Un’occhiata distratta al calendario di Serie A, dopo le prime due vittorie in campionato, mi fa saltare sulla sedia: le prossime tre gare della Roma, nell’ordine, saranno contro Napoli, Inter e Juventus. Controllo, per scrupolo, il calendario del campionato del mondo reale – il mondo in cui il calcio è fermo a causa di una pandemia virale globale, e detta così sembrerebbe questa l’ambientazione di un videogioco, anziché il contrario. E invece è un calendario diverso, nuovo e inventato da questa intelligenza artificiale con cui devo avere a che fare giorno dopo giorno. Mi chiedo: come reagirebbe il vero allenatore della Roma, a tre impegni del genere? Quanto sarebbe forte la pressione? Inizio a sentire, con una settimana di anticipo, la sottile angoscia delle potenziali sconfitte.
La terza settimana di quarantena è quella della rassegnazione, però pacifica e con meno allarmi rispetto a prima. Le nuove abitudini domestiche hanno preso forma e si sono consolidate, e anche il bisogno di fare quella passeggiata pomeridiana è calato, ed è sparito il prurito di comprare a tutti i costi quel formaggio mancante, quel barattolo di olive senza cui dieci giorni fa non sembrava di poter sopravvivere. Dal balcone di casa guardo il Bosco verticale e le torri della nuova Milano che si è fermata, il vento si è alzato e dicono che stia tornando il freddo. I nuovi suoni della quotidianità si sono consolidati: ambulanze, elicotteri e i tram che rimbombano nelle strade vuote. I gerani rivolti a est mettono i primi fiori rossi, e a mezzogiorno sembra che siano sempre meno le case che hanno voglia di condividere musica oppure rumori con tutto il vicinato.
Inaspettati, prima della partita (in casa) contro il Napoli, devo affrontare i primi due problemi personali: Davide Santon, escluso dalla lista per l’Europa League, è infelice. Non ci posso fare niente, gli dico, e mi dispiace anche un po’. Delle promesse fatte a Huntelaar, invece, mi ero colpevolmente dimenticato. Scontento perché la squadra non è stata rinforzata, mi attacca dicendo che la sua fiducia è stata tradita. Chiede di essere ceduto, dopo appena tre settimane in squadra. Gli rispondo che non andrà da nessuna parte – d’altronde non ho certo intenzione di iniziare a schierare Kalinic – e lui si arrabbia ancora di più. Ho la tentazione di chiudere il gioco e ripartire, per aver deluso quello che era uno dei miei idoli di una dozzina di anni fa. Resisto, e mi dico che riconquisterò la sua fiducia. Prima della partita, a peggiorare il mio umore, arrivano sulla mia scrivania interviste e opinioni non richieste da chiunque: Toninho Cerezo, Daniele De Rossi, ognuno con la sua previsione su come andrà o cosa dovrei fare. È quasi ammirevole quanto la stampa sportiva riesca a essere fastidiosa anche nel mondo virtuale.
La partita inizia confermando le buone impressioni avute nell’estate precampionato, quando avevamo sconfitto gli stessi avversari con un facile 3-0. Al primo minuto c’è un’occasione per Ünder trovato da Zaniolo, poi ancora Ünder, che ho iniziato a chiamare a mezza voce “Cencio”, come mi hanno insegnato un paio di amici romanisti, apre per Kluivert, con il pallone che finisce alto di poco. Ancora Kluivert, al decimo minuto, porta i tiri tentati a 6, contro gli zero del Napoli. Ma al trentesimo del primo tempo Justin si fa male: è una possibile distorsione, dicono dalla panchina, eppure voglio lasciarlo in campo, sperano che migliori. Dopo altri dieci minuti è chiaro che non riesce a giocare, e sono costretto a inserire Mkhitaryan, temendo per un infortunio che andrà a condizionare tutta la mia stagione, imprevisto come un virus, in un certo senso. La partita non decolla, e le occasioni, sia per la Roma che per il Napoli, scarseggiano. Mi accorgo che il nostro possesso palla è regolarmente sotto al 40 per cento. Il Napoli inizia a spingere al minuto 65. Offensivamente, Dzeko non riesce a combinare nulla di buono. Al minuto 83, da una punizione al limite dell’area, segna Insigne. Finisce così.
Fortunatamente, prima di giocare contro Inter e Juventus, posso sperare di vincere l’esordio in Europa League contro il Getafe. È il 15 settembre, e decido di provare Huntelaar titolare, per fare un po’ di turnover, certo, ma anche per iniziare l’opera di soft power atta a riconquistare la sua fiducia. Ricordo bene quando il Milan, la squadra che tifo, comprò Huntelaar dal Real Madrid, nel 2009, e che faccia sperduta e dolce avesse questo attaccante di vent’anni e qualcosa in più che in tre stagioni all’Ajax sembrava essere un ennesimo nuovo van Basten, ma questa volta davvero. Ricordo anche la poca pazienza dei tifosi ancora non abituati a un Milan in declino, e le scelte scellerate di un allenatore irremovibile da quello che la stampa si ostinava a chiamare quattro-due-fantasia, la cui poca lungimiranza è riassunta nella scelta di sistemare proprio Huntelaar a correre costantemente sulla fascia. Ricordo, con l’amarezza delle cose che potevano essere e non sono state, la meraviglia di quella doppietta al Catania, troppo poco e troppo tardi. Mi sono spesso chiesto che altro avrebbe potuto fare Huntelaar in carriera, se fosse rimasto a Madrid, se gli avessero costruito una squadra intorno al Milan, e mi rispondo sempre: molto di più di quello che ha fatto, che è poi un’onesta e apparentemente rassegnata vita pacifica allo Schalke, lontano dalle ambizioni e al sicuro dalle delusioni. È per tutti questi pensieri che cerco di comprarlo a ogni stagione di Football Manager.
È curioso come gli osservatori di questi giochi che sono simulazioni calcistiche possano passare anni a compilare le liste dei migliori giovani giocatori del mondo, dall’Argentina al Vietnam, e di come gli sviluppatori possano ricreare le interviste o gli allenamenti o le tattiche più complesse che ci siano per tentare di ricalcare la complessità della vita, ma alla fine ciò che decreta la fortuna di questi prodotti è qualcosa che si sottrae completamente al loro potere: l’empatia che un videogiocatore crea con i diversi elementi della rosa. Che non c’entra niente con quella del tifoso normale, ma più con quella del lettore di romanzi. Rileggendo, in questi giorni, Resoconto di Rachel Cusk, mi sono imbattuto in una frase che mi ha fatto pensare a questo rapporto tra noi e i personaggi dei giochi, questi piccoli simulacri di calciatori. Aris, un ragazzo greco, sta parlando di come guardiamo gli animali: «Attraverso di loro abbiamo accesso alla storia di noi stessi», dice. Come se tramite il gioco volessi concedere a Huntelaar una carriera che trovo più giusta, riscattare una carriera che avrei voluto diversa, a partire da quell’estate di dieci anni fa esatti.
Come in una sceneggiatura, Huntelaar segna all’esordio, proprio contro il Getafe. La Roma vince 2-1 con facilità, nonostante un brutto secondo tempo. Azzardo un discorso arrabbiato alla squadra, dicendo – scelgo il tono “aggressivo”, chissà che vorrà dire – che non è accettabile giocare partite a due facce. Sorprendentemente, i giocatori reagiscono tutti bene. Mancano soltanto due giorni alla partita contro l’Inter.
Si gioca a San Siro, e se fossi un tifoso anziché un allenatore, avrei quell’eccitazione e quella paura che irrigidisce le gambe e impedisce alle mani di stare ferme. Penso all’ultima partita vista allo stadio, Milan-Torino del 17 febbraio, l’ultimo lunedì a porte aperte prima del lockdown lombardo, e poi italiano. Ma quella era una partita facile, questa tutt’altro. Decido di affrontare di petto i problemi, e sconfiggere la noia della preparazione tattica, e adatto la mia tattica a quella dell’avversario. Sorprendentemente, i nerazzurri sono quindicesimi in campionato, avendo ottenuto soltanto due pareggi e una sconfitta. Approccio il 3-5-2 di Conte con un pressing alto e un gioco molto largo sulle fasce, per superare, nella mia idea, il centrocampo a cinque e agire poi liberamente negli ampi spazi della difesa a tre. La partita è a lungo tesa e senza grandi occasioni, fino al minuto 70, quando Mkhitaryan entra in area da sinistra e viene atterrato. Aspettare il VAR in una simulazione di un’intelligenza artificiale è grottesco, ma Kolarov segna dal dischetto l’uno a zero. Quindici minuti dopo e a pochi secondi dalla fine, ancora Kolarov cambia gioco da sinistra verso destra per Ünder, appena entrato al posto di un deludente Perez. Cencio si coordina e tira al volo da fuori area. Scatto in piedi alla scrivania, è due a zero.
Clicco ostinatamente su “Continua” per arrivare alla sfida contro la Juventus, prima e imbattuta, di nuovo cambio atteggiamento tattico e chiedo alla squadra di tirare subito, di crossare non più testo ma morbido, e di nuovo scelgo Dzeko come punta unica, per farlo sbloccare davanti a Ünder, Pellegrini e Kluivert. La Roma è al quinto posto, e sui social network i tifosi scrivono una frase che mi colpisce e incoraggia: «Coppo è meglio quando prepara un piano». La partita scorre veloce, le occasioni sono molte da una parte e dall’altra. Un palo di Danilo, un miracolo di Szczesny prima di un’altrettanto grande parata di Pau Lopez. Smalling e Mancini non riescono a contenere Ronaldo e Higuaín, ma non saprei come cambiare l’atteggiamento difensivo, né mi va di intervenire troppo nel corso delle cose. Alla fine del primo tempo si infortuna di nuovo Kluivert. Entra Zaniolo, che al minuto 50 colpisce il palo. Va tutto bene fino al minuto 56, quando Irrati fischia un rigore per la Juventus. È il primo dei tre gol che segneranno, senza concederne alcuno.
È il 26 settembre, mi accorgo anche che è passato il mio compleanno da pochi giorni. La squadra è al settimo posto con 9 punti in 5 partite, ma soltanto a meno quattro dal secondo, occupato dall’Atalanta con 13. Giocheremo, a ottobre, contro Brescia, Lugano, Udinese e Sassuolo. L’estate, che a fine settembre si trascina stanca, incerta se trasformarsi già in un nuovo anno, abbandonando gli ultimi sapori di libertà di agosto, è finita davvero. Il peggio sembra essere passato.
E01: Il progetto – Un inizio in quarantena
E02: Il progetto – Il migliore degli inizi possibili