Dalla parte di Keylor Navas

Il portiere costaricano è considerato un miracolato, eppure è uno dei giocatori più vincenti della storia recente.

Miralem Pjanić, da fuori area, indirizza all’angolino con precisione sopraffina, ma prima di potersi insaccare in fondo alla rete il pallone fa conoscenza con la mano destra di Keylor Navas: sono i primissimi minuti di Juventus-Real Madrid, finale della Champions League 2016-17, e i bianconeri di Allegri stanno premendo per trovare il gol del vantaggio contro i campioni in carica. La disdetta delle parate è che passano spesso in secondo piano, specialmente quando il risultato finale è molto largo: finirà 4-1 per il Real, sarà la partita di Cristiano Ronaldo – autore di una doppietta – e dell’astro nascente Marco Asensio. Non quella di Keylor Navas.

Vogliamo fare un po’ di retorica? Facciamola: la storia di Navas potrebbe stare tutta qui, in questo paragrafo. Fa qualcosa di decisivo, ma nessuno se ne accorge, e alla fine i meriti vanno tutti agli altri. Pochi mesi dopo, Frédéric Hermel scrive su As che Keylor Navas «è stato sottovalutato troppo a lungo», e cita proprio a quella parata. Ma come sarebbe a dire “sottovalutato”? È veramente possibile sottovalutare un portiere con il suo curriculum?

Cinque stagioni come numero uno del Real Madrid, ma di fatto è titolare solamente in tre, le stesse tre in cui i Blancos hanno vinto le loro ultime Champions League. Cinque stagioni in cui ha totalizzato 162 presenze, ha subito solamente 159 gol e ha tenuto per 50 partite la porta inviolata, se vi eccitano le statistiche. Di nuovo cinque: il numero dei colleghi che, nella storia del calcio, hanno vinto altrettante Champions League o Coppe dei Campioni; di questi, solo uno ha giocato negli ultimi trent’anni (Víctor Valdés), e solo un altro era del Real (Juanito Alonso, che ha vinto le prime tre edizioni del torneo e, guarda caso, è un altro di cui non si ricorda nessuno, nascosto dalle tante grandi individualità di quella squadra). Aggiungiamo che le percentuali di parate di Navas sono tra le più alte d’Europa tra i top club, che è particolarmente abile nel neutralizzare i rigori, e visivamente è uno dei portieri più spettacolari e atletici del calcio mondiale.

Eppure «è il portiere più sopravvalutato al mondo», dice Lee Dixon, ex-leggenda dell’Arsenal, dopo aver visto il gol che Navas ha subito ai Mondiali 2018 da Marcus Rashford. Un tiro improvviso da 20 metri, con una traiettoria a scendere difficilmente controllabile; sì, forse Navas non era del tutto attento, e forse era un po’ troppo fuori dai pali. Qualcuno si ricorda anche di quella sfida contro il Borussia Dortmund, in cui smanacciò malamente un tiro tutt’altro che irresistibile, rendendo possibile il gol di Aubameyang. Peccato non si abbia altrettanta memoria degli altri due interventi decisivi compiuti in quella stessa partita, però.

Keylor Navas è un calciatore che dà poco nell’occhio, in uno sport in cui l’apparenza conta più di quanto si pensi. Sarà per i suoi 185 cm d’altezza, che ne fanno il più basso tra i portieri dei principali club europei; sarà per il fatto che proviene dalla Costa Rica, oscura periferia del calcio, nota al massimo per qualche modesto attaccante e di certo non per i portieri, ruolo di cui noi europei siamo tradizionalmente gelosi e diffidenti verso gli stranieri. Prima di lui, solo altri quattro colleghi extra-europei hanno disputato una finale di Champions League, e tra questi c’è un solo non-bianco: Dida. Soprattutto, Navas è uno che è uscito un po’ dal nulla: fino ai 28 anni era un semisconosciuto giocatore di club minori della Liga spagnola, niente a che vedere con predestinati tipo Donnarumma, De Gea o Kepa. Quando il Real lo ha acquistato dal Levante, dopo un campionato di altissimo livello e un ottimo Mondiale, era l’estate del 2014: il Barcellona si assicurava ter Stegen, il Chelsea riprendeva Courtois, e allora spendere 10 milioni per Navas – che teoricamente avrebbe dovuto contendere il posto a Casillas – sembrava decisamente un pessimo affare, reso possibile da un’annata probabilmente irripetibile.

Con il Real Madrid, Navas ha vinto dodici trofei, tra cui una Liga, nel 2017, e tre edizioni consecutive della Champions League, dal 2016 al 2018 (Javier Soriano/AFP via Getty Images)

La sua esperienza nella capitale è stata segnata dalla lotta quasi impari contro questi pregiudizi. Con Ancelotti faceva per lo più panchina, nonostante Casillas fosse già in fase calante, e generalmente era considerato solo un acquisto folkloristico e nulla più. Con Benítez è divenuto una pedina di scambio per arrivare a De Gea, ma l’affare è saltato, lui è rimasto anche se nessuno lo voleva, e alla fine Florentino Pérez si è pure dovuto scusare con lui. A qualcuno forse non convince del tutto quel misto tra religiosità estrema e modestia: Navas inizia ogni frase con un “Grazie a Dio”, che in una società secolarizzata come la nostra suona come un “Per fortuna”. Fa una strana impressione pensare a un portiere che, per parare, si affidi alla fortuna.

Ma, all’interno dello spogliatoio, gode di un rispetto e di una fiducia sempre maggiori, totalmente in antitesi con lo stereotipo da miracolato che gli hanno costruito intorno. Quando Zidane si siede in panchina, tra i due è amore a prima vista. Forse perché un poco si assomigliano: anche il tecnico francese, al netto del suo passato in campo, sembra essere solo di passaggio sulla panchina madrilena; non è un profeta né un rivoluzionario, non ha ottenuto nessun particolare risultato con le giovanili. Eppure, più ancora che di Ronaldo, di Bale e di Modrić, il Real Madrid delle tre Champions sarà il Real di Zidane e Keylor Navas.

Se vogliamo trovare un momento della svolta, è il 2 aprile 2016, quando i madrileni tornano dopo quattro anni a vincere al Camp Nou, lanciando un clamoroso tentativo di rimonta in Liga – la corsa si concluderà a un passo dall’impresa, il Real si ferma a uno solo punto dal Barcellona campione di Spagna. Ma prima delle due perle di Benzema e Ronaldo, che ribaltano il risultato, ci sono altrettante parate decisive del costaricano; nella seconda, sfiora un sontuoso pallonetto di Messi quel tanto che basta per toglierlo dallo specchio della porta. Quando spicca il volo, le braccia di Navas sembrano allungarsi oltre i limiti dell’anatomia umana; in realtà, è tutto un lavoro di spinta delle gambe, merito di una straordinaria esplosività, necessaria a compensare ciò che gli manca in altezza.

Con la Nazionale del Costa Rica, Navas ha partecipato a due edizioni dei Mondiali: otto partite giocate, sette gol subiti (Manan Vatsyayana/AFP via Getty Images)

Eppure, queste rimangono lo stesso considerazioni per i pochi adepti al suo culto. Fuori dallo spogliatoio del Real, c’è ancora chi continua a vederlo come uno che sta scaldando la linea di porta per qualcun altro. Ogni errore diventa una conferma di questa teoria: nell’aprile 2018 regala alla Juventus il momentaneo 3-0 al Bernabéu, portando il Real a un passo dall’eliminazione in Champions. Anche se poi i Blancos riusciranno a qualificarsi, resta l’idea che ce l’abbiano fatta “nonostante Navas”, ed è un’idea pesante come un macigno. Per dire, pesa molto di più del pazzesco colpo di reni con cui, due anni prima, il portiere del Costa Rica aveva spento le speranze di Luiz Gustavo e di tutto il Wolfsburg, che dopo aver travolto il Real all’andata stava subendo un’incredibile rimonta. Senza quella parata, probabilmente non staremmo parlando del Real delle tre Champions.

Quando Zidane lascia, Pérez – uno che ha sempre dimostrato di preferire i giocatori “di nome” rispetto a quelli “di utilità” – decide di mettere sul banco 35 milioni e accaparrarsi Courtois. I due portieri ora sono rivali, ma di certo non partono alla pari. Anzi, la differenza è subito: non quella tecnica o caratteriale, ma quella “politica”. A dispetto delle difficoltà di ambientamento e delle prestazioni altalenanti, il ruolo del belga non è mai stato messo in discussione, e il costaricano si è dovuto accontentare di giocare per lo più in Copa del Rey. Con quello che era stato pagato, era impensabile di lasciare Courtois in panchina, e anche il ritorno di Zidane non è servito a cambiare le cose; anzi Navas, a fine anno, è stato caldamente invitato ad andare verso l’uscita.

Dopo cinque anni al Real Madrid, Keylor Navas si è trasferito al Psg a titolo definitivo: nel club parigino ha giocato 31 partite e ha subito 24 gol (Gabriel Bouys/AFP via Getty Images)

Non ci sono trofei e statistiche che tengano: è una decisione che ha a che fare con qualcosa di molto più intangibile ed emotivo. Non lo scopriamo certo oggi, il peso dei simboli: un calciatore non vale solo per quello che sa fare, ma anche per ciò che rappresenta. Ecco, Keylor Navas ha il problema di non rappresentare altro che sé stesso. Da vero antidivo, è sempre stato uno dei leader silenziosi del Real del primo triennio di Zidane: in una squadra che ha sempre fatto percepire una straordinaria forza di volontà, la sicurezza di poter vincere contro qualsiasi avversario e ribaltare qualunque risultato, lui è sempre stato uno dei giocatori mentalmente più solidi. È emerso in un contesto sociale e sportivo difficile, per poi affermarsi nella più grande squadra al mondo, resistendo a critiche continue e spesso immotivate. Una forza d’animo che Courtois, al netto di un talento fuori dal comune, non ha ancora dimostrato di avere.

«Se l’eccellenza è ciò che fai il 99% del tempo, allora Keylor Navas è l’eccellenza personificata», ha scritto Robbie Dunne per Espn. Ora gioca al Paris Saint-Germain, una squadra che ammassa talento come poche altre al mondo e che finora ha sempre dimostrato di difettare proprio nel carattere. Nella prima parte di questa strana annata, il destino lo ha fatto tornare al Bernabéu da avversario: è stato il migliore in campo nella grande rimonta dei francesi, da 0-2 a 2-2, parando tutto ciò che poteva, compreso un missile di Carvajal nei minuti finali. La sua storia è uno dei motivi per cui vorremmo veder finire questa stagione: per sapere chi ha ragione, se Keylor Navas o tutti gli altri.