La storia sbagliata di Paul Pogba al Manchester United

È stato sopravvalutato oppure gli stiamo addebitando delle colpe non sue?

Dal punto di vista delle prestazioni, la scelta di Paul Pogba di tornare al Manchester United nell’estate 2016 non avrebbe motivo per essere descritta così negativamente: anzi, proprio la perdurante assenza di un giocatore da 31 gol e altrettanti assist in 150 partite – 16 e 11 solo nella stagione 2018/2019 – è una delle molteplici chiavi di lettura per descrivere l’ennesima stagione in cui i Red Devils stanno sbagliando tutto, dentro e fuori dal campo.

Tuttavia il racconto, non sempre aderente alla realtà, di una carriera apparentemente compromessa da una scelta di mercato sbagliata, tra l’altro all’apice del prime tecnico, fisico e psicologico di Pogba, ha finito con il condizionare anche le analisi sul valore assoluto di un calciatore che, non più tardi di un anno e mezzo, fa era l’icona della Francia campione del Mondo – insieme a Kylian Mbappé. E proprio come è accaduto (e accade) a Neymar con il Psg, anche Pogba è stato considerato incapace di andare oltre i limiti individuali e di squadra, fino a diventare «il simbolo di tutto ciò che lo United si è permesso di diventare», come ha scritto Oliver Kay su The Athletic. Ancora una volta, quindi, il normale piano d’analisi è stato ribaltato dal paradosso per cui il giocatore più forte di una squadra “in cerca d’autore” si trova ad essere considerato come il primo responsabile di una crisi tecnica e di risultati senza soluzione di continuità.

Si tratta di qualcosa che va al di là della “good stats /bad team reputation” che l’ex juventino si sta costruendo ben oltre i suoi demeriti o della percezione di un top player penalizzato oltremodo da ciò che lo circonda: la sensazione è di non riuscire a valutare Pogba per il giocatore che realmente è, cucendogli addosso un’etichetta di uomo-franchigia per cui dovrebbe riuscire a fare la differenza ancor più di quanto non abbia già fatto dentro un contesto privo di una qualsiasi dimensione strategica e progettuale. L’essere riuscito a diventare un elemento così centrale e totalizzante, anche in sistemi di gioco estremamente lontani da loro, dovrebbe costituire la base sui cui costruire il racconto di uno dei centrocampisti più dominanti, decisivi e influenti degli ultimi vent’anni; invece è come se questo suo essere così sovradimensionato rispetto al contesto, suo e degli altri, costituisse una costante deminutio del suo essere diventato il centro di gravità permanente del Manchester United – che resta comunque una squadra di vertice.

Il tutto passando attraverso un’evoluzione tattica che ha progressivamente cambiato la sua interpretazione del box-to-box player, non tanto nel ruolo quanto nei compiti richiesti. Con Mourinho, Pogba era chiamato a creare le giuste connessioni in fase di risalita del campo in una squadra che faticava ad esplorare soluzioni diverse dal lancio lungo per Lukaku, limitando strappi e accelerazioni palla al piede in funzione di sovrastrutture rigide e prive di significative variazioni di ritmo e intensità. Pur essendo schierato nella sua naturale posizione di mezzala sinistra di un centrocampo a tre, che si trattasse di facilitare la prima costruzione o di rifinire l’azione nell’ultimo terzo di campo, il francese vedeva snaturate le sue caratteristiche di base pur dovendo sopperire con il solo talento alle carenze strutturali del sistema.

Non è un caso che con Solskjaer le cose siano sensibilmente migliorate, almeno in una fase iniziale: al di là degli otto gol e cinque assist nelle prime 10 partite con il nuovo tecnico, Pogba è stato reso più libero di esprimere la sua dimensione creativa in un sistema al servizio della stessa. Non c’era più bisogno di creare dal nulla connessioni fuori script ma di sfruttare quelle già esistenti, costruite sul suo talento finalmente libero di manifestarsi su entrambi i lati del campo, tanto nella conduzione palla in campo aperto quanto nella capacità di associarsi con il terzino e l’attaccante esterno dal suo lato. Pogba era, quindi, la prima opzione offensiva di una manovra chiaramente sbilanciata dal suo lato e che dipendeva in gran parte dalla qualità delle sue giocate.

Con il Manchester United, ha vinto Europa League e Coppa di Lega nel 2017 (Clive Brunskill/Getty Images)

Tuttavia questa centralità così marcata ha finito con il genere un equivoco di fondo sulle sue capacità di leadership effettive e quelle percepite dentro e fuori dal campo. Quando, ad inizio stagione, Solskjaer ha dichiarato che «non ci si può aspettare che Pogba sia contemporaneamente Roy Keane, Veron, Scholes, Giggs e Cantona» ha fatto riferimento all’idea di un Pogba che deve fare tutto, sempre e comunque, e solo perché è in grado di riuscirci, almeno potenzialmente.

Una considerazione distorta e amplificata dalle difficoltà di una squadra che, in assenza di una linea gestionale e manageriale chiara, rivoluziona ogni anno il proprio progetto tecnico, limitandosi ad acquistare giocatori senza alcuna congruenza con le indicazioni provenienti dal campo. Pogba, come tutti i migliori giocatori del mondo, ha bisogno di compagni all’altezza affinché le sue prestazioni riescano a condizionare positivamente quelle di squadra . Non può fare tutto da solo e i suoi sforzi per farlo riducono il suo impatto sul gioco: lo United dovrebbe riconoscere che tipo di giocatore è Pogba, abbandonando quella visione da “uno e trino” in grado di risolvere dal nulla i problemi del club, che sta ridimensionando le sue qualità, piuttosto che esaltarle.

Ai Mondiali 2018, Pogba ha realizzato un solo gol in sei partite, però ha segnato nella partita più importante: la finale contro la Croazia (Matthias Hangst/Getty Images)

Alla soglia dei 27 anni, è come se a Pogba venisse richiesto qualcosa che oggi non ci si aspetterebbe nemmeno da Messi e Cristiano Ronaldo in termini di incidenza nel suo contesto e anche oltre il contesto, sulla base dei 105 milioni spesi per riportarlo a Old Trafford e di una dimensione da leader tecnico che si è guadagnato nonostante certe premesse. Solo così si può spiegare il cortocircuito valutativo alla base di tutto ciò che lo riguarda, dai problemi relazionali con Mourinho e parte della tifoseria, ai misteri sui tempi di recupero dall’infortunio alla caviglia (che sembrano essersi esauriti), alla presunta volontà di ripartire, magari nella prossima stagione, da una squadra non solo più forte ma soprattutto più organizzata.

Una pretesa assolutamente in linea con le logiche del calcio attuale ma che pure è stata filtrata dalla chiave di lettura di un Pogba che ha sbagliato tutto, come e più dello United: «L’aspetto più deludente di tutta la questione è che quando è tornato in Inghilterra Pogba era il giocatore più costoso della storia ed è difficile immaginare quello che è successo dopo quando hai questa reputazione. Dov’è l’orgoglio nel voler dimostrare di valere così tanto? Provare di essere il miglior centrocampista del mondo, come lo ha più volte definito Mourinho, non dovrebbe forse essere la sua priorità? È brutto che un giocatore con le qualità di Pogba, a differenza di Ronaldo nella sua ultima stagione, non si preoccupi di essere ricordato come uno all’altezza della sua fama» ha scritto Daniel Taylor sul Guardian. Non è la prima volta che le conseguenze dell’aver preso la direzione sbagliata al bivio decisivo finiscono con il condizionare le valutazioni sul rendimento, la continuità  di un calciatore: sarebbe la prima volta, però, in cui queste valutazioni vengono costantemente stravolte e sottostimate sulla base di una scelta cui Pogba sta cercando di porre rimedio fuori dal campo, dopo averci provato dentro.