Mancini e Vialli 2020, il sequel perfetto

Una nuova trama, personaggi diversi rispetto al passato, la stessa amicizia: la rinascita della Nazionale italiana è dovuta anche al loro splendido rapporto?

Una cosa è la malinconia, quell’ovo sodo che non va né in su e né in giù, come diceva Virzì, quella naturale propensione a ciondolare che può essere più o meno spiccata a seconda dell’indole di ciascuno. Altra cosa è la nostalgia, che come un’edera soffoca e si aggroviglia insieme al tempo che passa. E sono tempi, questi, in cui anche della maledetta nostalgia abbiamo fatto merce.

Tutti i ricordi della nostra infanzia, della nostra adolescenza, ci si ripropongono sotto forma di poster, magliette, action figure. Quella cresciuta tra gli Ottanta e i Novanta è la prima generazione che assiste alla messa in vendita delle emozioni del proprio passato. Il giochino funziona perché più invecchiamo e più scivoliamo nell’autoindulgenza, nei confronti di quello che siamo stati e che siamo diventati. Ma il giochino ha un bug di sistema: il cinema, i sequel. Per quanto gli uffici marketing continuino a provarci, i nuovi capitoli dei film che sono stati gloriosi venti, trenta o quarant’anni fa, quasi sempre si rivelano inadeguati, o persino inutili, quasi sempre dei bagni di sangue al botteghino. Ma perché, in questo caso, il nostalgico riesce a mandare in tilt l’ingranaggio? Perché anche se non lo capisce, in fondo lo avverte che non c’è urgenza, che non c’è verità, che non c’è cuore: Basic Instinct 2, Indiana Jones 4, Dirty Dancing 2. Uno piuttosto si riguarda tutto Friends.

Eppure, cari millennials, c’è un sequel che sembra funzionare, quello che ha riportato sugli schermi Gianluca Vialli e Roberto Mancini. Qui obiettivamente il nostalgico vacilla, di qualunque fede esso sia, se non altro per gratitudine nei confronti di tanta bellezza donata al mondo ai tempi in cui calciavano un pallone, e per quello scudetto così pieno di vita da sembrare un romanzo. Un tifoso doriano probabilmente finisce in lacrime ogni volta che gioca la Nazionale, nel vederli di nuovo tutti insieme, non solo Vialli e il Mancio ma anche Lombardo, Salsano, Evani, Nuciari. Vecchi amici trent’anni dopo, una nuova avventura: sembra The Irishman ma è il nuovo corso degli Azzurri, una specie di idillio dove tutto scorre senza tensioni.

A sentire i calciatori è stato costruito un ambiente positivo, sereno, ideale per ripartire, sperimentare, osare. E l’assenza di Mancini in panchina sembra un colpo di sceneggiatura che dà un risalto in qualche modo epico ai compagni di viaggio. Vialli e il suo auricolare attraverso il quale riceve le indicazioni del ct, Vialli che bacia e restituisce il pallone uscito fuori dal campo, Vialli il campione potente, il signore dell’aria di rigore, che porta ancora addosso i segni dell’ultima lotta, quella più recente, la più feroce. E qui il nostalgico, sul punto di cedere, cerca un kleenex a portata di mano. Insomma forse questo film funziona perché non è esattamente un sequel, è piuttosto un’altra trama con una nuova urgenza ma uguale verità, con gli stessi personaggi che nel frattempo sono profondamente cambiati.

Ce li ricordiamo bene Vialli e Mancini, sì? Bizzosi come i divi che erano, guasconi, talvolta antipatici, spesso nervosi, sempre bellissimi. Di più: ce li ricordiamo Vialli e Mancini in Nazionale? Ecco che il nostalgico tentenna, azzarda un sì poco convinto, ripiega nervosamente il kleenex per prendere tempo. Roberto Mancini ha esordito in Serie A a 16 anni con la maglia del Bologna. Da subito nei radar delle Nazionali giovanili, da subito nei taccuini delle grandi squadre. La sua carriera è durata vent’anni tondi, sempre ad alti livelli sino allo scudetto romano, sponda laziale, nell’anno 2000. Ma in Nazionale 36 partite e quattro gol. Minuti giocati in un mondiale: zero. Uno dei talenti più puri nella storia del nostro calcio, com’è possibile? Ce lo spiega – glielo spiega – Enzo Bearzot, che a fine carriera lo incontra e gli dice: «Perché non mi hai mai chiamato per scusarti? Ti avrei portato in Messico».

Mancini si è trasferito alla Sampdoria nel 1982, Vialli l’ha raggiunto due anni dopo; insieme, hanno vinto lo scudetto e la Supercoppa italiana del 1991, tre edizioni della Coppa Italia (1985, 1988 e 1989) e la Coppa delle Coppa 1988/89 (Wikimedia Commons)

L’antefatto: un Mancini diciannovenne finisce nel giro degli azzurri nell’84, per una tournée in Nordamerica. La vecchia guardia dei campioni del mondo trascina il baby fenomeno in un giro notturno per Manhattan. Fanno mattino, al Vecio gli viene un colpo, preoccupato come un padre. «Il peggior cazziatone della mia vita», riconosce oggi il Mancio, che si bruciò il Messico per una chiamata mai fatta.

Nel ’90 la musica è diversa, Roberto ritrova il commissario tecnico che lo ha lanciato con l’Under 21, affidandogli la fascia da capitano. Alla vigilia del mondiale di casa Vicini annuncia: «La sorpresa sarà Mancini», salvo poi preferirgli un giovanissimo Baggio, in stato di grazia durante le notti magiche (come va, nostalgico, sei ancora tra noi?). Per Mancini nemmeno un minuto ma qualche cattivo pensiero: «Probabilmente il mio torto era solo quello di giocare nella Sampdoria e non in una società politicamente più forte. E Vicini, si sa, non è mai stato un cuor di leone». E Sacchi, invece? Fu chiaro sin da subito: «Tu per me sei la riserva di Baggio». Il Mancio abbozza sino a primavera, quando si autoesclude dopo un’amichevole con la Germania. Baggio non c’è, gioca lui ma viene sostituito all’intervallo. Si sente tradito, umiliato: «Non mi chiami più, mister». Adesso la definisce «una cretinata» perché adesso è Roberto Mancini, commissario tecnico, non il ciuffo ribelle del calcio italiano. Scelga il nostalgico la sua versione preferita.

Dopo i successi con la Sampdoria e la Juventus, Vialli emigra in Inghilterra, nel Chelsea; gioca fino al termine della stagione 1998/99, un anno prima diventa player-manager e in panchina vince cinque trofei, infine lascia nel settembre del 2000 (Clive Brunskill/Allsport)

Diverso ma non troppo il percorso di Gianluca Vialli, che con la Nazionale ha messo a referto 59 presenze e 16 gol. Il bomber di Cremona arriva alla vigilia di Italia ’90 come stella indiscussa della squadra di Vicini. Ha appena conquistato la Coppa delle Coppe con la Samp, miglior marcatore della competizione con sette reti, due realizzate in finale. Ma il nostalgico non ha certo bisogno che gli si ricordi chi è stato Totò Schillaci, in quell’afoso fantastico mese di giugno di inizio decennio. Dopo venne l’Arrigo, e il tenore dello scontro finisce oltre i livelli di guardia, tanto che Vialli dichiara pubblicamente di aver tifato contro l’Italia sia a Usa ’94 che a Euro ’96. Affermazioni poi sfumate, in parte smentite, ma che danno la misura di un rapporto definitivamente deteriorato. Leggendaria e piena di ironia la frase d’addio alla maglia azzurra dopo la mancata convocazione al mondiale americano: «Non credo di avere le qualità morali per far parte di questo gruppo». Eppure anche per Luca le porte non si chiusero mai del tutto: «Sacchi mi richiamò due volte, prima e dopo Usa ’94. Sbagliai io a rifiutare. Feci il permaloso. La maglia azzurra non si rifiuta mai».

Ribellione e redenzione, rovesciate e colpi di tacco, Vialli e Mancini sono nostalgia che diventa prospettiva, futuro, sono la staccionata che si libera dall’edera e permette al cortile di rivedere la luce. Non c’è nemmeno bisogno di aspettare il finale del film, di sapere cioè come andrà l’Europeo di giugno. È già bello così, questo sequel che non è un sequel.