Serie A 2019/20: i migliori cinque giocatori

Abbiamo scelto gli Mvp del campionato appena concluso.

A fatica, tra mille incertezze e pure qualche preoccupazione di troppo, il campionato è terminato regolarmente. Ce lo ricorderemo per tanto tempo, più che per questa situazione anomala, per una conclusione che si è protratta fino al 2 agosto, una data che associamo più a un’amichevole di precampionato che al giorno in cui si distribuiscono i verdetti della stagione. Ma la Serie A 2019/20 lascia in eredità anche delle performance individuali che verranno a lungo prese a modello. Quella di Ciro Immobile, per esempio, che ha vinto classifica marcatori e Scarpa d’Oro, ma soprattutto ha eguagliato il record di 36 gol in un campionato che quattro anni fa era stato stabilito da Gonzalo Higuaín. L’attaccante della Lazio è uno dei cinque giocatori che abbiamo scelto come i migliori protagonisti della stagione.

Ciro Immobile

In quest’articolo dell’agosto 2019, dopo la doppietta alla Sampdoria che gli aveva permesso di tagliare il traguardo delle 100 reti in Serie A, scrivevamo che Immobile «è stato ed è un attaccante prolifico e continuo, un eccellente realizzatore. Ma solo entro certi limiti. Solo fino a un certo livello». A un anno di distanza possiamo dire che non sono bastati un campionato da 36 gol e una scarpa d’oro – primo italiano dal 2007 quando toccò a Francesco Totti – perché smettessimo di parlare dei sui suoi limiti invece di concentrarci sulla sua effettiva grandezza. Nell’epoca dei centravanti associativi alla Lewandovski, dei 9 che diventano 10 come Benzema, della robotica perfezione di Messi e Cristiano Ronaldo, sembra impossibile che un finalizzatore puro, un centravanti vecchio stampo che esaurisce la sua funzione negli ultimi 16 metri, possa aver prevalso, almeno dal punto di vista numerico: e allora la tendenza è quella di sottolineare il numero di rigori calciati, la relativa caratura internazionale, la mancanza degli step necessari per salire ulteriormente di livello, la necessità di avere una squadra costruita ad immagine e somiglianza delle sue caratteristiche per poter emergere.

Obiezioni giuste, persino oggettive per certi versi, ma che sottostimano la dimensione che ha raggiunto nonostante tutto: Immobile è il “vecchio che avanza” – anzi che resiste – l’anacronismo che si oppone alla modernità che standardizza i canoni dell’eccellenza, la prova di come la normalizzazione della straordinarietà possa essere propria anche di chi non è sovradimensionato dal punto di vista tecnico, fisico e atletico. Riprendendo la classica iconografia del centravanti “predatore” dell’area di rigore, si potrebbe dire che, proprio come il grande squalo bianco, Immobile non ha mai dovuto evolversi, non è mai dovuto andare oltre se stesso, perché non ne aveva la necessità. E in questa stagione ha dimostrato che va bene anche così.

Romelu Lukaku

«Quanto saremmo disposti a spendere per un attaccante che segna tanti gol, che è funzionale al gioco che ho in mente, che stravede per me e io stravedo per lui?». Un anno fa, forse di più, Antonio Conte si sarà rivolto più o meno così, agli uomini-mercato dell’Inter, quando ha indicato Romelu Lukaku come primo obiettivo per rinforzare il reparto offensivo. In realtà è giusto pensare che queste sono le parole che ogni allenatore utilizza quando suggerisce di acquistare uno dei suoi giocatori preferiti, solo che nel caso specifico sono profondamente vere. Ce ne siamo accorti non appena il centravanti belga è sceso in campo con la maglia dell’Inter: la sua fisicità, la sua capacità di tenere il pallone e di far salire la squadra, ma anche la sua intelligenza nei movimenti in verticale e in orizzontale, negli scambi con Lautaro, persino la sua regia offensiva quando retrocede verso il centrocampo, tutte queste cose si sono rivelate armi preziosissime per il sistema di Conte.

Sono stati 23 i centri in campionato dell’attaccante belga: era dai tempi di Ronaldo che un neoacquisto dell’Inter non segnava così tanto (Chris Ricco/Getty Images)

L’aderenza di Lukaku al gioco del tecnico nerazzurro va ben oltre i gol, poi però ci sono stati anche quelli, soprattutto quelli, 29 in tutte le competizioni finora, mai così tanti per un nuovo acquisto dell’Inter dai tempi di Ronaldo (che arrivò a quota 34), e anche questo non può essere un caso. A tutto ciò va aggiunto che Lukaku ha segnato in tutti i modi, l’ha fatto con continuità, con Lautaro e senza Lautaro accanto a sé, e questo forse è il segnale più importante in vista del futuro, in vista del mercato – non a caso tutto l’ambiente nerazzurro sta spingendo perché Alexis Sánchez, un attaccante diverso rispetto all’argentino, possa restare a Milano. È evidente che Lukaku sia il pilastro principale del progetto-Inter, l’ex Everton e Manchester United ha acquisito questo status sul campo, l’ha fatto imponendosi senza riserve nella sua prima stagione in una nuova realtà, e così forse ha anche cancellato qualche dubbio che avevamo su di lui. Ora si può dire: Lukaku era ed è l’attaccante perfetto per stimolare e determinare la crescita della squadra nerazzurra, sul campo ma anche a livello di immagine, di impatto mediatico. Quindi Conte ha fatto benissimo a esporsi in prima persona, a chiedere di prendere proprio Lukaku, a insistere perché l’Inter spendesse 65 milioni per acquistarlo, in questo modo i nerazzurri hanno fatto un investimento decisivo per il presente ma anche per il futuro.

Matthijs de Ligt

Siamo certi: questa nomination risulterà la più controversa. Perché de Ligt ha sicuramente pagato, in termini di popolarità, le difficoltà iniziali di aggiustamento in relazione al contesto differente. Non solo: i ripetuti tocchi di mano in area – ma poi abbiamo imparato che può succedere a chiunque – gli hanno appiccicato l’etichetta di pasticcione, di combinaguai. Concetto evidentemente sbagliato. Siamo d’accordo: Paulo Dybala è stato il motore offensivo della Juventus di quest’anno, con prestazioni da top 5 mondiale, e Cristiano Ronaldo ci ha abituato a una bulimia del gol da far venire il mal di testa. Ne abbiamo doverosamente celebrato i meriti dopo la vittoria dello scudetto, perché sono e restano i volti di copertina di una Juventus le cui sorti dipendono ancora in grande misura dai colpi dei singoli.

Matthjis de Ligt è sceso in campo 29 volte in campionato nella sua prima stagione in bianconero. All’attivo anche quattro gol (Alessandro Sabattini/Getty Images)

Matthijs de Ligt, però, ha fatto qualcosa in più, a livello mentale: non si è fatto sopraffare da quel sentimento di “urgenza” che era insostenibile già a inizio stagione, tra l’infortunio di Chiellini e le aspettative da mantenere per un ventenne che è stato pagato 75 milioni di euro, ma lo ha addomesticato da veterano – status che già ai tempi dell’Ajax sembrava appartenergli di diritto, in campo e pure fuori – e ha superato brillantemente le difficoltà di inizio stagione. A livello collettivo, è stato prezioso perché era il più pronto ad assorbire i concetti di aggressione alta voluti da Maurizio Sarri e ai quali il resto della difesa bianconera era scarsamente abituata. A livello individuale, le sue prove sono state un continuo crescendo, soprattutto dopo essere passato stabilmente al centro-destra della difesa, e tra lo strapotere muscolare e un ottimo senso dell’anticipo e del controllo degli spazi de Ligt ha confermato, già al suo primo anno in bianconero, di essere un elemento fondamentale, oltre a un giocatore che si candida a essere tra i migliori del suo ruolo per gli anni a venire.

Josip Ilicic

Ci eravamo abituati a considerare Ilicic come un talento brillante ma sregolato, un giocatore con colpi da campione, incapace di rientrare in uno spartito e in un sistema di gioco rigido. In questa stagione lo sloveno ha squarciato il velo e ci ha mostrato quanto può essere decisivo uno con il suo fisico e con quel sinistro all’interno di una squadra con sovrastrutture preordinate e immutabili. Lo si legge nei numeri, prima di tutto: 15 gol e 8 assist in 26 partite di campionato, per 1672 minuti totali: praticamente produce una rete ogni 72 minuti in campo.

Josip Ilicic ha vissuto probabilmente la miglior stagione in carriera: non aveva mai segnato oltre 20 gol stagionali (POOL UEFA/AFP via Getty Images)

Questo campionato ci restituisce un giocatore nel pieno della sua maturazione tecnica, fisica e psicologica. Ilicic ha saputo mettere quel suo talento sconfinato al servizio di una squadra già eccellente, per elevarne a potenza i valori offensivi: sia diventando parte integrante del sistema – dal mezzo spazio di destra converge verso il centro e si associa con gli altri giocatori d’attacco, oppure crea scompensi sulla catena latrale con l’Hateboer o il Castagne di turno – sia uscendo dallo spartito e trovando la giocata estemporanea risolutiva quando i meccanismi di squadra non girano nei modi e nei tempi previsti da Gasperini. Dopo i grandi risultati della scorsa stagione, quest’anno Ilicic ha elevato ancora di più il suo gioco confermando che i suoi colpi non sono più il frutto di un genio imprevedibile e incontrollabile, ma la norma per un giocatore finalmente decisivo, come uno con il suo talento merita di essere.

Zlatan Ibrahimovic

Zlatan Ibrahimovic ha 38 anni, quasi 39, ed è tornato al Milan lo scorso gennaio dopo che, nell’ordine: si era rotto il crociato nel 2017, aveva lasciato il calcio europeo nel 2018, sembrava essere andato a svernare ai Los Angeles Galaxy fino al 2019. In pochi avrebbero scommesso su di lui al ritorno in rossonero. Invece ha fatto 10 gol e 5 assist, prima del suo arrivo il Milan aveva segnato 16 reti in 17 partite di campionato e nelle successive 21 ne ha realizzati 47 e, con lui in rosa, la squadra di Pioli ha quasi raddoppiato la sua media punti (da 1,2 a partita a 2,1), pur non riuscendo a evitare i preliminari di Europa League. Raccontato così, l’impatto dello svedese sembra eccezionale.

Il ritorno di Ibra in rossonero è stato eccezionale: ha fatto 10 gol e 5 assist, e ha cambiato faccia al Milan (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Eppure Ibrahimovic al Milan ha dato molto, molto di più. È qualcosa che va oltre i numeri e il piazzamento in classifica. Si percepisce ma non si riesce a dimostrare o a rappresentare in pieno. Ibrahimovic fa tante piccole cose, spesso anche con la sola presenza, che in questi mesi hanno letteralmente ribaltato le prospettive della squadra (un nome su tutti è quello di Calhanoglu, autore di 6 gol e 8 assist dopo il lockdown, oppure Kjaer, che oltre alla sicurezza difensiva ha trovato nello svedese un perfetto destinatario per i suoi precisi lanci lunghi) e, soprattutto, quelle della società. Quest’estate infatti il Milan avrebbe dovuto compiere l’ennesima rivoluzione affidandosi a Rangnick, invece a settembre ripartirà da Pioli. E, ovviamente, da Ibra.