Il Newcastle in mano all’Arabia è un nuovo livello di sportswashing

Un fondo saudita sarebbe a un passo dal rilevare il club, ma le proteste sono più del solito: da parte di associazioni umanitarie e di altri Paesi arabi.

La storia del Newcastle United potrebbe cambiare molto presto, e in maniera radicale: un consorzio guidato dal PIF, un fondo di investimento sovrano dell’Arabia Saudita, sarebbe vicino all’acquisto del club per 300 milioni di sterline, poco più di 340 milioni di euro, e secondo la stampa sportiva e finanziaria l’affare sarebbe a un passo dalla conclusione. I tifosi hanno già espresso il proprio parere: in un articolo pubblicato da The Independent, si legge che più del 96% dei fan coinvolti in un sondaggio specifico si è detto estremamente favorevole all’operazione; come per voler ribadire il concetto, molti sostenitori dei Magpies hanno modificato la loro immagine del profilo sui social, inserendo la bandiera verde e bianca del Paese arabo, o addirittura la foto del principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman.

In effetti un vero supporter del Newcastle, almeno secondo la definizione interna alla tifoseria della squadra bianconera, dovrebbe stappare una bottiglia, magari una molto costosa, anche soltanto per la fine all’era-Ashley, il presidente più odiato e contestato nella storia dei Magpies e probabilmente anche del calcio inglese. Ma la nuova operazione soprattutto permetterebbe allo United di diventare la società più ricca del mondo: le stime che circolano, infatti, sostengono che la famiglia reale saudita abbia un patrimonio superiore ai 260 miliardi di sterline. Lo sceicco Mansour, presidente del Manchester City, ha un patrimonio di 23 miliardi di sterline, giusto per chiarire distanze e (possibili) prospettive future.

Al di fuori della contea metropolitana del Tyne and Wear, il probabile sbarco di un fondo sovrano dell’Arabia Saudita in Premier League non è stato salutato con grande entusiasmo. Il problema non riguarda i tifosi e i proprietari degli altri club, o almeno non solo loro. Sono due i fronti che si oppongono all’operazione: uno è quello delle associazioni umanitarie, che hanno invitato i manager inglesi a bloccare l’acquisizione per diversi motivi. La prima è stata Amnesty International, che attraverso uno dei suoi portavoce nel Regno Unito, Felix Jakens, ha protestato per la situazione dei diritti umani in Arabia Saudita, esprimendo preoccupazione per l’operazione di “sportwashing” del regime. Poi è arrivato il diktat dell’associazione no-profit Fair / Square Projects, che ha ribadito una forte critica alle politiche sociali del Paese arabo, e ha anche sottolineato come «gli stretti rapporti tra la famiglia reale saudita e quella emiratina, così come quelli con le proprietà del Manchester City e dello Sheffield United potrebbero creare delle influenze contrarie al regolamento della lega».

Il secondo tentativo di ostacolare l’affare è arrivato dal Qatar: la società beIN Media Group, che ha acquistato in esclusiva i diritti di trasmissione delle partite di Premier League in Medio Oriente e in Africa del Nord per 500 milioni di euro, ha inviato una lettera a tutte le venti squadre del campionato e all’amministratore delegato della lega, Richard Masters, per convincerli a bloccare il passaggio delle quote del Newcastle. Di base vanno considerati i pessimi rapporti diplomatici tra i due Paesi – il New York Times ha spiegato che le controversie politiche sono iniziate 2017, quando «l’Arabia Saudita ha accusato il Qatar di sostenere il terrorismo e di intrattenere relazioni amichevoli con l’Iran» – ma il calcio e la Premier League erano già diventati un campo di battaglia di una certa rilevanza: beIN sostiene che l’Arabia Saudita abbia sostenuto un’operazione di pirateria televisiva con l’obiettivo di danneggiare deliberatamente le sue trasmissioni nella zona araba. Da tre anni le frequenze di beIN sono state bandite dall’Arabia Saudita, di fatto l’unica nazione del mondo in cui la Premier League è visibile solo attraverso strumenti illeciti. La diffusione di questi mezzi, tra cui l’emittente pirata beoutQ, sarebbero stati agevolati da Arabsat, operatore satellitare con sede a Riyad, capitale del regno saudita. Anche la Fifa, al termine di un’inchiesta, ha confermato «senza dubbio» il ruolo centrale di Arabsat nella gestione di beoutQ.

Nella lettera inviata da beIN, si legge che i dirigenti della Premier League e i proprietari dei club «dovrebbero valutare con attenzione le proposte di potenziali acquirenti che hanno arrecato danni ingenti alle entrate commerciali delle società e della stessa lega. L’impatto delle operazioni illegali compiute durerà anche in futuro, considerando anche l’effetto paralizzante che il Coronavirus sta avendo e avrà sull’industria dello sport». In un altro documento indirizzato a Richard Masters, beIN scrive che «le indagini sulla cordata interessata ad acquisire le quote del Newcastle United dovrebbero essere condotte nell’interesse della lega, visto il furto di proprietà intellettuale commesso dall’Arabia Saudita negli ultimi anni».

Mike Ashley, amministratore delegato della catena di negozi Sports Direct, ha acquistato le quote del Newcastle United nel 2007. Da allora, il club bianconero è retrocesso per due volte in Championship, due volte ha raggiunto la promozione ma non ha vinto alcun trofeo (Stu Forster/Getty Images)

Il calcio inglese ed europeo sembrano prestarsi inermi all’occupazione, come se fossero più attenti al mantenimento della leadership economica piuttosto che ad altri temi, come quelli eticiÈ chiaro che lo scontro sul futuro del Newcastle rappresenta molto di più di quello che sembra: gli scenari del futuro del calcio, in questo senso, vanno ben oltre la sfera sportiva, interessando la politica internazionale e gli equilibri diplomatici tra stati ricchissimi e rivali in molti campi, che vogliono allargare la propria sfera di influenza attraverso il soft power sportivo; in un contesto del genere, l’enorme peso economico della Premier League, il fascino della lega calcistica più glamour del mondo, diventano un terreno da conquistare, soprattutto da Paesi che attuano politiche sociali oscure, autoritarie e repressive, e che proprio per questo stanno tentando di ripulire la propria immagine internazionale attraverso lo sportswashing. L’Arabia Saudita appartiene a questo gruppo: i diritti umani e l’uguaglianza sono un miraggio, sono passati meno di due anni dall’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, ma nel frattempo la direzione sportiva del regime si è concentrata soprattuto sull’hosting di eventi internazionali – la prima Supercoppa spagnola con quattro squadre iscritte, le ultime due edizioni della Supercoppa Italiana, la rivincita tra Anthony Joshua e Andy Ruiz Jr. per il titolo mondiale dei massimi nella boxe – piuttosto che sugli investimenti in una o più società. Nelle cinque leghe top in Europa, infatti, un solo club è di proprietà di un imprenditore saudita: lo Sheffield United guidato da Abdullah Bin Mosaad Bin Abdulaziz Al Saud, membro della famiglia reale e proprietario dell’intero pacchetto azionario della società da settembre 2019 – tra l’altro la sua compartecipazione alla gestione del club è oggetto di un procedimento giudiziario in cui sono stati citati dei presunti terroristi affiliati ad al Qaeda e appartenenti alla famiglia di Osama bin Laden.

La situazione, però, è destinata a evolversi: da parte di Riyad c’è la volontà di ampliare e diversificare le possibilità di guadagno, così da far fruttare le enormi ricchezze accumulate, non a caso la famiglia reale ha acquistato quote dell’operatore crocieristico americano Carnival Cruise Line e di quattro grandi compagnie petrolifere europee. Il calcio, oltre a rappresentare un investimento in termini di immagine, è rappresentare un’ulteriore possibilità, soprattutto nello scenario annunciato da “Vision for 2030”, il piano finanziario decennale che prepara la totale indipendenza dell’Arabia Saudita dal mercato del petrolio. In un evento di presentazione di questo visionario programma, il principe Mohammed bin Salman bin Abdulaziz ha annunciato che il fondo PIF «sarà trasformato nel fondo sovrano più grande e ricco del mondo: incoraggeremo le nostre società a espandersi oltre i confini, a prendere il loro posto nei mercati globali. Non permetteremo mai al nostro Paese di essere in balia di una volatilità dei prezzi delle materie prime o di mercati esterni». Considerando il crollo del prezzo del petrolio nelle ultime settimane a causa della pandemia, si può dire che sia una strategia azzeccata.

Al momento dello stop per la pandemia, il Newcastle United era 13esimo in classifica in Premier League, con otto punti di vantaggio sulla zona retrocessione, ed era atteso dal match dei quarti di finale di FA Cup, contro il Manchester City (Alex Livesey/Getty Images)

Il Newcastle, quindi, è solo una parte di un progetto speculativo molto più ampio; allo stesso tempo, il calcio inglese ed europeo sembrano prestarsi inermi all’occupazione, come se fossero più attenti al mantenimento della leadership economica piuttosto che ad altri temi, per esempio quelli etici. Una delle critiche più feroci in questo senso è arrivata dal Guardian, che ha evidenziato la scarsa integrità morale dei manager della Premier League rispetto ai criteri d’accesso alla lega: «È probabile che il governo non interverrà sui potenziali acquirenti del Newcastle. Così siamo entrati nell’era della nuova ortodossia: l’Arabia Saudita è buona, Amnesty International è cattiva. E il fatto che un’emittente televisiva qatariota sia stata l’unica istituzione a opporsi realmente al fondo saudita, e che solo a quel punto la Premier League abbia iniziato a guardare con occhi diversi la proposta arrivata dal PIF, dimostra che i diritti tv sono più importanti dei diritti delle donne, che l’uguaglianza è in definitiva sacrificabile se si può finalmente sperare di arrivare in Europa League nella prossima stagione».