Ajax, Lione, Porto: per la Juve è la fine di un’era

L'eliminazione contro il Porto ha messo a nudo i limiti dei bianconeri: un fallimento figlio non di una sola partita, ma di una gestione che non ha saputo rinnovare gruppo e ambizioni.

L’idea che le due ultime eliminazioni della Juventus in Champions League siano perfettamente sovrapponibili è sicuramente giusta: ottavi di finale, due avversari decisamente alla portata, un match di andata regalato e uno di ritorno vissuto più sui nervi e sull’emotività che sulla qualità o su una identità di gioco. Lione e Porto sono due facce della stessa medaglia, ed è questo l’aspetto più preoccupante: si possono criticare le prove di alcuni calciatori, Cristiano Ronaldo in primis, che contro il Porto ha forse giocato la sua peggior partita da quando è in bianconero, contestare le scelte di Andrea Pirlo, che pure ha le sue colpe per un piano tattico con poche alternative, ma il punto è che da una stagione all’altra, da un allenatore a un altro, da una partita all’altra la Juve incappa negli stessi, endemici problemi.

La realtà è che la Juventus ha perso il suo status di big in Europa, e questo lo dice il campo: mai in semifinale negli ultimi quattro anni, le ultime tre eliminazioni arrivate da favorita, la sensazione che si facciano dei passi indietro, anziché di crescita. Per la prima volta nella sua storia, poi, i bianconeri sono stati eliminati agli ottavi di Champions per due anni di fila. Sotto il profilo economico, la Juve è ancora la regina del calcio italiano e quella che può competere con le altre realtà del continente: ma questa forza economica, all’inizio, la Juve l’ha costruita proprio con la Champions, in un periodo in cui la concorrenza italiana faticava a essere competitiva in Europa. Uscendo contro il Porto, la Juve ha perso oltre 10 milioni di bonus, più ovviamente tutti gli altri eventuali introiti che sarebbero arrivati da una prosecuzione nel torneo: se è vero che negli ultimi anni l’abilità della dirigenza juventina è stata quella di saper diversificare il più possibile i ricavi, la pandemia ha reso irrinunciabile ogni tipo di entrata, e la perdita netta di 113,7 milioni nell’ultima semestrale ha lanciato l’allarme.

Se la contrazione economica vale per tutti, la Juve ci arriva nel momento peggiore: un momento in cui ha spinto per cambiare, senza avere tutta la necessaria convinzione per farlo. Era evidente con Sarri quanto la squadra fosse un ibrido, un compromesso tra il vecchio e il nuovo, lo è in parte anche adesso con Pirlo, con cui, anzi, è più netta la demarcazione tra chi in questa squadra è protagonista e chi invece non è all’altezza del compito. Nelle passate stagioni la Juve aveva raggiunto, in termini di qualità e profondità della rosa, le più grandi realtà d’Europa: oggi non è più così, con un ricambio generazionale e numerico promosso più per necessità di bilancio che tecniche. Rinunciare, negli anni, a giocatori come Pogba, Vidal, Cancelo, per non parlare del rischio di disperdere un patrimonio enorme come Dybala, senza rimpiazzarli in maniera adeguata, ha di fatto indebolito lo strapotere tecnico della squadra.

Che, sembrava, potesse restare competitiva solo per la presenza di Cristiano Ronaldo: sarebbe ingeneroso scaricare su di lui le responsabilità dell’eliminazione contro il Porto, a maggior ragione dopo che nelle due edizioni di Champions passate la Juve si è aggrappata interamente a lui, capace di segnare sette volte in sei partite a eliminazione diretta (lo score di tutto il resto della squadra, zero). In un certo modo, ed è strano a dirsi, l’impressione è che Ronaldo abbia quasi deresponsabilizzato i compagni di squadra: il portoghese sarebbe dovuto essere l’asso nella manica, la componente che alla Juve era mancata nelle finali di Berlino e di Cardiff, invece ha finito per rappresentare l’ancora di salvataggio di un gruppo che, senza di lui, si sentiva smarrito.

Smarrimento, in effetti, è la parola che più si addice alla Juve vista contro il Porto, e ancor prima contro il Lione. Come giocatori di caratura internazionale patiscano il palcoscenico della Champions è un mistero, ma è stato quello che è andato in scena: semplicemente, la Juve, quando è partita favorita, ha fallito. L’approccio, la mentalità, le giocate: sembra di essere tornati indietro di un decennio, con Allegri che al suo arrivo aveva detto «qui si aveva paura di affrontare il Malmö». Non siamo lontani: Porto e Lione hanno incarnato la paura di una squadra di non farcela, e così è stato. Non è un caso che le migliori partite della Juventus negli ultimi tre anni di Champions siano state quelle più complicate: la vittoria per 3-0 contro l’Atletico Madrid, dopo lo 0-2 dell’andata, o il 3-0 di quest’anno in casa del Barcellona. Anche contro il Porto, la Juve ha avuto bisogno di un primo tempo sciatto e chiuso in svantaggio per reagire, come se le situazioni più comode la mettessero a disagio.

La sensazione di fine impero, ora, è più forte che mai: perché non c’è nemmeno un campionato dominato a fare da contraltare, dove anzi le gerarchie sembrano essersi capovolte, e non in positivo per la Juve. Non vuol dire che tutto è perduto, ma adesso i bianconeri entrano nella fase più delicata della loro storia recente: se la Champions, negli scorsi anni, era stata il volano delle ambizioni e della dimensione della squadra, adesso è la sottolineatura di un progetto che necessita di una visione sportiva coerente e in linea con le aspirazioni. La base per il futuro c’è, a cominciare dai giocatori: Chiesa, de Ligt, Kulusevski, Arthur, Demiral. Ma non è più tempo di commettere errori.