In un post su Instagram pubblicato al termine della partita contro la Spal, Sergej Milinkovic-Savic ha scherzato su come la sua volontà di sbloccare già nei primi minuti la gara contro la squadra di Semplici si sia effettivamente verificata. Sembrerebbe un dettaglio marginale nel contesto più ampio di una stagione da record, eppure forse è l’unica chiave di lettura possibile per raccontare la squadra di Simone Inzaghi andando al di là delle dodici vittorie (e un pareggio) nelle ultime 13 partite di campionato – 35 gol fatti e 11 subiti –, dell’overperforming realizzativo di Immobile, della rinnovata centralità di Correa e Luis Alberto, dell’ineluttabilità di Caicedo nel trovare la rete ogni volta in cui viene chiamato in causa, del ritorno ad altissimi livelli dello stesso Milinkovic-Savic. È come se i giocatori stessi si sentissero in grado di decidere come e quando fare la differenza, sempre, comunque e contro chiunque, attraverso una gestione completa e totale dei singoli momenti all’interno dei 90 minuti.
In questo senso l’ultima gara disputata all’Olimpico contro la Spal si è tradotta in una dimostrazione di superiorità tecnica fisica e psicologica tale da far pensare a una lunga esercitazione a tutto campo di attacco contro difesa, con alcuni frammenti di gioco che hanno giustificato l’utilizzo di quella definizione di “macchina perfetta e inarrestabile” che, nel recente, passato ha trovato solo nell’Atalanta di Gasperini l’altro paradigma credibile e alternativo alla Juventus o all’Inter di Conte.
In particolare sono le azioni del secondo e il quarto gol contro la squadra ferrarese a giustificare questa sensazione di forza dominante e travolgente: nella prima c’è una risalita del campo in cinque passaggi, prima che Luis Alberto trovi un comodo corridoio che Lazzari può sfruttare in assoluta tranquillità favorendo il tap-in di Caicedo; nella seconda la combinazione tra i tre giocatori offensivi nell’ultimo terzo di campo racconta quanto e come un sistema dalle sovrastrutture chiare e codificate possa esaltare le singole individualità. E la relativa competitività della Spal non sembra poter costituire una deminutio all’interno di una valutazione globale: il fatto che la stessa Juventus, nel giro di 15 giorni a fine 2019, abbia perso due volte su due, in circostanze identiche per ciò che riguarda risultato e modalità, spiega che non c’è, non può esserci, nulla di casuale nella forza spaventosa e ripetitiva della Lazio costruita da Simone Inzaghi.
Quante volte abbiamo visto la Lazio risalire il campo e attaccare la porta con questi movimenti, con queste giocate?
Anche perché, mai come in questa stagione, il tecnico emiliano ha plasmato un collettivo a immagine e somiglianza delle caratteristiche dei suoi giocatori chiave, accentuando la verticalità della manovra – la Lazio è la prima squadra del campionato per azioni pericolose generate da palla filtrante e/o contropiede – e trovando il giusto equilibrio sui due lati del campo senza dover rinunciare a nessuna delle principali individualità offensive.
I numeri, in questo senso, danno l’esatta dimensione di quanto e come i miglioramenti di classifica siano direttamente proporzionali a quelli della fase d’attacco: stando a Whoscored la Lazio, oltre ad essere il secondo miglior attacco del campionato (52 gol: prima è l’Atalanta a 59), effettua mediamente lo stesso numero di conclusioni dell’anno scorso (15,8 a partita) ma con un aumento esponenziale del dato relativo agli expected goals – 34,33 complessivo rigori esclusi, per quasi 2 xG di media ogni 90’ – generato dalla qualità delle conclusioni stesse. Che nel 65% dei casi arrivano dall’interno dell’area di rigore e con un conversion rate che sfiora il 18% rispetto al 12% scarso del 2018/2019. Certe statistiche sono fuori scala solo in apparenza: queste conclusioni ad altissima percentuale sono, infatti, la diretta conseguenza di una squadra che sa come sfruttare tanto l’ampiezza quanto la profondità del campo attraverso le connessioni tra i singoli, sia in fase di possesso che in quella di non possesso.
Ciro Immobile, ovvero una lectio magistralis sullo sfruttamento e l’attacco della profondità
Proprio quest’ultimo rappresenta l’aspetto più interessante e meno celebrato. Al di là dei sette clean sheets – appena tre nella striscia vincente aperta il 27 ottobre con la vittoria in trasferta a Firenze –, dei 20 gol subiti (seconda miglior difesa del campionato dopo l’Inter) e della circostanza che ben 11 di questi siano stati presi entro la prima mezz’ora, la Lazio è una squadra solida, capace di difendersi posizionalmente con tutti gli effettivi per lunghe fasi di partita senza pagare un dazio eccessivo; inoltre, gli uomini di Simone Inzaghi spesso scelgono di lasciare all’avversario la supremazia territoriale per poi aggredire lo spazio che si è venuto a creare alle spalle della linea difensiva. Basta guardare il dato relativo al numero dei passaggi corti completati dagli avversari: 86%, esattamente come il Lecce e peggio della Spal (84%).
Eppure, anche nell’epoca in cui la riaggressione alta sembra essere diventata una delle caratteristiche che un top team deve necessariamente implementare, questa passività sta pagando grossi dividendi. Guardando le partite della Lazio sono pochi i momenti in cui la squadra di Inzaghi sembra essere in balìa dell’avversario. Mentre sono molti di più quelli in cui la sensazione è che ad ogni azione in open play possa corrispondere un gol.
Un’azione apparentemente lenta e poco pericolosa diventa letale grazie al perfetto sfruttamento dell’ampiezza dei quinti di centrocampo
In effetti, una volta riconquistata la palla, la Lazio riesce a ribaltare velocemente l’azione e ad arrivare al tiro con un’ampia varietà di soluzioni, sfruttando l’associatività di Luis Alberto per risalire il campo tanto centralmente (29%) quanto sugli esterni (71%). Non a caso, quella di Simone Inzaghi è la prima squadra della Serie A per minuti di possesso necessari ad arrivare negli ultimi 20 metri (appena 01’47”). In virtù di tutto questo, proprio Luis Alberto è il cardine dell’intera manovra offensiva, il giocatore di trama e ordito, deputato (con Correa seconda opzione) a ricevere tra le linee dopo la prima costruzione di Lucas Leiva per rifinire e dettare i tempi dell’attacco dello spazio: in prima persona quando si tratta di premiare la corsa di Immobile o gli inserimenti dal lato debole di Milinkovic-Savic; agendo da “facilitatore” in grado di razionalizzare la tracce su cui corrono Lulic e Lazzari, autori di cinque assist complessivi in una squadra che crossa mediamente 19 volte a partita.
In fase di possesso la Lazio sembra quasi una squadra NFL con un quarterback dalla grande visione periferica, capace di assecondare la natura e le inclinazioni dei suoi ricevitori mandandoli in porta da qualsiasi posizione: «In effetti abbiamo pochi problemi dal punto di vista dello sviluppo del gioco», ha dichiarato Simone Inzaghi dopo l’ultima partita.
Contro il Parma Luis Alberto si era già dimostrato degno di Patrick Mahomes: ad oggi sono 11 i suoi assist in campionato
Infine, non va dimenticato l’aspetto mentale. Provando ad andare oltre il racconto delle vittorie in pieno recupero – compresa quella di Cagliari, che può essere considerata come il vero spartiacque della stagione – i biancocelesti hanno guadagnato ben 13 punti da situazioni di svantaggio e per ben sette volte su otto (fa eccezione il ko di San Siro con l’Inter) è riuscita a rimontare dall’1-0 iniziale, traendo il massimo anche nelle rare occasioni in cui sono dimostrati meno “ingiocabili” del solito.
Uno status di e da grande squadra, conquistato sul campo, attraverso una qualità e una continuità tali da potersi permettere di sognare l’impensabile: «Sappiamo che dobbiamo avere ben in testa quello che vogliamo e lavorare sempre di squadra. Quando lo facciamo arrivano risultati importanti. Quando è mancato abbiamo perso delle partite. Questo gruppo può togliersi grandi soddisfazioni», ha detto Inzaghi. E, a questo punto, c’è da credergli per forza.