Sul discorso di Agnelli e l’innovazione nel calcio europeo

Alla base dei progetti dell’Eca c’è la revisione dei criteri di accesso alle competizioni europee. Perché è giusto parlarne, al di là delle polemiche.

È chiaro che se di cognome fai Agnelli e di lavoro il presidente della Juventus (di cui chi scrive è tifoso, disclaimer), in un paese come il nostro e specificatamente in un settore popolare come il calcio, da sempre inclini alla polemica facile, alla demagogia spiccia e alle battaglie in nome di un fantomatico popolo, ogni tua parola può diventare la scusa perfetta per sollevare un po’ di indignazione un tanto al chilo. Se poi queste tue parole toccano un fenomeno eccezionale e positivo come l’incredibile crescita virtuosa di una società come l’Atalanta, e quindi si può facilmente, in poche righe, sintetizzare un discorso complesso col concetto “il potente di turno, brutto e cattivo, critica l’outsider di turno, bello e buono, per difendere i propri privilegi e quelli di pochi fortunati”, ecco che la reazione indignata di giornata è servita.

Andrea Agnelli, però, oltre a portare il cognome che porta e a guidare la società che guida – due elementi divisivi per antonomasia in un discorso pubblico nazionale da sempre refrattario al successo (specie quello altrui) – ricopre un ruolo preciso nella geopolitica del calcio: il presidente pro-tempore dell’ECA, l’associazione che difende gli interessi dei club facenti parte dell’UEFA, le società di calcio europee insomma. Agnelli, con tutta l’ECA, è da un po’ di tempo impegnato a immaginare e disegnare il calcio europeo del futuro così come lo potrebbero volere i veri protagonisti di questo sport, i club appunto. Che notoriamente sono portatori di interessi contrastanti. Far combaciare innovazione, tradizione e suddetti interessi, da sempre, è esercizio complicato, in generale. Figuriamoci nello sport, ambito che tocca emozioni, passioni e questioni di appartenenza in misura fuori dal comune. Quindi la polemica è effetto collaterale da mettere in conto quando ci si cimenta con la politica sportiva a questi livelli, ed è giusto che chi la guida la accetti, dandole il giusto peso, senza ignorarla ma senza farsene condizionare.

Venendo ai contenuti, il concetto base su cui poggia il progetto riformatore di Agnelli e soci, che era al centro del lungo intervento a Londra del presidente bianconero da cui sono state tratte le considerazioni sull’Atalanta, è paradossalmente agli antipodi di quanto riportato dalla gran parte dei media italiani. L’idea cardine è proprio quella di allargare la platea di club con un accesso stabile e continuativo ai palcoscenici che contano del calcio europeo, non di restringerla.

Per fare questo, sostiene il presidente dell’Eca, bisogna lavorare su una revisione dei criteri di accesso alle massime competizioni continentali. Premiando, ad esempio, continuità e meriti conseguiti in Europa dai club, magari a scapito di privilegi derivanti dal prendere parte, con successo, a competizioni nazionali che oggi contano più di altre. In pratica: e se fosse più importante, per alzare il livello del calcio europeo, conquistare la semifinale di Champions invece che arrivare quarti in Italia, Spagna o Inghilterra? Agnelli e l’Eca pensano al paradosso, ad esempio, di una squadra come l’Ajax, finalista di Europa League nel 2017 e semifinalista di Champions League nel 2019, che deve passare dai preliminari per conquistare un posto in Champions per la stagione 2019/2020. È giusto? Se ne può e se ne deve ovviamente discutere, e non è detto che sia questa la soluzione.

Prima della partecipazione alla Champions League in corso di svolgimento, l’Atalanta si è qualificata per sei volte a una manifestazione europea: due volte in Coppa Uefa, due volte in Coppa delle Coppe e due volte in Europa League (Emilio Andreoli/Getty Images)

Questa storia conferma un paio di cose: la prima è l’impossibilità di introdurre concetti complessi in un dibattito basato ormai esclusivamente sulla semplificazione, sulla polemica, e sulla contrapposizione a priori fra potenti e eroi del popolo. La seconda è la critica preventiva a ogni dose di innovazione e cambiamento immessa nel discorso sul calcio, spesso proveniente dagli stessi che non smettono di ricordarci, a ragione, che il mondo del pallone, così com’è, non funzionerà a lungo.

Della prima probabilmente Andrea Agnelli e l’Eca devono tenere conto e dedicare più tempo alla spiegazione della loro posizione: un discorso complesso ha bisogno di tempi più lunghi. Della seconda dobbiamo essere consapevoli soprattutto noi, commentatori, addetti ai lavori, appassionati: o spogliamo ogni discorso sul futuro del nostro sport da nostalgia, tifo e demagogia, anche dividendoci sulle soluzioni proposte, oppure il calcio rimane così com’è. Un mondo dove l’Atalanta o il Leicester restano, purtroppo, solo delle meravigliose eccezioni.