Kingsley Coman: la rinascita

Ha superato gli infortuni, ed è diventato quello che ci aspettavamo: uno dei migliori esterni offensivi della sua generazione.

Il gol del 4-0 con cui Kingsley Coman ha sigillato la vittoria del Bayern Monaco contro l’Atletico Madrid, al culmine di una prestazione totalizzante per qualità e continuità, è stata la rappresentazione di un grande momento di forma che va ben al di là delle sue statistiche – due reti e altrettanti assist nelle prime cinque gare stagionali. Ma è stata anche un’esperienza visiva prima ancora che tecnica, una dimostrazione di resilienza applicata al talento, la riscoperta definitiva di un giocatore che ha visto cambiare continuamente le prospettive intorno a una carriera che sembrava aver già detto tutto quando Kingsley non aveva nemmeno 24 anni. Il gol in questione è molto simile a quello cui sentenziò la Juventus nel 2016 – sempre in Champions League, pochi mesi dopo il suo passaggio dai bianconeri ai bavaresi – ma in realtà spiega molto bene il tipo di evoluzione che Coman ha avuto nel corso del tempo.

Nel 2016 Coman era un attaccante istintivo, diretto e verticale, e allora il tiro a giro sul palo lungo, rientrando dall’esterno verso l’interno dopo essere stato lanciato in profondità, era la chiusura naturale di un movimento che Coman aveva come prima (e unica) opzione fin dal primo controllo, e indipendentemente dall’esito. Questa volta, invece, il “Ronaldo chop” a spostarsi il pallone da destra verso sinistra, ha preceduto un ulteriore cambio di direzione a disorientare Felipe, e poi la preparazione di una conclusione ad alta percentuale con il piede forte. È stata una soluzione meno spettacolare ma ugualmente efficace in relazione allo sviluppo dell’azione, una sorta di equivalente calcistico del crossover di una point guard Nba, la dimostrazione di come Coman sia ormai nel pieno controllo delle sue capacità fisiche, tecniche e mentali. È evidente come oggi Coman sia diventato un giocatore in grado di dare forma e concretezza alla sua strabiliante tecnica in velocità, che possiede una superiore qualità nella lettura delle singole situazioni, oltre che una ritrovata confidenza negli appoggi e nei contro-movimenti in corsa, di nuovo brutali e repentini.

Un dettaglio, quest’ultimo, che a un certo punto della sua storia umana e professionale non era più così scontato, nonostante le premesse e le promesse di grandezza degli esordi. Nel 2017, in un’intervista a France Football, diceva che «al Bayern ci sono grandi giocatori che hanno fatto la storia del club. Quindi per guadagnarti il posto devi dimostrare di essere al loro livello, perché in un grande club non ti aspettano. E se sei infortunato e non giochi la squadra può comunque andare avanti senza di te». Un anno dopo, in un’intervista rilasciata questa volta a TF1, sembrava annunciare la fine della sua carriera proprio a causa delle conseguenze degli infortuni. Fisiche ma, soprattutto, psicologiche: «Non credo che sarei in grado di sopportare un’altra operazione: a quel punto credo che lascerei il calcio. Quando mi sono fatto male, per me è stata la fine del mondo. Spero di non dover rivivere ancora quello che mi è successo in passato. Non accetterei una terza operazione, perché vorrebbe dire che forse il mio piede non è fatto per per giocare a questi livelli. A quel punto condurrei un’altra vita, una vita normale, una vita anonima».

Da allora non sono passati nemmeno due anni. Eppure l’universo di Coman si è ribaltato ancora una volta. A quell’epoca, appena ventiduenne, era reduce da un duplice infortunio alla caviglia che lo aveva escluso dal Mondiale e che lo aveva tenuto fuori da fine agosto a metà novembre 2018, aveva saltato ben 63 gare nelle sue tre stagioni e mezza in Baviera e sembrava avviato all’oblio della narrazione di ciò che poteva essere e non era stato. Oggi, invece, è uno dei calciatori più vincenti della storia in relazione all’età, oltre che uno dei leader tecnici ed emotivi della squadra più forte del mondo, che ha iniziato la Champions e la stagione esattamente come l’aveva finita 58 giorni prima: vincendo, convincendo e con Coman protagonista.

Che sia al da Luz o all’Allianz Arena è una questione di sfumature collegate a una delle tante intuizioni che stanno facendo la fortuna di Hansi Flick: «Siamo molto contenti che Coman abbia segnato questo gol e siamo fieri di aver vinto la Champions. Questo è sempre un gioco di squadra e io ho il dovere di non pensare mai ai singoli in quanto tali: ma sapevamo che Coman avrebbe potuto essere importante, avrebbe potuto dare qualcosa di nuovo al nostro gioco e alla fine è stata la decisione giusta» disse il tecnico dopo la finale decisa dal gol di testa – il primo della carriera – dell’attaccante francese. Sono frasi che raccontano l’ostinazione con cui il Bayern ha deciso di proteggere quell’investimento effettuato cinque anni fa, un atteggiamento che ha pagato i dividendi sperati ben oltre i successi individuali e collettivi.

Perché Coman è un giocatore da Bayern nella stessa misura in cui il Bayern viene visto come un modello di programmazione sostenibile e di competitività, costruito sulla coesistenza e sul successivo ricambio generazionale tra veterani ed elementi giovani e giovanissimi da valorizzare. Il francese, in questo senso, ha in qualche modo anticipato il trend che ha portato i vari Davies, Goretzka, Gnabry e Sané a raccogliere senza troppi problemi l’eredità di Robben e Ribery, in quell’ultimo step di un processo di auto-rigenerazione che costituisce il vero motivo di una continuità ad alti livelli con pochi uguali nel calcio contemporaneo – il Bayern ha vinto 24 trofei complessivi dal 2012, 18 nazionali e sei internazionali, e ha raggiunto la semifinale di Champions League sei volte nelle ultime otto edizioni del torneo.

Coman ha accumulato 24 presenze con la Nazionale francese, e in queste partite ha segnato quattro gol; ha disputato gli Europei 2016 ma ha saltato i Mondiali 2018 per infortunio (Franck Fife/AFP via Getty Images)

Tuttavia, oltre che “antropologica”, l’aderenza di Coman al Bayern – a questo Bayern che si è ricostruito su canoni culturali e filosofici diversi da quelli dei primi 110 anni della sua storia – è soprattutto tecnica. In una squadra dal gioco brillante, moderno e aggressivo, che ha nella dimensione creativa degli esterni offensivi quel quid che la differenzia in questo momento dalle altre big europee, il francese è il giocatore perfetto per il collettivo perfetto. Non è una questione di numeri ma di continuità all’interno di un sistema fluido in cui il ruolo dei Coman, dei Douglas Costa, dei Sané e degli Gnabry – con le costanti sovrapposizioni interne/esterne degli esterni difensivi – è centrale come quello di Thomas Müller o di Robert Lewandovski. Il tutto declinato secondo il paradigma dell’esecuzione di ogni singolo fondamentale o gesto tecnico alla massima velocità possibile in un lasso di tempo sempre più lungo nell’arco dei 90 minuti. In un contesto del genere, il talento individuale diventa decisivo. E Coman non è solo un giocatore talentuoso e dai margini di miglioramento ancora tutti da esplorare, ma è anche uno che il suo talento lo ha saputo coltivare, adattare e rimodulare in funzione di una maggiore efficacia ed efficienza delle sue giocate.

Da questo punto di vista, la prima annata in Germania vissuta con Guardiola è stata fondamentale, lo ha aiutato a completarsi anche nelle difficili stagioni di transizione sotto Ancelotti e Kovac. Quando arrivò dalla Juventus, Coman era un giocatore piuttosto statico e dal ruolo indefinito, abituato a ricevere palla sui piedi e a creare i presupposti della superiorità numerica e posizionale partendo da fermo, confidando nella grande rapidità del suo primo passo e nella capacità di spostare rapidamente il pallone nel cambio di direzione. Guardiola ha fatto in modo che Coman implementasse una migliore lettura degli spazi (con e senza palla) alle spalle della linea di pressione avversaria nell’ultimo terzo, in modo da sfruttare la sua velocità di base dopo aver già guadagnato un vantaggio, in termini di metri di campo e tempi di gioco, sul diretto avversario; inoltre, il tecnico catalano ha insistito perché Coman sviluppasse qualità associative oltre il fondamentale dell’assist, e che esaltassero le sue già notevoli caratteristiche di base.

Coman si è trasferito al Bayern Monaco nel 2015: da allora, ha disputato 166 partite ufficiali e ha segnato 35 gol (Ian MacNicol/Getty Images)

Oggi, rispetto alla stagione 2015/2016, Coman è un giocatore che tocca molti più palloni – 55 passaggi ogni 90’, 1,5 passaggi chiave di media – all’interno di una zona di influenza sempre maggiore, e che usa l’interno di riferimento come sponda nel momento in cui non riesce a far valere le sue doti nell’uno contro uno. Che sono, a loro volta, migliorate nella misura in cui Coman ha cominciato a privilegiare la dimensione qualitativa del dribbling, diminuendo i tentativi complessivi – passando dai quasi 7 a partita della prima stagione agli attuali 4 – e aumentando l’efficacia degli stessi, con numeri vicini a quelli dei top nel ruolo.

Veder giocare oggi Coman significa veder giocare uno dei migliori esterni del mondo all’apice del suo prime, perfettamente collocato sul campo e all’interno del sistema e consapevole di quelle che sono le sue potenzialità, le sue qualità e i suoi (pochi) limiti. Un giocatore moderno nella squadra più moderna che ci sia, in cui la dimensione tecnica e quella fisica si bilanciano al meglio grazie a una migliore comprensione del gioco, delle singole fasi della partita, di se stesso. Nel settembre 2019, dopo un inizio da sei gol e tre assist nelle prime otto partite, Coman disse che «anche se mi sento meno veloce ed esplosivo di quando avevo 18-19 anni, tecnicamente, tatticamente e professionalmente mi sento più forte. Le fasi della vita, la maturità, persino gli infortuni, mi hanno reso mentalmente più forte perché ho imparato a vedere tutto sotto una luce diversa». A dicembre sarebbe arrivato un altro grave infortunio, questa volta al ginocchio, nella partita contro il Tottenham; ad agosto 2020 avrebbe segnato il gol decisivo in una finale di Champions League.