Non essere razzisti non basta: intervista a Kevin-Prince Boateng

È stato uno dei primi atleti in Italia a prendere una posizione dura contro le discriminazioni, ora racconta il suo impegno, la nuova coscienza dei calciatori.

Dopo venticinque minuti di gioco, sulla fascia sinistra di uno stadio da qualche parte nel nord Italia, il 3 gennaio 2013 e con la neve spalata visibile agli angoli del campo, Kevin-Prince Boateng raccoglieva il pallone dai suoi piedi con le mani e lo scagliava, con violenza sorprendente, contro una tribuna. Massimo Ambrosini, capitano del Milan per quell’amichevole invernale, parlava quindi con Prince e ritirava la squadra negli spogliatoi. La partita non ricominciò mai.

Nei replay dei telegiornali della sera, senza troppi sforzi, sentimmo tutti l’onomatopea ormai famosa scandita chiaramente dai tifosi della Pro Patria. Eppure il giorno dopo il sindaco del paese – che era Busto Arsizio – Gianluigi Farioli, eletto con Forza Italia sette anni prima, ebbe a dire che la reazione del giocatore era stata eccessiva. Passarono poi due anni, e gli intonatori di quelle onomatopee furono assolti in appello perché «il fatto non sussiste», nonostante nelle registrazioni le onomatopee fossero molto chiare. Tra gli ululatori graziati, anche l’ex assessore allo sport del vicino comune di Corbetta, Riccardo Grittini, eletto nelle liste della Lega Nord. Proprio il sindaco di Corbetta, pochi giorni dopo l’amichevole interrotta, era stato registrato mentre definiva Kevin-Prince Boateng con il poco equivocabile termine dialettale «negher». Boateng, quel giorno, è stato uno dei pochissimi calciatori in grado di reagire ai ripetuti insulti razzisti ricevuti. Non fu, quel giorno e in quelli successivi, protetto a sufficienza né dal sistema-calcio, né dai media, né dalle istituzioni. Che preferirono minimizzare l’abuso razziale anziché mostrare vicinanza a un calciatore troppo stanco, o arrabbiato, o chi lo sa – io non lo posso sapere né capire, fortunatamente per me.

Nei mesi e negli anni successivi, gli episodi razzisti nel calcio italiano continuarono. Coinvolsero due attaccanti della Nazionale italiana come Moise Kean e Mario Balotelli, o il belga Romelu Lukaku. In tutti questi casi, gli insulti a sfondo razziale erano evidenti, pesanti e imbarazzanti. In tutti questi casi, sia da parte dei media che da parte delle istituzioni politiche e calcistiche, i distinguo furono molto scrupolosi. Da quel giorno, Kevin-Prince diventò il volto – l’unico, o quasi – di un’attiva opposizione al razzismo nel calcio italiano. Il 21 marzo fu invitato alle Nazioni Unite, a Ginevra, per tenere un discorso durante la commemorazione della Giornata Internazionale per l’eliminazione delle Discriminazioni Razziali. In quel discorso, Prince paragonò il razzismo alla malaria: «Vaccinare le persone non è sufficiente», disse. «Bisogna prosciugare gli stagni dove le zanzare proliferano». A fine 2019, quasi 7 anni dopo quell’episodio, il Corriere dello Sport usciva con una prima pagina in cui alla foto di Romelu Lukaku e Christopher Smalling, nuovi acquisti di Inter e Roma che si sarebbero sfidate quel fine settimana, veniva accostato il titolo “Black Friday”. Il giornale non ritenne di doversi scusare.

Ⓤ: Cosa è successo quel giorno, a Busto Arsizio, non fuori, ma dentro di te?

È tornata la mia infanzia, quando mi urlavano dietro. Ho rivisto certe cose della mia infanzia, e ho avuto un blackout. Ho detto basta, non ce la faccio più. Mi sentivo male, mi sentivo solo. Ho lavorato tanto, sacrificato tanto, e di nuovo mi devo sentire come quando avevo sette anni, e mi chiudevo in camera ed ero da solo, e non sapevo cosa dovevo fare, il mio allenatore mi diceva sono idioti, ignorali, l’arbitro nemmeno c’era, io dovevo capire da solo cosa stava succedendo. Ero nel mio Paese: sono nato qua, perché mi odiano? E in quel momento mi sono sentito esattamente così. E ho detto: così non gioco più.

Ⓤ: Ti sei sentito solo anche dopo?

La gente mi diceva: fai così solo perché è un’amichevole. No: perché tu non puoi capire cosa senti dentro. Io non l’ho fatto per diventare un simbolo, un idolo, un ambasciatore. Non l’ho fatto per quello. Questo è uscito dopo. Io l’ho fatto perché per me, in quel momento, era finita lì.

Ⓤ: Nel discorso all’Onu, due mesi dopo, hai detto che inizialmente avevi cercato di ignorare il problema del razzismo, nella tua carriera. Quand’è che non ce l’hai più fatta?

Quel giorno dell’amichevole. Lì non potevo più. Quando ero giovane ho sempre ignorato il problema perché dicevo: sono quattro o cinque idioti che non hanno cervello, però non potevo più, e non volevo più. Perché ho lavorato tutta la mia vita, e ho fatto sacrifici, per arrivare al punto di essere un giocatore molto importante in Europa, in una delle squadre più forti del mondo, e ancora mi devono giudicare per il colore della mia pelle? Ho detto basta, non ce la faccio più. A quel punto volevo fare qualcosa.

Ⓤ: Lì hai pensato che questo impegno potesse diventare qualcosa di più totalizzante nella vita, quasi una specie di lavoro?

Io mi espongo così perché è già una specie di lavoro. Io devo farlo. Perché, primo: non lo fa nessuno. Secondo: io me la sento di farlo. Non voglio essere un leader di qualcosa, ma mi sento di farlo. Io l’ho sentito il dolore, io lo so cosa significa. Lo so come si è sentito Koulibaly, come si è sentito Lukaku, come ci si sente dopo. E questo non lo sa nessuno. Perché poi loro non ti dicono: stavo malissimo. Perché siamo uomini, siamo orgogliosi, siamo tutti forti, siamo calciatori. E quindi nessuno dice la verità. Ma io l’ho detto: piangevo, stavo male, e non volevo più uscire di casa. Poi sono uscito, e ho detto: adesso vi faccio vedere. Con me, mai più.

Ⓤ: I giocatori hanno paura a esporsi?

Certo. E lo capisco, anche. In tanti non hanno il carattere, non hanno la possibilità di dire: io vado via, e forse perdere un contratto, soldi con cui stanno aiutando la famiglia. Certo che c’è paura. È per questo che non si può arrivare a un punto in cui un giocatore è costretto a fare questo. Perché non ci sono cento Prince Boateng che dicono: a me non me ne frega niente, io vado. Lo vediamo: in quanti sono i giocatori che fanno qualcosa davvero contro il razzismo? Postare una foto e scrivere #blackouttuesday non basta. Io vedo tutti. Vedo i più grandi, vedo anche i miei amici. Li controllo. Non basta non essere razzista. Devi essere antirazzista.

Ⓤ: In Italia il razzismo è anche radicato nelle istituzioni e nei media: nel 2012 La Gazzetta dello Sport pubblicava una vignetta in cui Mario Balotelli era ritratto come King Kong.

Non puoi sbagliare, su queste cose. Perché ce l’hai già, un’etichetta come Paese. Come anche la Germania ha la sua etichetta, e non puoi fare questi errori. Sono tante le cose che sono successe negli ultimi dieci anni che non possono succedere, però è diventato un po’ normale essere razzisti. E perché? Perché non ci sono conseguenze. Nessuno fa niente. È quello che è successo in America: ammazzano una persona, e possono tornare a casa a cena, e svegliarsi a casa la mattina dopo. Non va bene. Sembra che ormai sia normale essere razzista, perché tanto non succede niente. Nessuno dice niente. È questa la cosa che bisogna cambiare. Bisognerebbe aver paura di fare una cosa del genere.

Giacca, pantalone e lupetto Berluti, scarpe Marni, occhiali Retrosuperfuture

Ⓤ: Ritornando al discorso dell’Onu: paragonavi il razzismo alla malaria, dicendo che per combatterlo bisogna bonificare gli stagni in cui crescono. Quali sono gli stagni oggi?

Bisogna partire dai bambini, dai nostri figli. Non che dobbiamo trovare una medicina per loro. Ma dobbiamo partire dall’educazione. Se riusciamo a educare i nostri bambini a non pensare in modo razzista, allora c’è un futuro. Questa è la chiave: la scuola, l’educazione. A scuola si dovrebbe insegnare matematica, storia… e razzismo. Ogni settimana, due ore. Far vedere ai bambini cosa significa essere razzisti. Far vedere che così non si fa, questo non esiste.

Ⓤ: Perché il calcio, in generale e ancora di più in Italia, è rimasto così impermeabile alle richieste della società?

Il calcio deve fare molto di più, l’ho sempre detto. È lo sport più diffuso, più seguito del mondo, e non è possibile che faccia così poco. Non so perché, ma mi viene da pensare che forse non è così importante. Forse è più importante se la palla è andata in porta o no, o se era fuorigioco o no, sembra siano sempre queste le cose di cui si parla. E questo mi dà molto fastidio.

Ⓤ: Per non parlare di Fifa e Uefa, di cui ci ricordiamo belle pubblicità e poco altro.

Tutti devono fare di più. Economicamente, non basta proiettare prima della finale di Champions un video con Ronaldo e altra gente. È bellissimo, ok? Abbiamo bisogno di tutti questi giocatori che dicono no al razzismo, certo. Però non basta un video.

Ⓤ: L’America è lontana.

Su questo tema il calcio in Europa è molto indietro. Pensiamo siano problemi lontani, diciamo: succede in America, da noi non succede. Ma cosa dobbiamo aspettare, che succedano le stesse cose anche in Europa? Nel calcio, in Europa, il razzismo c’è, lo sappiamo. L’ho vissuto io, l’hanno vissuto tanti altri giocatori. Quello che ha fatto la Nba, quello che da anni fa Colin Kaepernick… Se ascoltavamo già quelle rivendicazioni, anni fa, forse non saremmo arrivati a questo punto. Noi dovremmo seguire la Nba, guardare a quello che hanno fatto loro.

Ⓤ: C’è poi da dire che manca una rappresentazione non bianca nel mondo del calcio europeo: nelle dirigenze, nei ruoli manageriali, in panchina.

Questa è una cosa che dico da sempre. Il mondo lo comandano i bianchi. Per quello dico anche che non è che abbiamo solo bisogno adesso di tutti i neri che adesso vogliono lottare, cioè, certo, ne abbiamo bisogno, ma la chiave sono ancora i bianchi. I bianchi devono cambiare. Perché sono loro in cima alla catena alimentare. Nel calcio, nella Nba, nella Nfl, la maggior parte delle proprietà sono tutte bianche. Sono loro quelli che possono fare la differenza adesso.

Ⓤ: A proposito di rappresentazione e di modelli, quali sono stati i tuoi?

Io sono cresciuto con Muhammad Ali come idolo. È quello che manca oggi, uno come lui: era il migliore del mondo, ma per lui era più importante la nostra libertà, che i suoi fratelli e sorelle potessero camminare in strada senza avere paura. E poi Michael Jackson. Dopo, nel calcio, c’erano Zidane e Ronaldinho. E Nelson Mandela. Io ho sempre detto: voglio incontrare tre persone nella mia vita, e sono riuscito a incontrarne una, Nelson Mandela. Sono le uniche persone per cui potevo sudare, tremare quando le incontravo.

Ⓤ: Di cosa è fatta questa tua identità a cavallo tra Europa e Africa?

Io sono nato a Berlino. Sono nato tedesco, sono cresciuto tedesco. Però dentro di me ho sempre sentito qualcosa, di essere un po’ diverso da un vero-vero tedesco. Sono cresciuto puntuale, ordinato, con la casa che deve essere in ordine, togliersi le scarpe quando entri in casa, tutte queste cose molto tedesche. Dopo, nel 2009 o 2010, ho iniziato a sentire questo sentimento, e ho detto: io voglio capire chi sono. Ho capito che in Germania non mi accettavano al cento per cento. In Ghana, volevo sapere se mi accettavano lì. Volevo vedere da dove venivo, qual è la mia famiglia, quali sono le mie radici. Da dove veniva tutto questo fuoco che avevo dentro. Ed è stato molto importante. Perché adesso ho trovato questo equilibrio.

Ⓤ: E hai scelto di giocare con la Nazionale ghanese quell’anno. Tardi, insomma.

Sì, tardissimo. Direi che ho scoperto le mie radici, e il Ghana, tardissimo. Però forse era anche il momento giusto. Perché prima non avrei capito.

Ⓤ: E i tuoi figli?

I mie figli devono sapere da subito da dove vengono, chi sono. I miei genitori con me hanno sbagliato questo: che non mi hanno mai fatto sapere, capire, sentire da dove vengo. E questa invece è una cosa che voglio far imparare subito ai miei figli. Devono sapere che hanno un nonno del Ghana, un nonno italiano… Devono conoscere tutti questi mix.
La scelta di Milwaukee, e poi delle altre squadre Nba, di non scendere in campo dopo il ferimento di Jacob Blake, il 27 agosto 2020, è stata una prima volta unica. I giocatori hanno aderito, e si sono poi uniti alcuni dei proprietari. Si è arrivati a un punto di saturazione come forse non era mai successo prima. Forse qualcosa sta iniziando a crollare, adesso. Deve. Perché io non smetto. Come vedo anche in America, LeBron James, tutti i più grandi, non smettono. Siamo arrivati a un punto in cui noi, come neri… io sono George Floyd. Perché penso che anche io posso andare in vacanza in America, e mi può capitare lo stesso.

Ⓤ: Se da un lato sembra esserci una crescita di consapevolezza, dall’altro crescono anche resistenze, e reazioni, sempre più rabbiose.

Io spero che nei prossimi anni cambi qualcosa perché se non cambia adesso, non cambia più. Perché adesso siamo al limite. La gente muore, e sembra che sia normale. Però dobbiamo iniziare con la politica, e poi da lì a scendere. È importante chi ci guida. Chi scegliamo come nostro leader? Certo che se è Donald Trump, allora non funziona.

Ⓤ: Non credi in un cambiamento dal basso.

Ma per cambiare il mondo, devi iniziare da sopra. Per cambiare le nostre vite possiamo farlo anche noi, in tanti stanno facendo il loro, ma questi sono momenti. Quelli che ci aiutano, ci danno forza per andare avanti a lottare. Questo è il momento di rinascere. È il momento di mettere la tua città, il tuo Paese sulla mappa in un modo nuovo. Questo è il momento di fare nuove cose. Di iniziare una nuova cosa.

Da Undici n° 34
Moda di Elisa Voto; Assistente fotografo Chiara Quadri; Assistente moda Fabio Princigallo; Grooming Amy Kourouma; si ringraziano Daniele Cavalli, Francesco Frilli e Heavy Soul Darling per la location