José ha perso la guerra

L'esonero del Tottenham non ha colto di sorpresa nessuno, piuttosto è solo l'ennesima conferma: è finito il mito di Mourinho, allenatore-comunicatore che non ha saputo rinnovarsi.

Nel momento in cui è finita la sua esperienza come manager del Tottenham, la storia di Mourinho ha preso una piega malinconica e declinante. O meglio: lo ha fatto in maniera definitiva, come se fosse arrivato un comunicato ufficiale, dopo anni di sospetti, di colpi di gomito tra appassionati e analisti, dopo intere stagioni in cui Mourinho ha continuato a essere Mourinho, a fare Mourinho, mentre Mourinho aveva smesso di essere se stesso. Cioè, aveva smesso di vincere. Sì, perché l’impalcatura del mourinhismo affondava le sue radici nei tituli, nell’ossessione della vittoria che doveva essere soddisfatta e veniva soddisfatta a qualsiasi costo, con ogni mezzo e stratagemma disponibile. E invece proprio quel palmarés che per anni è stato il suo grande vanto spiega che Mou non solo non è più di moda, ma non funziona più neanche a intermittenza: gli ultimi tituli risalgono al 2017, Europa League e League Cup con il Manchester United, mentre l’ultima affermazione in un torneo di primissimo livello – la Premier League, nella fattispecie – risale al 2015. Un anno prima, una squadra allenata da Mou – il Chelsea – è andata oltre gli ottavi di finale di Champions per l’ultima volta.

Tutti i grandi show televisivi, così come tutti i grandi franchise cinematografici e dei fumetti, sono destinati a chiudere, a essere cancellati, messi da parte. Oppure hanno dovuto affrontare delle crisi e dei profondi cambiamenti di stile e forma e contenuti prima di rinascere, se sono riusciti a farlo. Nell’ambito della serialità televisiva, l’espressione utilizzata per individuare chiaramente il momento in cui inizia il declino è Jumping the Shark, letteralmente saltare lo squalo; per il cinema, invece, la più comune è Nuke the Fridge, letteralmente nuclearizzare il frigo. Nel caso specifico non è facile individuare l’istante esatto in cui Mourinho ha saltato lo squalo o ha nuclearizzato il frigo, ma di certo il suo show ha perso smalto da molto tempo. E utilizzare il termine show non è una scelta azzardata, anzi: Mou è stato il primo tecnico-personaggio dell’era moderna, il primo a spettacolarizzare il lavoro e la figura stessa dell’allenatore. Nel corso della carriera ha sempre cercato di dilatare al massimo la sua influenza – anche solo virtuale – sul contesto, attraverso le conferenze stampa, il rapporto a distanza con la società, i colleghi, gli arbitri, i suoi stessi giocatori. Per alcuni anni, questo suo modo di comunicare – che era soprattutto un modo di allenare, anzi di essere – ha anche funzionato, anzi l’ha reso un protagonista del suo tempo, un innovatore, una grande attrazione, persino un modello. Poi, però, Mou si è fermato a ciò che era, è come se si fosse cristallizzato su se stesso: ha smesso di evolvere, di crescere, di adattarsi a un mondo che andava veloce mentre lui era impegnato a combattere le sue battaglie personali.

Anche nel corso dei suoi 17 mesi al Tottenham ha cercato di far fruttare i suoi soliti strumenti retorici, come se fossimo ancora a metà degli anni Duemila o al massimo nel Duemiladieci, come se ieri il CEO di Apple, Tim Cook, avesse detto in mondovisione che il primo modello di iPod Mini, uscito nel 2004, è ancora uno strumento rivoluzionario, competitivo sul mercato. Pochissimi giorni fa, nel corso delle interviste postpartita di Newcastle-Tottenham (2-2), una giornalista della BBC ha chiesto a Mourinho perché i suoi Spurs non riuscivano a mantenere il vantaggio come facevano praticamente tutte le altre squadre allenate in passato da Mourinho; José, senza guardare mai dritto in macchina, come un attore consumato, ha detto semplicemente «Same coach, different players». Dopo il pareggio nel North London Derby contro l’Arsenal, il manager portoghese ha accusato alcuni dei suoi giocatori, senza fare nomi, dicendo che «si nascondono, giocano con poca intensità, non fanno nessun passaggio e nessun movimento»; poco dopo, nello stesso flusso di interviste, ha detto che Tanguy Ndombele e Gareth Bale erano tra i giocatori che «dovevano metterci più intensità».

Secondo Mourinho, i suoi metodi «non sono secondi a nessuno al mondo», ancora oggi. Quindi se la sua squadra va male non è mai colpa sua, non può essere colpa sua. È una visione che riguarda l’aspetto tattico ma anche – se non soprattutto – la relazione con i calciatori. Quella che una volta era la sua capacità più importante, l’humus su cui fondare la conquista dei trofei, è diventato un vero e proprio tallone d’Achille. Oggi Mourinho attacca malinconicamente i suoi giocatori, sembra voler ricreare anche all’interno del suo gruppo le stesse tensioni che, tanto tempo fa, erano rivolte fuori dal suo contesto, dal suo spogliatoio, e così cementavano l’unità, l’identità delle sue squadre. In realtà è da diverso tempo, ormai, che Mou ha perso questo tocco: Paul Pogba, parlando delle differenze tra lui e Ole Solskjaer, il suo attuale manager al Manchester United, ha spiegato che «Ole non andrebbe mai contro i suoi giocatori, invece Mourinho ti cancella dalla sua vita da un giorno all’altro, e tu non riesci a spiegarti perché». Alla luce di questa e altre testimonianze, e di com’è andata al Tottenham, è evidente come il suo approccio non sia cambiato, non è stato adattato ai nuovi rapporti di forza dentro i grandi club, è rimasto ancorato agli anni in cui lui era un allenatore davvero innovativo e vincente, e allora poteva chiedere qualsiasi cosa a chiunque, soprattutto ai suoi giocatori. Oggi i veri protagonisti sono proprio loro, i giocatori, o al massimo possono esserlo i tecnici vincenti. Mourinho non appartiene più a questo gruppo e non riesce più a sintonizzarsi con gli uomini, è diventato un allenatore antiquato, un motivatore non ricettivo, nonostante a 58 anni non è che sia poi così vecchio – solo in Premier ci sono cinque manager più anziani di lui.

Alla guida del Tottenham, Mourinho ha messo insieme 27 vittorie, 11 pareggi e 12 sconfitte in 50 partite di tutte le competizioni (Catherine Ivill/Getty Images)

In virtù di tutto questo, il licenziamento di Mourinho è una notizia che già si percepiva nell’aria, che tutti si aspettavano, anche un po’ banale, se vogliamo. Era solo questione di quando, non di se. In realtà, però, tutto è avvenuto con un timing piuttosto particolare, subito dopo l’ingresso del Tottenham nell’esclusivissimo circolo dei club scissionisti, quelli che hanno fondato la SuperLega, e a poche ore dalla finale di League Cup – domenica 25 aprile gli Spurs affronteranno il City a Wembley – che potrebbe riportare un trofeo in bacheca dopo tredici anni di enorme crescita, sì, ma anche di assoluta astinenza dal successo pieno. È un grande paradosso, perché in realtà Mou era in corsa per raggiungere i due obiettivi per cui era stato assunto. Anzi, il primo era già stato archiviato: grazie alla sua sola presenza, alla fama immarcescibile del suo personaggio, il brand Tottenham è stato valorizzato sul mercato internazionale, magari non per quello che è successo sul campo, ma di certo attraverso al grande successo di All or Nothing, un documentario sugli Spurs che in realtà José aveva trasformato in un one man show sulla sua nuova esperienza londinese. Magari questa visibilità non ha inciso così tanto sulla reputazione del Tottenham, che era e resta comunque un club in ascesa, ma di certo lo ha aiutato a posizionarsi, a essere più riconoscibile.

E poi ci sarebbe stata la finale contro il City, che ora il Tottenham affronterà senza di lui: l’esonero ha tolto a Mou la possibilità di battere Guardiola, il grande rivale di una volta – quello che ha saputo aggiornarsi e reinventarsi continuamente, mentre lui non ce l’ha fatta – e di piantare la sua eterna bandierina dei tituli, e della sua retorica, anche a White Hart Lane. È questo l’affronto più grande, il segnale più chiaro ed evidente della resa, del fatto che José Mourinho abbia perso la sua guerra: nell’era contemporanea non sono sufficienti il carisma, l’atteggiamento guascone e brillante e strafottente, non può bastare la pura e semplice vittoria, ma conta soprattutto cosa si vince e come si vince. L’esatto contrario di Mourinho. L’esatto contrario del mourinhismo.