Gli stadi sono le case del popolo

Intervista ad Andrea Ferreri, autore del libro Sugli Spalti, edito da Meltemi.

Gli stadi sono per definizione luoghi d’aggregazione, di conoscenza, di crescita, di passaggi generazionali. Stare sugli spalti – sugli stessi spalti – per molte settimane, per anni, significa qualcosa che trascende e supera la passione per il calcio e l’essere tifosi di una squadra; vuol dire condividere un tempo con degli sconosciuti, appartenere a un culto, fare ammissione di fede. Stare sulle gradinate in Gambia, in Argentina, a Kiev, a Barcellona, a Zagabria, in Kazakistan è fare parte di un mondo, e qualche volta vederlo cambiare. Visitare alcuni stadi ha a che fare con ragioni che non possono essere misurate solo con il parametro sportivo, ma con la storia, con la cultura, con il piacere del viaggio. Entrare all’Atzeca a Città del Messico ha, per certi versi, la stessa rilevanza che ha, per esempio, scalare la piramide di Chicén Itzá una mattina presto di giugno.

«Noi argentini abbiamo sei grandi personaggi: Fangio, Perón, Evita, Che Guevara, Borges e Maradona. Levateceli e restiamo quelli della Pampa, i guardiani delle vacche»Certi, moltissimi, stadi hanno fatto la storia di alcuni paesi, condizionandone e modificandone i destini. Stando su alcuni di quegli spalti, con l’immaginazione o attraverso il racconto, abbiamo visto le donne assistere per la prima volta a una partita di calcio in Iran; abbiamo conosciuto la trasformazione di un campo da gioco in un luogo di tortura e di prossimità allo sterminio; lo stadio come simbolo di fratellanza e gioia, di divisione e tormento; purtroppo, così è stato, come luogo di morte. Gli spalti sono fatti di persone e colori, di abbracci e di grida, di gol non visti perché quelli davanti a te saltavano troppo. Proprio in questi giorni, dopo un anno da quando lo stadio è diventato una delle metafore che meglio rappresentano l’assenza, mi sono imbattuto in un libro bello e interessante Sugli spalti di Andrea Ferreri, pubblicato da Meltemi. Ferreri che è, tra le altre cose, studioso di culture giovanili e sottoculture, ha costruito questo libro animato dallo spirito del viaggiatore – simile a quello che spingeva Jason Elliot a nascondersi sul retro di un camion per scoprire il vero Afghanistan (leggasi Una luce inattesa, ed. Neri Pozza) – mischiato a quello dell’antropologo e all’altro non meno importante del tifoso e dell’appassionato di pallone. Per ogni stadio una vicenda che incrocia una partita, un evento politico, uno scambio culturale. Ferreri ce ne ha raccontate un po’.

 

Ⓤ: Lo stadio è il posto del tifoso, quasi sempre è più lui il padrone del luogo rispetto al calciatore. Nel primo capitolo racconti una storia minima, quella di un tifoso del West Ham, Steve, che da spettatore rissoso e invadente di un’amichevole come tante si trova a entrare in campo e a segnare. Una storia che poteva accadere solo in Inghilterra, a mio modo di vedere.

La storia con cui apro il libro l’ho conosciuta nel leggendario Upton Park di Londra, la storica casa del West Ham United, demolito nel 2017. Un capolavoro architettonico di 112 anni spazzato via per far spazio a condomini di lusso nel cuore dell’East End. È la vicenda di un tifoso come tanti, cresciuto in strada tirando calci a un pallone nel mito della propria squadra del cuore e immaginando di poterci un giorno giocare e fare il gol della vittoria. Un sogno che ogni bambino amante del calcio ha fantasticato nella sua vita e che Steve Davies, in arte Tittiyschev ha realizzato in un modo a dir poco rocambolesco.

Ⓤ: Due stadi, lo Stade de France di Saint Denis, Parigi e il Via del Mare (nome di stadio più bello di sempre) di Lecce (la tua città). Entrambi posti in quartieri periferici e problematici. Tenendo a mente, le naturali differenze, come i percorsi di integrazione degli immigrati e il diverso contesto culturale in cui sorgono, cosa tiene insieme, a tuo avviso, una banlieue parigina e la zona 167 di Lecce?

Le banlieue e la 167 di Lecce sono dissimili tra loro perché il contesto è differente, come dici tu, però sono animate dagli stessi sentimenti di rivalsa e sono entrambe alla ricerca di un’identità capace di staccarsi dal margine, dalla periferia cui la città le ha relegate non solo geograficamente.

Ⓤ: Chi è Amelia Bolanos e perché c’entra con l’Atzeca forse più del gol di Rivera?

Purtroppo il suo suicidio nel 1969, avvenuto in seguito a una partita di qualificazione al Mondiale di calcio, ha alimentato l’odio profondo tra il suo Paese, El Salvador, e il paese confinante l’Honduras (America centrale), odio che esisteva già agli albori della loro indipendenza e che il calcio ha fatto esplodere portandoli alla guerra, con le tragiche conseguenze che ogni conflitto comporta. Una storia di cui l’Atzeca è stato trincea che viene ricordata, dalla definizione  dello scrittore polacco Kapuściński, come la «Prima guerra del football».

Ⓤ: Quando ho visitato a Buenos Aires sono andato alla Bombonera, mi ha colpito una cosa: lo stadio compariva come se fosse un’altra casa popolare, tra le popolari, porgendo il giallo e il blu a piccole dosi. Mi chiesi allora se la casa popolare non fosse proprio quello, il luogo che da pieno trema come un cuore che batte. La Bombonera e gli altri stadi che hai visto sono case popolari? E cosa sono adesso che sono vuote?

Gli stadi sono le case del popolo, soprattutto delle fasce popolari. Luoghi dove si costruiscono identità, senso di appartenenza, dove la comunità trova uno spazio per gioire, soffrire, vivere collettivamente. Dove da soli non si è nessuno, ma si è sempre parte di un corpo, di una grande famiglia. Gli stadi vuoti sono come una casa vuota, senza una famiglia, una comunità che la anima. Sono luoghi spettrali.

Ⓤ: A São Paulo, in Brasile, nel Museu de Futebol si visita una stanza dove mandano in onda a ripetizione una sintesi video e audio della finale dei Mondiali del 1950, quella disputata al Maracanã, tra Brasile e Uruguay. Una partita che ha condizionato la vita di molte persone, come quella del portiere del Brasile Barbosa. «Nel Brasile la sentenza penale più pesante è di trent’anni, io invece ne sto scontando una da cinquanta», o quella dell’attaccante uruguaiano Ghiggia, e ne ha portato alla morte molti altri. In quella stanza si entra uno per volta, come in una piccola Cappella. Tu hai visitato sia il Pacaembu, stadio in cui c’è il museo, sia il Maracanã, cosa vuol dire entrare in uno stadio in Brasile? Perché per i brasiliani quella partita è una ferita ancora aperta?

Entrare in uno stadio in Brasile è qualcosa di straordinario e unico, si entra nella leggenda. Il calcio in Brasile, più che in Italia, è un fatto culturale, appartiene alla loro identità, come il carnevale, la samba o la Capoeira. Fa parte della cultura e rappresenta il Brasile nel mondo. La finale persa del ‘50 è stata per il paese uno shock proprio perché, attraverso il calcio, esprimeva la propria cultura agli occhi del mondo Calcio e Brasile per i brasiliani sono sinonimi e a partire dal ‘58 lo sono anche per il resto del mondo.

Ⓤ: Cosa significa invece assistere a una partita in Gambia? E com’è organizzarne una da quelle parti?

Ho visto diverse partite in cui ero l’unico bianco su 30mila spettatori, qualcosa di forte, a cui non ero abituato benché vivessi nel paese africano per tre mesi l’anno organizzando scuole calcio, tornei per la comunità di un piccolo villaggio gambiano. Ho girato tanti stadi nel mondo, molti di più di quanti ne ho raccontati nel libro, ma le sensazioni che ho vissuto all’Indipendence Stadium di Bakau sono uniche e elettrizzanti, come organizzare calcio in quei territori. Il calcio è uno dei pochi sport accessibili a tutti, è presente ovunque e funge da collante sociale.

Ⓤ: Stare sugli spalti è una solo scusa per viaggiare o è il motivo per capire, per conoscere le storie del mondo?

Viaggio da circa 30 anni e ho visitato 92 Paesi al mondo da viaggiatore e non da turista, una differenza per me fondamentale in quanto non è mai stato il luogo turistico e quello che ruota intorno al turismo (relax, benessere e vacanza) a interessarmi ma i Paesi, i loro popoli e la loro cultura. Buona parte dei miei viaggi sono in zone fuori dai circuiti turistici. E in questo percorso lungo una vita la mia passione per il calcio ha fatto sì che ogni qualvolta avessi la possibilità di andare allo stadio o di giocare a calcio lo facevo. Sapendo che in questi luoghi, forse più che altrove, avrei  conosciuto dinamiche sociali, abitudini, usanze, leggende.

Ⓤ: Nel 2019, dopo 40 anni di divieto, le donne sono potute tornare in uno stadio in Iran, come racconti in una storia. Quando manca perché assistano a una partita in dei posti non riservati?

L’Iran è un paese con una grande cultura e la battaglia portata avanti da Blue Girl prima e da molte donne iraniane oggi credo sarà vincente. È un Paese che ha bisogno dei suoi tempi, che dipende dalle proprie modalità culturali, per raggiungere nuove forme di emancipazione sociale.

Ⓤ: Il terremoto che s’avverte stando fuori dal Gasómetro del San Lorenzo, quando la squadra di casa segna, è diverso da quello che si sentiva al San Paolo (ora Maradona) dopo un gol di Diego? O dopo quello di Cavani al Manchester City? (conosco il secondo, non ho fatto in tempo a sentire il primo).

È lo stesso. Un eruzione vulcanica che fa vibrare tutto ciò che c’è intorno e ci ricorda quanto il calcio sia un momento sociale esplosivo.

Ⓤ: Conta di più Boban che reagisce alle manganellate del poliziotto prendendolo a calci o Langenus che si convince a dirigere la finale dei Mondiali del 1930, avendo cura di scegliere il pallone portato dagli argentini per il primo tempo e quello degli uruguaiani per il secondo?

Sono due vicende e due epoche diverse, ma entrambe ricche di significati sportivi, politici e sociali. La storia di Boban l’abbiamo vista con i nostri occhi attraverso la tv, con tutto quello che ha significato la guerra nella Ex Jugoslavia, e sicuramente ha avuto un altro impatto nel nostro immaginario rispetto alla storia di Langenus. Tuttavia ci fanno capire entrambe, oltre la narrazione sportiva, parecchio sul mondo e le sue infinite contraddizioni.