Leo Messi è diventato un capo politico, per essere il più grande di tutti

Il fuoriclasse argentino ha sempre faticato a mostrare la sua leadership fuori dal campo. Le sue mosse negli ultimi mesi hanno cambiato le cose.

Il post su Instagram con cui Leo Messi ha annunciato l’accordo per la riduzione del 70% dei salari della rosa del Barcellona a seguito dell’emergenza Coronavirus, è un esempio della nuova comunicazione di massa applicata allo sport, ma può costituire una svolta decisiva nella storia del fuoriclasse argentino. In particolare sono i primi due paragrafi del comunicato ad emergere, per la forza delle parole e per la scelta dei modi e dei tempi: dopo aver sottolineato che «si è detto e scritto molto sulla prima squadra del Barcellona in riferimento agli stipendi dei giocatori in questo periodo di emergenza», Messi chiarisce che «la nostra volontà è sempre stata quella di applicare un ribasso degli stipendi, perché capiamo perfettamente che si tratta di una situazione eccezionale e siamo i primi che abbiamo SEMPRE aiutato il club quando ce lo ha chiesto. Incluso molte volte che lo abbiamo fatto di nostra iniziativa». L’ultimo “sempre” è in caps lock, a voler rimarcare la distanza tra il detto e il percepito, in un messaggio diretto non tanto all’opinione pubblica quanto alla dirigenza e al suo comparto comunicativo, nell’ennesimo atto della guerra intestina che sta minando il futuro a medio-lungo termine del Barca.

Il giorno dopo L’Equipe lo omaggia con una copertina iconica in cui Messi assume le sembianze di Che Guevara e il 31 marzo Alfredo Relaño scrive su AS che «Messi sembra essere il direttore finanziario del Barcellona», obbligato a rilasciare una dichiarazione ufficiale dal suo account privato per sottolineare come «ancora una volta il regime di Bartomeu si stesse sforzando di gettare nuove ombre sulla reputazione della squadra». Al di là delle logiche logoranti dietro certe situazioni, a colpire sono le modalità con cui Messi ha deciso di parlare (per gli altri) e far parlare (di sé). E se non è la prima volta che rimarca con durezza le falle nella gestione comunicativa del club – «Quando si parla dei giocatori si dovrebbero fare i nomi, se no si finisce con l’infangare tutti con cose non vere» aveva replicato alle insinuazioni di Abidal circa il peso specifico di una certa parte dello spogliatoio nella scelta di esonerare Valverde –, questa sua dimensione di portavoce ufficiale del gruppo, creduto e credibile, è una novità sostanziale: perché se il Messi leader della squadra sul campo è ormai parte del nostro immaginario collettivo, lo è molto meno l’idea di un Messi leader a tutto tondo oltre l’aspetto meramente sportivo.

Negli anni siamo stati abituati a pensare il numero 10 come un giocatore fuori scala, in grado però di esprimere la sua qualità superiore esclusivamente sul terreno di gioco, al netto di quella fascia di capitano che gli era stata assegnata quasi come contentino più che come reale riconoscimento del ruolo. E anche l’analisi degli insuccessi con Barça e Nazionale veniva filtrata dalla lente di una supposta mancanza di personalità che Messi manifestava in una prossemica sempre uguale a se stessa nei momenti di massima difficoltà individuale e collettiva: mani sui fianchi, testa bassa, sguardo perso nel vuoto, in attesa che un Mascherano o un Busquets ci mettessero la faccia e le parole per sgravarlo dalla responsabilità di essere il deus ex machina anche nelle sconfitte. Si poteva quasi dire che i ripetuti fallimenti dell’Argentina si fossero cristallizzati sul volto di Messi, nell’umanizzazione della fatica e della pressione che gravano da sempre sulle spalle di Leo, chiamato a trascinare una squadra dai mezzi tecnici modesti e dalle mille contraddizioni interne. Proprio come aveva fatto Maradona in un altro tempo, in un altro mondo, in un altro calcio.

Del resto quella dell’effettiva consistenza della leadership di Messi è sempre stato il valore attraverso cui misurare la distanza che lo separa da Maradona nell’eterno dibattito sul più forte di tutti i tempi, in cui il discrimine era costituito dalla presunta incapacità di Leo poter diventare qualcuno da seguire dentro e fuori dal campo. La discontinuità con quanto sta avvenendo è, quindi, evidente: è come se Messi, che a 32 anni ha già superato il proprio prime tecnico, fisico e psicologico pur continuando ad attestarsi su standard di eccellenza sconosciuti a tutti quelli che non si chiamano Cristiano Ronaldo, avesse deciso di compiere l’ultimo e decisivo step per accreditarsi come leader, anche politico. Ed avesse deciso di farlo nel momento più difficile di tutti, con la figura del calciatore stravolta dalla retorica dei privilegiati sempre e comunque, in un contesto storico in cui mancano i presupposti che giustifichino tale status.

Nella stagione 2019/20, Leo Messi ha segnato 24 gol in 31 partite ufficiali di tutte le competizioni (David Ramos/Getty Images)

In un articolo dello scorso dicembre di FourFourTwo, si legge di come Messi fosse diventato «il giocatore che tutti si aspettavano diventasse». Forse oggi questa lettura può essere traslata anche nella dimensione extra-campo. Si potrebbe dire, sempre obbedendo alla logica del paragone ad ogni costo, che Messi stia iniziando con Bartomeu la stessa guerra di nervi che Maradona iniziò con Ferlaino sul finire dei suoi anni napoletani; oppure si potrebbe sottolineare come, attraverso un semplice post sui social network, Messi non solo sia diventato un “capopopolo”, ma abbia cambiato la percezione comune circa la comprensione dei calciatori sulla delicatezza del momento storico che stiamo vivendo. In entrambi i casi nessuno si aspettava avesse la personalità e la dialettica per farlo.

O, meglio, quasi nessuno: «Dopo Brasile-Argentina di Copa America, Leo ha parlato al gruppo e tutti hanno pianto» dichiarò qualche tempo fa Angél Di María a ESPN. «Ha detto parole bellissime quando siamo stati eliminati dal Brasile. Era orgoglioso della squadra che avevamo costruito. Una volta finito tutti hanno pianto perché ha toccato il cuore di tutti, specialmente quello dei più giovani. Ha detto che tutti abbiamo remato nella stessa direzione sin dal primo giorno e che era felice di quanto avevamo dato per questa maglia. Ci sono state molte critiche sul fatto che non ha cantato l’inno, che non ha parlato: ma in questo torneo è stato diverso e lo ha dimostrato. Mi ha reso felice che abbia parlato ai compagni, è importante che Leo sia così. Questo Messi mi piace».