Cinque grandi ex giocatori che vorremmo diventassero grandi allenatori

Xabi Alonso, Andrea Pirlo, Robin van Persie, Daniele De Rossi, Dimitar Berbatov.

L’inizio della nuova carriera di Andrea Pirlo – nominato da pochi giorni tecnico della Juventus Under 23 – e le indiscrezioni sull’arrivo di Daniele De Rossi sulla panchina della Fiorentina, a partire dal prossimo anno, stanno alimentando di nuovo la discussione sul tema dei grandi giocatori che diventano allenatori. Il calcio è un universo ciclico e quindi profondamente mitopoietico, probabilmente più di tutti gli altri sport: la carriera di un grande calciatore può allungarsi, anzi espandersi in tante direzioni diverse, l’approdo in panchina è l’opzione più suggestiva, più bella da immaginare, forse per l’immediata prossimità col campo da gioco, come se in questo modo un grande campione potesse dimostrare che il suo destino è quello di non lasciare mai il prato verde.

Non è facilissimo, però: il percorso di riferimento per l’era contemporanea appartiene a Zinédine Zidane, ma il francese è solo uno dei tre calciatori che hanno vinto il Pallone d’Oro che poi sono stati in grado di vincere la Coppa dei Campioni/Champions League o il Mondiale da allenatori – gli altri due sono Johan Cruijff e Franz Beckenbauer. Certo, altri grande fuoriclasse del passato si sono affermati in panchina, magari non ai livelli di Zidane, ma hanno comunque avuto buone carriere.

È una cosa bella da raccontare, per questo abbiamo scelto cinque grandi giocatori che si sono ritirati da poco tempo, che non hanno ancora iniziato – o hanno appena avviato – la loro carriera da tecnici e che vorremmo vedere sulla panchina di club importanti, proprio come Zidane, ma anche come hanno fatto Gattuso, Lampard, Gerrard, Simeone. Abbiamo provato a immaginare che tipo di allenatori potrebbero diventare, partendo da un concetto chiave, da ciò che erano e mostravano in campo ma anche fuori, nel rapporto con i media, con i compagni, con il mondo del calcio in generale.

Xabi Alonso, la cultura

Un anno e mezzo fa, Xabi Alonso ha vinto il suo primo titolo da tecnico, guidando il Real Madrid Under 13 alla vittoria del campionato di categoria. Nell’ultima stagione, ha allenato la Real Sociedad B, portandola al quinto posto del Gruppo 2 della Segunda División B, la terza serie della piramide calcistica spagnola. In pratica, ha vissuto lo stesso percorso di formazione toccato a Guardiola, Luis Enrique, Zidane, gli ultimi grandi prodotti della scuola spagnola degli allenatori: l’apprendistato nel settore giovanile, poi l’approdo alla squadra filiale. Probabilmente è l’unico tassello che mancava al mosaico di Xabi Alonso allenatore: già durante la sua splendida carriera in campo, tutti i grandi tecnici con cui ha lavorato erano certi del suo futuro in panchina, per la sua comprensione del gioco, per la sua leadership e per il suo carisma, tutti aspetti ben visibili già in campo, ma che in qualche modo si sono fatti percepire anche fuori, nella vita vera, nella perfetta gestione della sua immagine sui social, dei rapporti con la stampa.

Xabi Alonso ha lavorato per tre stagioni con Guardiola, dal 2013 al 2016 (Christof Stache/AFP via Getty Images)

Magari il futuro di Xabi Alonso è già segnato, magari gli dei del calcio hanno fatto con lui ciò che le parche della mitologia greca facevano con tutti i mortali – cioè decidevano in anticipo quanto sarebbe durata la vita di una persona, e quale sarebbe stato il suo destino – e quindi dobbiamo prepararci a vederlo sulla panchina di una squadra forte e iconica, proprio come lui. Non sarebbe sorprendente, del resto Xabi Alonso ha una cultura – calcistica e non – pressoché totale: è stato il cervello di squadre allestite da Benítez, Mourinho, Ancelotti, Guardiola, ha vinto tutto più volte e da protagonista con la Nazionale spagnola, è stato uno degli sportivi più belli e stilosi e intelligenti della sua epoca. In virtù di tutto questo, un progetto tattico che nasce dalle sue idee non potrebbe che essere perfetto, o quantomeno tendente alla perfezione. Una squadra di Xabi Alonso, allora, sarà inevitabilmente completa: saprà accelerare e gestire il possesso palla, difendere in avanti e rinculare all’indietro, attaccherà sulle fasce e per direttrici interne. Insomma in ogni partita, anzi in ogni azione di ogni partita, sceglierà di imporre in maniera diversa la propria superiorità antropologica, emotiva, conoscitiva. Proprio come ha fatto Xabi Alonso per tutta la sua carriera.

La squadra più giusta per lui: se Xavi è destinato ad allenare il Barcellona, ed è esattamente così, perché non immaginare un Clásico con i due migliori registi nella storia del calcio spagnolo sulle panchine del Camp Nou e/o del Bernabéu?

Daniele De Rossi, l’attaccamento

Molti di voi, probabilmente tutti, avrete pensato alla Roma subito dopo aver letto la parola “attaccamento”. In realtà noi volevamo andare oltre – anche solo per un attimo – il legame tra De Rossi e la squadra giallorossa: in questo caso, il termine “attaccamento” voleva in qualche modo ricordare/descrivere il grande amore di De Rossi per il calcio, per certi valori di questo sport, un sentimento che De Rossi ha manifestato ininterrottamente nella sua carriera, e che a volte l’ha portato anche ad assumere atteggiamenti controversi. È proprio grazie a quell’attaccamento che De Rossi è riuscito a vivere da protagonista vent’anni di calcio e di Roma e quindici anni di Nazionale italiana: da centrocampista box-to-box è diventato centromediano, in alcuni momenti è stato difensore centrale, ha sempre cercato il modo e il luogo adatto per esprimere il suo talento cerebrale, tattico prima ancora che tecnico; voleva stare in campo, voleva farlo bene nonostante l’età avanzasse, e allora si è evoluto come giocatore. Una trasformazione continua che però non ha intaccato la sua leadership, o meglio il suo leaderismo schivo ma pur sempre percettibile, a volte rabbioso se non addirittura rancoroso, frutto di un amore triangolare praticamente sconfinato, quindi anche un po’ malato, in un certo senso: quello tra lui, la Roma e i tifosi della Roma.

De Rossi allenatore ce lo immaginiamo esattamente così: intelligente, furbo, la sua unica ideologia/religione sarebbe quella del calcio come mezzo di sostentamento sentimentale per sé, per i suoi giocatori, per i tifosi delle sue squadre. Tatticamente, questo attaccamento al gioco potrebbe esprimersi in un sistema che metta un patto con gli uomini al centro di tutto, che accenda la passione senza spegnere l’intelletto, una sorta di cholismo italiano, forse meno caliente ma soprattutto più offensivo. Una cosa che possa mischiare la filosofia dei suoi grandi modelli, Conte, Luis Enrique e soprattutto Spalletti: «È stato l’allenatore che mi ha condizionato di più. Mi ha preso quando ero giovanissimo, ho cominciato a vedere il calcio con i suoi occhi. Ed è un bel vedere», disse una volta in un’intervista a Undici. Anche nel rapporto con i media e col mondo normale, De Rossi sembra avere l’approccio di Spalletti: è sempre stato netto per non dire tagliente nei suoi ragionamenti, è sempre apparso sincero e mai banale, da allenatore potrebbe un po’ pagare la sua retorica identitaria nel caso abbandonasse la Fiorentina – o qualunque altra squadra – dopo averla definita «la mia squadra». Magari per passare alla Roma, che è la sua unica, vera squadra. E se poi dovesse lasciare di nuovo la Roma? Cosa succederebbe?

La squadra più giusta per lui: proprio per evitare qualsiasi discussione e una nuova sensazione di cuori infranti, anche per educare ed educarci a qualcosa di diverso, noi vorremmo vedere De Rossi in una squadra italiana che non sia la Roma. Magari la Juventus. Sarebbe bello, sarebbe difficile, quindi sarebbe importante.

Robin van Persie, il gol come necessità e come forma d’arte

Negli ultimi vent’anni, pochissimi attaccanti hanno saputo coniugare essenzialità e bellezza come Robin van Persie. Forse è per questo che Dick Advocaat, tecnico del Feyenoord, gli ha chiesto di unirsi al suo staff come allenatore della fase offensiva: praticamente oggi Robin van Persie è un coach che insegna a giocatori più giovani di lui come muoversi, come pensare, come impostare il proprio corpo per fare gol. Se si trattasse di un’arte davvero trasmissibile da uomo a uomo, che non dipende anche da qualche sequenza nascosta nel genoma di alcuni eletti, Van Persie sarebbe l’insegnante perfetto, dovrebbe fare solo questo, come certi professori che sono nati per stare a contatto con gli alunni e non è giusto che diventino presidi – per il loro stesso bene, e per quello degli gli studenti.

Robin van Persi ha esordito da professionista e ha chiuso la carriera nel Feyenoord: in 592 partite totali con squadre di club, ha messo a segno 271 gol; a questi numeri, vanno aggiunte 102 presenze e 50 gol nella Nazionale olandese (Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)

Dato che però la qualità di Robin van Persie è difficilmente replicabile, allora avrebbe senso che l’ex attaccante dell’Arsenal e del Manchester United diventasse allenatore. Magari potrebbe essere proprio lui, come fece Rinuls Michels – un altro centravanti molto forte e molto prolifico – con l’Ajax degli anni Sessanta e Settanta, a creare un nuovo modo di giocare, un sistema che possa essere rivoluzionario ma anche aderente al nostro tempo, in fase offensiva e difensiva. L’idea che il gol debba essere visto come una necessità da percorrere, ma anche come una forma d’arte da inseguire a ogni azione, porterebbe le squadre di Van Persie a praticare un calcio verticale ma raffinato, che possa ricercare ed esaltare gli attaccanti, le loro qualità negli ultimi sedici metri ma anche in altre zone di campo. Del resto la grande forza di Robin van Persie era proprio la completezza formale e sostanziale, la sua capacità di essere attaccante puro ma anche trequartista, rifinitore, regista offensivo, di essere e fare tutto questo senza perdere un milligrammo di qualità e lucidità. Una squadra che gioca in questo modo, offensivo e rischioso, sarebbe un’attrazione, proprio come lo era lui in campo.

La squadra più giusta per lui: una qualsiasi delle grandi d’Olanda, a patto che abbia una rosa ricca di talento in attacco. Per esempio l’Ajax 2018/19, che ten Hag (un altro visionario del calcio offensivo) ha portato a pochi secondi dalla finale di Champions League.

Andrea Pirlo, l’eleganza

Andrea Pirlo è stato un giocatore elegantissimo, è stato ed è un uomo elegantissimo, ha vinto tutto ciò che poteva vincere senza mai tradire il suo stile, anzi facendo in modo che le squadre e il mondo intorno a lui si adattassero al suo modo di intendere il gioco e la vita. Non è eccessivo pensare e scrivere che sia il giocatore italiano tecnicamente più forte e influente degli ultimi vent’anni, il tutto senza mai alzare il tono della voce, manifestandosi con classe assoluta, facendo parlare esclusivamente il campo. La Juventus Under 23 che ci aspettiamo di vedere non potrà essere molto lontana da questi significati, da certi valori: sarà inevitabilmente una squadra che proverà a tenere il pallone in maniera razionale, perché Pirlo era essenzialmente questo, ogni sua giocata, anche quella più visionaria e sfrontata, era pensata e attuata in funzione del gioco, del risultato. Il suo calcio era pragmatismo illuminato dalla qualità, e allora anche le sue squadre del futuro proveranno a risalire il campo in maniera armonica, probabilmente flemmatica, muovendo il pallone, improvvisando il giusto, magari solo quando il giocatore di talento può fare davvero la differenza con le sue intuizioni.

Dal punto di vista mediatico, l’esperienza di Pirlo allenatore sarà un’estensione della sua carriera da giocatore. Proprio per questo: avete mai visto o letto davvero un’intervista di Pirlo, siete mai andati oltre la sua espressione statica, dentro e dietro le sue parole? Se sì, saprete di certo che il suo cervello viaggia in mille direzioni diverse contemporaneamente, proprio come succedeva in campo. E allora Pirlo allenatore dirà tantissime cose importanti, interessanti, magari anche difficili da digerire, come se stesse leggendo le notizie del meteo o del traffico sull’Autostrada del Sole. Dobbiamo essere pronti anche per questo, forse non lo siamo ancora.

La squadra più giusta per lui: Pirlo è stato un giocatore trasversale, è riuscito a esserlo nonostante sia stato il simbolo di Milan e Juventus in periodi diversi. E allora la Nazionale del post-Mancini è un’ipotesi perfetta, del resto l’attuale ct ha impostato il gioco degli Azzurri sul possesso palla, sulla tecnica. Proprio le qualità in cui eccelleva Pirlo, che Pirlo amava esercitare.

Dimitar Berbatov, la visione

No, Berbatov non c’è finito per caso in questa lista dei desideri. Anche se la sua foto profilo Facebook e Instagram – ovviamente vecchia di quattro anni – lo ritrae impettito in un completo grigio che starebbe benissimo a un testimone di nozze o a un agente immobiliare, piuttosto che a un allenatore, l’ex attaccante bulgaro ha già ottenuto la licenza Uefa A. Cioè, Berbatov sta pensando seriamente di sedersi in panchina. Lo pensa davvero nonostante abbia avuto e manifestato un talento così puro da essere per forza anarchico, ingestibile dal punto di vista tattico. Berbatov crede di poter guidare un gruppo di uomini partendo da un’idea, dal lavoro settimanale per migliorare le doti personali e i sincronismi; crede che qualcuno possa dire a un giocatore con grande qualità che fare certe cose è meglio che farne altre, in funzione della squadra. Oppure, molto più semplicemente, crede che non ci sia un giocatore che abbia la sua stessa qualità, che tutti siano stati e siano tecnicamente inferiori a lui, e allora c’è proprio bisogno di Berbatov per istruirli. La seconda ipotesi è decisamente più probabile.

La classica esultanza di Berbatov a Old Trafford: con la maglia del Manchester United, l’attaccante bulgaro ha messo insieme 149 presenze con 57 gol (Michael Regan/Getty Images)

Come si esprimerebbe, dal punto di vista tattico, la follia calcistica di Berbatov nel lavoro di allenatore? Per capirci, Berbatov era un attaccante visionario che segnava gol come questo o questo con nonchalance, con assoluta tranquillità. E allora il suo concetto principale sarebbe quello di mettere una certa quantità di talento e di tecnica di base come requisito di base per presentarsi al campo d’allenamento; poi chi vuole giocare dovrebbe saper azzardare passaggi difficili a tagliare le linee, controlli volanti su lanci spioventi, dovrebbe tentare il dribbling in zone pericolose, i difensori non dovrebbero mai buttare via il pallone, anzi sarebbero obbligati a tentare sempre lo scambio stretto col mediano, il gioco a due con il terzino dalla loro parte. Insomma cose folli e rischiose, appaganti da vedere. Berbatov allenatore sarebbe il trionfo del gusto e dell’estetica sul pragmatismo, e perciò non ce lo potremmo perdere per niente al mondo.

La squadra più giusta per lui: uno così starebbe bene e sarebbe amato ovunque, l’ha dimostrato da calciatore e lo dimostrerebbe da allenatore. Se proprio dobbiamo trovare un’affinità elettiva, perché non scegliere una squadra storicamente piena di talento/i eppure incompiuta? Magari il Benfica, per rompere finalmente la maledizione di Bela Guttmann; o addirittura l’Arsenal, dove l’unione tra la sua visione e la storia del club potrebbero raggiungere vette altissime di lirismo, di follia.