperato, viste le prime tre sconfitte consecutive maturate nella fase a gruppi, ma nello stesso tempo meritato per il modo nel quale è stato raggiunto. Programmazione e idee sono i capisaldi del progetto nerazzurro, portato avanti con grande efficacia da Gasperini, bravo a trasporre sul campo le ottime intuizioni societarie degli ultimi anni. Così è nata l’Atalanta del nuovo millennio, capace di assestarsi per tre anni di fila nelle prime cinque posizioni della classifica. E la sensazione è che il meglio, dalle parti di Bergamo, debba ancora venire. (Andrea Bracco)

La bellissima avventura dei Mondiali femminili di calcio

Chi non aveva capito che tipo di emozioni si potessero provare ha dovuto aspettare soltanto 95 minuti, qualche secondo prima del fischio finale di Italia-Australia, quando Barbara Bonansea anticipava di testa Lydia Williams e portava l’Italia sul 2-1, iniziando una cavalcata che si concluderà soltanto ai quarti di finale contro l’Olanda, anche un po’ immeritatamente. Bonansea che correva e veniva buttata a terra, e poi i missili da fuori di Aurora Galli, le triplette di Girelli, l’emozione di Milena Bertolini.

Visti dall’Italia, i Mondiali femminili 2019 sono stati un evento straordinario: milioni di persone davanti alla televisione, i bar pieni di ragazze, ragazzi e bandiere come nelle più belle cartoline estive, emozioni che da queste parti non provavamo da quelle prime straordinarie vittorie della Nazionale guidata da Antonio Conte agli Europei 2016. E la curiosità di scoprire queste atlete finalmente sotto la luce dei giornali e delle tv, così più umane dei noiosi e robotici colleghi abituati alle solite frasi metalliche standard. Un Mondiale che ha aperto un mondo nuovo: perché il calcio femminile c’era già, ma adesso è in primo piano, con più attenzione, più soldi, più copertura. Speriamo lo rimanga. (Davide Coppo)

Valentina Giacinti, capitano del Milan e attaccante dell’Italia, ha uno score di 8 gol in 35 presenze con la Nazionale maggiore; qui esulta dopo la rete segnata alla Cina, negli ottavi di finale degli ultimi Mondiali (Boris Horvath/AFP via Getty Images)

Il Settebello campione, in tutti i modi possibili

Per salire sul tetto del mondo, bisogna saper vincere in molti modi, e il Settebello ai Mondiali di pallanuoto di Gwangju, in Corea del Sud, ne ha dato la dimostrazione. I ragazzi di Sandro Campagna, quarto commissario tecnico nello sport italiano a vincere due ori iridati dopo Pozzo, Velasco e Formiconi, hanno vinto di cuore e rabbia con la Grecia ai quarti (7-6, con una bomba di Di Fulvio a risolvere la partita), hanno dato spettacolo contro l’Ungheria in semifinale (12-10, con lo straordinario poker dell’oriundo Echenique) e hanno dominato in finale, contro la Spagna (10-5).

Quello conquistato in Corea del Sud è stato il quarto Oro mondiale per l’Italia dopo quelli del 1978, 1994 e 2011 (Oli Scarff/AFP via Getty Images)

La vittoria sugli iberici, vendetta dell’8-7 subìto in semifinale agli Europei del 2018 (con gol annullato ingiustamente a 4 secondi dalla fine), a differenza delle altre partite, ha esaltato la difesa azzurra, praticamente perfetta. Al punto da riuscire, nei 32 minuti di gioco, a non far mai andare in vantaggio la Spagna, e da evitare gol subiti in situazione di parità numerica. Dei quattro ori mondiali conquistati nella storia, gli ultimi due il Settebello li ha vinti in Asia: Shanghai 2011 e Gwangju 2019. E nel 2020, a Tokyo, sono in programma le Olimpiadi. (Gianluca Cedolin)

Hamilton continua a vincere (e a pensare per sé)

Aver conquistato il quinto mondiale come Fangio? Sembrava e sembra questa l’impresa. A noi. Non a lui. Perché non sono i 5 titoli che descrivono Lewis Hamilton, sono i due che gli mancano per affiancare re Schumi o i tre per superarlo. I grandi sportivi sono cosi. Guardano avanti. Con una differenza: non in tutti gli sport rivoluzionano le regole come nel suo. Nel 2021 cambierà molto in F1. La sua Mercedes oggi è superiore. Gli serve che lo sia anche in futuro. Ecco perché Lewis corteggia la Ferrari. Solo per spronare i suoi. Nessuna illusione. (Benny Casadei Lucchi)

Hamilton è stato il primo pilota nero nella storia della F1, e quest’anno ha raggiunto la quota record di pole position (88) nella storia del Mondiale (Mark Thompson/Getty Images)

Il ciclismo mondiale ha dei nuovi padroni, e molti di questi sono davvero giovani

Il capodanno della stagione più rivoluzionaria della storia del ciclismo recente è stato celebrato domenica 21 aprile (che poi in realtà era il giorno di Pasqua), allorché Mathieu van der Poel, 24 anni e poca esperienza nelle prove su strada, si è fatto beffe di Julian Alaphilippe e Jakob Fulglsang e si è portato a casa l’Amstel Gold Race, una delle classiche più prestigiose del calendario. L’esplosione del talento olandese non sarebbe un evento sorprendente in sé: le sue qualità erano arcinote. Quello che rende il giorno dell’Amstel Gold Race 2019 in qualche modo memorabile è la sequenza di fuochi d’artificio (o di epifanie, per citare un’altra ricorrenza) che le ha fatto seguito. È come se quel numero di Van der Poel avesse simbolicamente dato il via a sei mesi in cui l’ordine precostituito del ciclismo mondiale sarebbe stato progressivamente sgretolato.

Egan Bernal è il primo ciclista sudamericano capace di vincere un Tour de France: prima di lui, c’erano riusciti solo corridori europei, nordamericani e un australiano, Cadel Evans (Anne-Christine Poujoulat/AFP via Getty Images)

A luglio è stata la volta di Egan Bernal, che a 22 anni e 196 giorni ha vinto il Tour de France, il più giovane dall’edizione 1909. Agosto ha portato in dote la fioritura di Remco Evenepoel, capace di vincere la Clásica San Sebastián a 19 anni e mezzo, mentre settembre è stato illuminato da Tadej Pogačar, classe 1998, terzo classificato nel primo grande giro disputato in carriera, la Vuelta. Aggiungendo al quadro le età dei vincitori di Giro e Vuelta (26 quella di Richard Carapaz; 29 quella di Primoz Roglič) si comprende meglio perché quello avvenuto nel 2019 più che a un ricambio generazionale assomigli a una vera rifondazione. Una grandinata di nomi nuovi che si sono rivelati uno dopo l’altro, ciascuno estendendo se possibile l’ondata di stupore generata dal precedente; che si sono presi la scena a colpi di azioni fenomenali, e che – per il giubilo degli appassionati di ciclismo – non se ne andranno per un bel po’. (Leonardo Piccione)