Tre giocatori diversi e fortissimi che raccontano il ritorno del Wolverhampton

Adama Traoré, Diogo Jota, Ruben Neves.

Il pareggio interno contro il Brighton, successivo alla vittoria in rimonta contro il Tottenham di Mourinho, non sembra aver alterato la nuova dimensione del Wolverhampton, ormai considerata settima realtà dominante in Premier League. Al di là del quarto posto, occupato dal Chelsea, distante appena cinque punti, la circostanza deve sorprendere fino a un certo punto: al netto del ruolo fondamentale rivestito dal conglomerato cinese Fosun International, con Jorge Mendes e la sua Gestifute registi nemmeno tanto occulti delle operazioni, la parabola dei Wolves costituisce la rappresentazione di cosa significhi “programmazione” nel calcio del XXI secolo.

La crescita è stata esponenziale e in linea con la tabella di marcia stilata nell’estate del 2016, quando il club venne rilevato per la cifra di 45 milioni di sterline. Dopo qualche difficoltà iniziale culminata nel deludente quindicesimo posto in Championship, c’è stato il ritorno in Premier League dopo una stagione da 99 punti in 46 partite, poi un’annata di assestamento conclusa al settimo posto, condita dagli scalpi prestigiosi di Chelsea, Tottenham e Manchester United in campionato e Liverpool in FA Cup e dalla qualificazione in Europa League da neopromossa – una circostanza che non si verificava dal 2014, quando ci riuscì l’Hull City finalista di FA Cup contro l’Arsenal.

Oggi, alla vigilia degli ottavi della seconda competizione europea – risultato che mancava dal 1972 – la squadra di Nuno Espírito Santo è una realtà consolidata, riconoscibile nei pregi e nei difetti, e declinabile attraverso le caratteristiche di base dei suoi tre giocatori chiave: Adama Traoré, Diogo Jota e Ruben Neves, infatti, sono lo specchio di una crescita collettiva e di sistema resa possibile da un player development profondo e significativo. E che è dovuto passare dagli inevitabili alti e bassi individuali di un gruppo futuribile, costruito intorno ai giovani, al loro talento da valorizzare.

Adama Traoré

Probabilmente è l’elemento più iconico, per via del suo essere un freak dal punto di vista fisico, con un corpo apparentemente troppo grosso, muscolarmente sovradimensionato e ben lontano dall’ideale del giocatore offensivo elastico ed armonico nei movimenti. Un’esplosività e un’istintività trasposte nel suo calcio diretto, potente, verticale: Traoré è un esterno offensivo antico e moderno allo stesso tempo, con uno strapotere atletico fuori scala in grado di compensare, anzi di massimizzare un repertorio tecnico modesto.

Dopo il percorso di formazione nella Masia, Adama Traoré si è trasferito in Inghilterra: prima del Wolverhampton, ha giocato con le maglie di Aston Villa e Middlesbrough (Michael Steele/Getty Images)

La sua capacità di creare la superiorità numerica, in situazioni statiche e dinamiche, semplicemente sfruttando la rapidità del suo primo passo – è il giocatore della Premier che dribbla di più: 7 dribbling tentati a partita, 5,2 riusciti –, è stato il motivo per cui Nuno Espírito Santo ha deciso di promuoverlo titolare dopo una prima parte di carriera da supersub: prima come quinto di destra del 3-5-2, poi come terzo d’attacco nel 3-4-3, per formare con Matt Doherty una catena davvero molto interessante dal punto di vista tattico, in cui la scelta dell’ex Barcellona se restare largo o entrare dentro il campo è condizionata dai movimenti del terzino irlandese.

Una mossa che ha pagato ampi dividendi, ben al di là dei 6 gol e 7 assist complessivi: Traoré è un giocatore che sta imparando ad esprimere la propria dimensione creativa non solo conducendo la palla in avanti, ma anche attraverso una maggiore tendenza ad associarsi con i compagni. La monodimensionalità del suo gioco, la scarsa attitudine ad attaccare lo spazio off the ball e il decision making nell’ultimo terzo di campo restano criticità ancora ben visibili, ma il fatto di giocare in un contesto che esalta le qualità individuali, e che facilita le connessioni con i compagni di squadra, agevolerà certamente l’evoluzione di un giocatore dalle potenzialità illimitate.

Un gol e un assist, due azioni per comprendere lo strapotere fisico di Adama Traoré

Diogo Jota

Autore di sei gol e un assist nelle ultime tre partite – compresa la tripletta all’Espanyol in Europa League –, Diogo Jota era arrivato in Inghilterra via Porto con la fama dell’ennesimo calciatore lusitano in cerca d’autore che, una volta fuori dalla sua comfort zone, avrebbe faticato a imporsi e a trovare continuità. Per questo, al di là dell’aspetto puramente realizzativo – 17 gol in 44 presenze in Championship, 15 nelle successive 55 partite nella massima serie – Nuno Espírito Santo ha lavorato su di lui per farne un elemento chiave in un sistema liquido in cui si ragiona non in base ai moduli ma ai principi e in modo da forzarne l’adattamento ad un tipo di calcio più rapido, portandolo ad azzerare i tempi di azione-reazione.

Diogo Jota è cresciuto nel vivaio del Paços de Ferreira, che l’ha lanciato nella Primeira Liga portoghese prima che compiesse diciotto anni (Paul Harding/AFP via Getty Images)

Nato come trequartista classico, Jota si sta affermando come un giocatore offensivo multidimensionale, talvolta in grado di agire anche come prima punta scambiando la sua posizione con quella Raul Jiménez. Tuttavia è sul centro sinistra che l’ex Porto riesce ad esprimersi al meglio delle sue qualità: non tanto nel numero di gol (9), assist (3) e passaggi chiave (0,9 di media) partendo da quella specifica zona di campo per poi rientrare sul piede forte, quanto nella capacità di creare situazioni di superiorità numerica e posizionale semplicemente effettuando la scelta giusta, al momento giusto, con il tempo giusto e con la possibilità di migliorare ulteriormente nella capacità di leggere il gioco, e poi reagire di conseguenza.

La crescita di Diogo Jota ha dimostrato che l’apprendistato nelle West Midlands è stata una condizione necessaria per comprendere potenzialità e prospettive in un contesto di alto livello: «Ricordo che all’inizio mi dicevano: “sei un grande giocatore, perché vai lì”? Ora penso che tutti si siano resi conto che avevo ragione. Talvolta se si vuole guadagnare qualcosa bisogna correre dei rischi», ha raccontato in un’intervista al Guardian nel settembre 2018.

Una classica azione di qualità con cui Diogo Jota taglia tutto il campo

Rúben Neves

A un certo punto il senso di incompiutezza che circondava Rúben Neves sembrava esclusivamente legato al fatto che il suo passaggio ai Wolves  – su input di Mendes, naturalmente – fosse inspiegabile. Il centrocampista cresciuto nel Porto aveva scelto di  trasferirsi in una realtà apparentemente di secondo piano e in un campionato nel quale risultava già troppo più avanti dal punto di vista tattico, tecnico e psicologico per pensare di poter migliorare ulteriormente. Un concetto che ha la sua rappresentazione in un gol da favola segnato contro il Derby County, talmente fuori contesto da risultare addirittura banale per la semplicità e la naturalezza del controllo e del calcio al volo.

Rúben Neves risulta ancora oggi il più giovane capitano di sempre in una partita di Champions League: ha indossato la fascia a 18 anni e 221 giorni, in occasione della sfida tra il suo Porto e il Maccabi Tel Aviv (Lindsey Parnaby/AFP via Getty Images)

In realtà non ci è voluto poi molto perché l’ex Porto si dimostrasse molto più di un calciatore da highlights contro squadre e giocatori nemmeno lontanamente al suo livello: oggi è, con Joao Moutinho, il centro di gravità di una squadra che sviluppa un calcio armonioso e gradevole, fatto di possesso palla, costruzione dal basso attraverso appoggi corti e rapidi, ricerca dello spazio da aggredire alle spalle delle varie linee di pressione. Un calcio, cioè, costruito a immagine e somiglianza del giocatore che meglio incarna e interpreta questa filosofia: non è questione di numeri ma di percezioni visive all’interno della singola partita, così come non bisogna guardare a quello che fa ma a quello che fa fare agli altri ventuno giocatori sul campo, compagni e avversari, quando riesce a imporre il suo personale ritmo alla gara.

Il gol un po’ folle da fuori area è il piatto forte del menu tecnico di Rúben Neves

Rúben Neves è un giocatore in grado di far funzionare l’intero sistema “scomparendo” al suo interno, per poi riapparire quando si tratta di far valere le sue sensazionali doti balistiche e di inserimento. Quasi tutto dei Wolves attuali, nel bene e nel male, passa da lui e dalla sua velocità di piede e di pensiero. Oltre che dalla capacità di Nuno Espírito Santo di toccare le corde giuste con gli elementi di riferimento: «Parliamo di un allenatore intenso e ambizioso, che ci sprona a fare meglio ogni giorno. Anche quando giochiamo bene il primo concetto su cui insiste è che possiamo fare ancora meglio». Rúben Neves ci sta riuscendo, eccome.