Zidane, malinconia e splendore

Vittorie e sconfitte, bellezza pura e una fine romanzesca.
di Francesco Guglieri 23 Giugno 2020 alle 14:54

Era arrivato in estate. La Juventus l’aveva pagato 7,5 miliardi di lire dal Bourdeaux. Non si era inserito subito, forse per l’impatto con gli allenamenti molto intensi del preparatore Ventrone, forse per il 4-3-3 di Lippi che, in mezzo tra Conte e Deschamps, gli lascia poco spazio. Fatto sta che all’inizio Zinédine Zidane sembrava un po’ sperso. Almeno fino a ottobre, quando un infortunio di Conte spinge Lippi a cambiare schema e con il 4-4-2 e Zidane si sposta un po’ più avanti, dietro l’attacco. Quell’anno, quella stagione 1996-97, me la ricordo soprattutto per una cosa: per la prima volta vidi un uomo passare dallo stato di bravo calciatore a quello semidivino di campione. Davanti ai miei occhi, partita dopo partita, si era compiuta una trasmutazione alchemica di stato. Avevo vent’anni: abbastanza per spogliare lo sguardo delle ingenuità infantili, non troppi perché l’esperienza soffochi la magia.

La prima avvisaglia ci fu già al suo primo gol in campionato, alla sesta contro l’Inter: dalla trequarti ferma il pallone con il sinistro e sempre con il sinistro disegna un ponte tra il piombo e l’oro, e segna. Ma la certezza che gli dei del calcio avevano deciso di reincarnarsi di nuovo, io e il resto del mondo, l’abbiamo avuta in semifinale di Champions contro l’Ajax nell’aprile del ’97. Due azioni, in particolare, che anche riviste adesso, aguzzando la vista tra i pixel granulosi di YouTube, raccontano già tutto Zizou. Le gambe di Zidane si muovono veloci e vicine come le dita di un pianista che improvvisa una melodia frenetica, ubriacante. E infatti nella prima azione stordisce tre difensori in pochi centimetri, nella seconda fa addirittura scontrare difensore e portiere come ballerini ubriachi. E segna. Cercate il video, togliete il sonoro: ditemi se non la sentite anche voi quella musica.

Da lì in poi è stato materiale per le leggende e per la loro trascrizione numerica, le statistiche. Inutile sprecare lo spazio a elencare le vittorie (anche solo da giocatore: due campionati italiani, una Liga, una Champions, una Intercontinentale, un Mondiale, un Europeo, un Pallone d’Oro… ma la lista non rende l’idea). Inutile ricordare i gesti – ne basta uno, la ruleta: un’invenzione da Playstation. O i gol – anche qui ne basta uno: quello con il Real in finale di Champions contro il Bayer Leverkusen nel 2002. Inutile ricordare anche i falli: è stato il più espulso nella storia della Champions.

Il fatto è che pochi altri calciatori sono stati osservati, studiati, analizzati, come Zidane; pochi altri come lui hanno ispirato film, sculture (quella di Adel Abdessemed è di bronzo, alta cinque metri e riproduce la testata mondiale a Materazzi), libri, analisi politiche (la Francia multietnica, il post-colonialismo). Parabole romanzesche: cosa c’è di più narrativamente compiuto, tragico, umanissimo, di perdere tutto proprio quando stai per avere tutto, quando, a pochi minuti dalla fine della tua carriera che tra l’altro è anche una finale mondiale, ti saltano i nervi, ancora una volta, e ancora una volta ti fai espellere?

Eppure, nonostante tutto questo, Zinedine Zidane è uno dei giocatori più misteriosi di sempre, più sfuggente. Zidane è una scatola nera che si sottrae a qualsiasi modello. L’inconcepibile. È la sovversione rivoluzionaria. Lo è per i suoi avversari: non c’è un suo movimento che possa essere previsto. Quando i difensori se lo trovano davanti non possono sapere cosa farà con le gambe, con il piede. (Come pochi altri, Zidane usa tutto il piede per accompagnare il pallone e farlo muovere con una precisione che io non ho con le mani). Ma lo è anche per chi lo guarda. Certo, nella sua voce borbottante, nel suo perenne imbarazzo, così come nei suoi scatti di rabbia, nel reagire alle provocazioni, c’è la tentazione di leggerci la parabola del figlio dell’immigrato, del ragazzo povero a disagio su un palcoscenico che non sente suo. E di certo è così. Ma non solo.

In Zidane, un portrait du 21e siècle, il videoartista Douglas Gordon mette diciassette macchine da presa puntate su di lui durante la partita del Real contro il Villarreal nell’aprile del 2005. È una ripresa in tempo reale (il film dura poco più di novanta minuti) della partita ma focalizzata unicamente su Zidane. Quasi ogni inquadratura è su di lui, sul suo corpo, sul suo viso: vediamo la fatica, il sudore, sentiamo addirittura il rumore dei passi sull’erba. È un film ipnotico, di enorme fascino. La cosa che emerge è che della partita – concentrati come siamo tutto il tempo sul solo Zidane – non capiamo niente. Non si può “leggere”, come si dice. Ci sono solo dei movimenti intorno a noi, intorno a Zidane cioè, gente che corre tra la luce e il buio, ombre che si muovono sullo sfondo. E poi ogni tanto delle accensioni di bellezza accecante. Forse è questo il senso del film e della nostra passione per lo sport: anzi, per i campioni. La ricerca di quel momento in cui il corpo passa dalla noia, dal silenzio, dalla normalità di una passeggiata sull’erba (la maggior parte del tempo Zizou vaga con lo sguardo assente), a qualcosa d’altro. Quando la vita passa dalla malinconia allo splendore. Dal piombo all’oro. Ecco, malinconia e splendore: Zidane è stato entrambe le cose, più di tutti, meglio di tutti.

Dal numero 22 di Undici
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