Fossi stato Maradona, avrei vissuto come lui

Né “Dios”, né maledetto: la parabola di Diego, in campo e fuori, ha mostrato una complessità unica, impossibile da ingabbiare.

Tutta la carriera o la vita di Maradona si possono racchiudere in quei cinque minuti tra il primo e il secondo gol della partita contro l’Inghilterra, ventidue giugno 1986, quarti di finale del Mondiale, Stadio Azteca di Città del Messico. È un cliché, ma certe cose sono così evidenti che spazzano via ogni tentativo di ridimensionamento a cliché, che non concepiscono l’esistenza della banalità. È soltanto un simbolo, ma i simboli servono a semplificare, e a racchiudere in poco spazio pratico cose immensamente più grandi. È già stato detto centinaia di volte, ma che cosa, alla fine, non è stato detto di Diego Maradona? Alla fine dei conti, è vero. È questo l’importante.

Sembra incredibile che quella partita possa essersi dispiegata davvero in quel modo, con quei protagonisti, e in quel determinato momento storico. La guerra delle Falkland o Malvinas era finita da quattro anni, la dittatura argentina era terminata da poco e il presidente Alfonsín stava procedendo a una difficile unificazione arrestando e condannando i membri e collaboratori fascisti della giunta precedente. Non soltanto: erano passati 20 anni precisi da un altro quarto di finale fondamentale per la rivalità tra Argentina e Inghilterra, calcisticamente parlando: quella partita, vinta dagli inglesi poi campioni del mondo in casa, che in America chiamarono sempre “el robo del siglo”.

La stessa definizione di “Dios” che gli venne da sempre appioppata mi sembra ingiusta e scorretta per definire il calciatore che più di tutti ha mostrato di essere umanoIl gol di mano, e cinque minuti dopo il gol del secolo, il più bello di sempre sulla bilancia della difficoltà e dell’importanza e del simbolismo. Come se il primo fosse il peccato, e il secondo la redenzione? Sembrerebbe semplice, detta così. Purtroppo gli sportivi si portano dietro questa dimensione per cui tutto sembra diventare caricatura, letteratura scadente, metafora di qualche cosa di altro. E per Maradona non ci fu nessuna redenzione: vinse il Mondiale, ma la sua santità durò poco: il 20 settembre dello stesso anno, a meno di due mesi dalla vittoria del Mondiale, nacque Diego Sinagra, poi chiamato Diego Maradona Junior, figlio che riconoscerà soltanto nel 2007. I giornalisti, una schiera tumultuosa che assedierà per sempre la sua vita, nell’ospedale a Napoli, parlano con la madre del bambino già a poche ore dal parto, appoggiando braccia e microfoni al letto. Lei dice che si chiama Diego Junior, perché il padre è il numero 10 del Napoli. Maradona, intervistato in televisione poco dopo, dirà: «Io voglio solo giocare a calcio, tranquillamente, non ho fatto male a nessuno».

Le vite degli sportivi, ancora più che quelle degli attori o di altre figure pubbliche degne di ammirazione incondizionata, vengono storpiate e tramutate in fotoromanzi dai loro ammiratori e dai loro odiatori, e Maradona allora è sempre stato per alcuni un santo, e per altri un mentecatto, un drogato, un truffatore. La stessa definizione di “Dios” che gli venne da sempre appioppata mi sembra ingiusta e scorretta per definire il calciatore che più di tutti ha mostrato di essere umano. Maradona era l’idolo delle villas argentine, e come molti sudamericani di quelle parti e in quel momento si avvicinò al socialismo e poi al castrismo, strinse amicizie con Castro, poi con Chávez. Maradona era anche il ragazzo che per festeggiare il Mondiale si impunta per avere a disposizione per sé e Claudia una limousine bianca, non vuole sentire ragioni, proprio una limousine e proprio bianca.

È una scena che si vede in Diego Maradona, lo straordinario documentario di Asif Kapadia uscito su Netflix nel 2019. E proprio quel documentario, arrivato così tardi, a un anno e pochi mesi dalla morte di Diego così inaspettata, è forse il miglior racconto mai fatto del giocatore e uomo, per quello che ne possiamo capire noi che stiamo dalla parte del pubblico. Del Diez, e non del Dios. Non si prende le responsabilità di un dio, ma esattamente del contrario, e quindi di un umanissimo calciatore: il 26 aprile 1987, a poche settimane dallo scudetto e dopo una vittoria al San Paolo contro il Milan, quando un giornalista gli chiede cosa può significare per la città di Napoli un eventuale campionato vinto, risponde: «Questo te lo deve dire la città».

Mi sembra, poi, che Diego Maradona vivesse sempre contro qualcosa, anche quando apparentemente lottava per tuttiTra le molte differenze che separano Maradona da altri fuoriclasse del passato e presente, oltre al campo, spicca la sua presenza in spogliatoio: che era quella di leader vero, amico, motivatore, allenatore in campo. Uno che non si arrabbiava mai, hanno detto in interviste molti ex compagni, e che aveva una parola di incoraggiamento sempre, per tutti. Uno che prima della finale contro la Germania dice alla squadra: forza, ancora due ore e saremo campioni. Uno che nello spogliatoio è il primo a far partire il coro per caricare tutti, non leader silenzioso, ma sintesi di buffone e re insieme. È un ruolo maturo, quello di Maradona sia nell’Argentina che a Napoli, e che solitamente, nel mondo del calcio che è un mondo fatto di stereotipi e narrazioni conservatrici, viene riservato ai bravi padri di famiglia, persone perbene capaci di tenere un basso profilo, con i capelli pettinati per bene e una vita regolare. Ma Maradona era proprio leader sia in campo che nello spogliatoio, capitano presente per tutti e non soltanto genio solitario, carattere amabile e guida dei compagni. Maradona era però pure adultero, amante del lusso, padre di un figlio riconosciuto solo ventuno anni dopo la sua nascita, cocainomane ed evasore fiscale. Questo era Maradona, e fa strano scriverlo al passato, il 25 novembre 2020: era libertà dalla semplificazione.

Mi sembra, poi, che Diego Maradona vivesse sempre contro qualcosa, anche quando apparentemente lottava per tutti: in un’intervista prima della finale del 1986, dopo aver battuto anche il Belgio in semifinale, dice che la squadra giocherà contro tutti quelli che non credono in loro, compresi molti argentini. La risposta non è stata imboccata dal giornalista, cioè non c’è nessuna domanda provocatoria alla base. Sta solo togliendosi dei sassi dalle scarpe che vuole togliersi e nessuno gli ha chiesto di togliersi, mostrando però, a poche ore dal più grande trionfo della sua vita e della storia sportiva della sua nazione, un tormento profondo.

Questa sofferenza di fondo di Maradona, in un certo senso, si rispecchiava anche in campo: spesso ci si dimentica che il calcio in cui Diego è sbocciato era il calcio in cui la dimensione collettiva, a partire dall’Olanda del 1974, diventava la nuova strada da seguire per il modello europeo. Prima la squadra, l’orchestra e l’armonia, e soltanto dopo i singoli. Maradona era prima di tutto il singolo. Lo si vede pure dai dettagli fuori dal campo, come i festeggiamenti del primo scudetto del Napoli, in cui tutta la squadra anziché cantare per la vittoria, appena rientrata nello spogliatoio, intona subito O mamma mamma mamma / sai perché mi batte il corazon / ho visto Maradona / ehi mammà! Innamorato son, e lo si vede proprio in quell’Inghilterra-Argentina del 1986, sempre lì si torna, in cui Diego tenta, secondo le statistiche, ben 14 dribbling solitari, di cui 12 riusciti. Tanti? Sì: Messi, uno che dribbla spesso, dribbla molto e dribbla bene come pochi altri nella storia del calcio, non ha mai superato la media di 7 dribbling per partita: la metà. Eppure, di nuovo, il rovescio della medaglia apparente: quella solitudine e quell’egoismo di superficie servivano anche per la squadra. L’Argentina non vincerà, in finale, grazie a un gol di Maradona, ma, a 6 minuti dalla fine, è invece un suo assist geniale a spedire in porta Burruchaga per un 3-2 che sembrava essere diventato impossibile dopo la rimonta tedesca.

Nel 2008 Manu Chao ha pubblicato una canzone che inizia dicendo: «Si yo fuera Maradona, viviría como él», se fossi Maradona vivrei come lui. Non è una frase, mi sembra, che vuole esaltare in maniera superficiale il lifestyle talvolta eccessivo di Diego. È il contrario, piuttosto: dire “Io avrei fatto probabilmente lo stesso, se avessi potuto essere Diego Armando Maradona” è un’assoluzione per sempre, la liberazione da un processo costante ma non necessario, la dichiarazione di indipendenza per un uomo che non ha mai voluto lo status né di dio né di criminale. È dire: non sei diverso da nessuno, nonostante tutto.

Certo, dire che Diego Maradona fosse come tutti non è propriamente esatto. Quello che ha fatto vedere in campo non si è mai più visto, e il suo talento è stato unico nella storia dello sport: non in termini di gol, metrica secondo cui troppo spesso, oggi, siamo abituati a calcolare le prestazioni, né di titoli vinti. Ma in quanto completamente diverso, imprevedibile e imprendibile, troppo di più e troppo altro per chiunque, capace di cose che nessuno riusciva nemmeno a immaginare. Su YouTube, grande archivio del calcio del passato, si trovano ancora le collezioni di dribbling, al di là di quelli delle partite più famose. Guardarlo è stupefacente: pare di vedere qualcuno giocare – giocare per puro spirito ludico, non agonistico – contro dei bambini.

Il vero rimpianto di Maradona è forse il Mondiale del 1994, in cui iniziò straordinariamente, in una squadra potenzialmente migliore di tutte, ma si fermò all’improvviso, o meglio venne fermato. La carriera di Maradona fu piena di rimpianti, e nonostante questo è stata la carriera più straordinaria di sempre. Estremamente umana, e allo stesso tempo più grande della vita, ma mai divina. Di un altro pianeta, questo sì: aquilone cosmico, era tutto in quei cinque minuti là.