Roberto Mancini, leader scontroso

Intervista a Marco Gaetani, scrittore del nuovo libro sul Ct della Nazionale, uscito per 66thand22th.

C’è una scena, più di tante, che descrive che calciatore sia stato Roberto Mancini. È novembre del 1990, la Sampdoria in cui fa coppia con Vialli ha vinto per 4-1 a Napoli ed è in festa sul pullman, di ritorno verso casa. «Lo scudetto, che arriverà a fine stagione, è lontano. Eppure Mancini guarda già avanti. “Fra due anni, a Tokyo”, dice agli altri riferendosi all’Intercontinentale. Insomma: nel futuro, non pensa al Campionato; lo dà per assodato, vede già persino la vittoria della Coppa dei Campioni, che solo il caso, cioè la punizione di Koeman, gli impedirà di conquistare». Parola di Marco Gaetani, autore di Roberto Mancini, senza mezze misure (66thand2nd), quasi un romanzo biografico sull’attuale tecnico della Nazionale. E l’immagine, insomma, è quella di un trascinatore atipico, esigente, ambizioso. Che – spiega – come giocatore avrebbe potuto vivere una carriera ancora più ricca di soddisfazioni, non fosse stato «per il suo carattere».

Diffidente coi giornalisti, incline allo scontro verbale, orgoglioso, spigoloso, a volte isterico. «Un leader, certo. E direi assolutamente vincente. Ma con personalità ingombrante, non accomodante, difficile da gestire». Perché Roberto Mancini – classe ’64 da Jesi, dal 1981 al 1997 bandiera e campione d’Italia nel 1991 con la Samp formato famiglia di Enrico Mantovani, quindi simbolo della Lazio del 2000 – è stato fantasista di classe e centravanti moderno, professionalità e trofei per niente scontati, da giocatore come da allenatore; ma anche polemiche, litigi, incomprensioni. A un certo punto persino nella Genova che era diventata casa sua, comunque soprattutto in Nazionale. Motivo per cui, oggi che siede sulla panchina degli Azzurri, a chiunque ricordi il suo passato può sembrare persino paradossale. «Del resto, parliamo di un campione che però non ha mai giocato neanche un minuto ai Mondiali».

 

Ⓤ: Per i compagni di squadra, che leader era?

Da calciatore a calciatore, non era facile confrontarsi con lui. E non perché oscurasse le personalità altrui, ma perché pretendeva che i compagni stessero al suo stesso livello. Tuttavia, solo per citare la Samp dello Scudetto, in quella squadra al suo livello c’erano giusto Vialli e Vierchowod, al massimo Lombardo e Cerezo nelle giornate migliori. Si dice che Maradona avesse una buona parola per i compagni anche quando sbagliavano; Mancini era il contrario, si arrabbiava. Chiaramente non tutti – mi vengono i nomi di Corini e Maspero – hanno accettato la sua leadership. Lui, comunque, lo faceva per motivare, non certo per umiliare. Soprattutto nella seconda parte di carriera, quella che va dalla finale di Wembley del 1992 in poi, quando è l’unico del gruppo storico a rimane alla Sampdoria, mentre tutto intorno è una diaspora. Accanto a lui esplodono Montella e Chiesa. Mi stupisce, in ogni caso, che questo tratto del suo carattere all’epoca venisse descritto negativamente – la stampa lo definiva “aggressivo”, “nervoso”. Oggi, quando Ibrahimović fa lo stesso, viene dipinto come un maestro che sprona i compagni più giovani.

Ⓤ: E, dicevamo, il rapporto fra Mancini e la Nazionale è stato molto complesso.

Anche qui, “senza mezze misure”. Uno con qualche filtro in più di lui avrebbe chiesto scusa a Bearzot, per dire. In sintesi: durante un giro di amichevoli negli Stati Uniti, nel 1984, un Mancini giovanissimo una sera esce insieme ad altri compagni, e torna tardi in hotel. Solo che in giro con lui c’era gente tipo Tardelli, reduce del 1982 e che aveva anche un’età per farlo; invece Mancini era l’ultimo arrivato, e Bearzot, arrabbiato, gli precluse la convocazione per i Mondiali del 1986. Tempo dopo gli avrebbe confidato che non aspettava altro che delle scuse per riabilitarlo, altro che esclusione permanente. Ma Mancini, se convinto di stare nel giusto, non compie passi indietro. Non prende mai la strada comoda.

Ⓤ: E anche con Sacchi e Vicini, infatti, non è andata bene.

Con Vicini il rapporto è stato strano: in Under 21 Mancini ne era il pupillo, a Euro 88 lo fa giocare sempre; a Italia 90, invece, lo relega in tribuna, persino prima dell’esplosione di Schillaci e Baggio. E dire che fra il 1988 e il 1990, con la Sampdoria, aveva vissuto grandi stagioni. Inspiegabile. Con Sacchi è più lineare: l’allenatore lo considera una riserva di Roberto Baggio; Mancini accetta a fatica questa dimensione, in più c’è Zola che scalpita nello stesso ruolo; ergo, si fa fuori da solo. Ma penso se ne sia pentito: nel 1994 era in un ottimo stato di forma, negli Usa avrebbe lasciato il segno anche da subentrante.

Ⓤ: C’è un minimo comun denominatore fra le tensioni che ha avuto con Bearzot, Sacchi e Vicini?

Non so, soprattutto con Sacchi credo che tutto ciò fosse dovuto a come Mancini vivesse alla Sampdoria. A Genova era amato, non aveva niente da dimostrare; in Nazionale doveva accettare la panchina, giocare solo scampoli di partita magari per strappare un’altra convocazione. Credo si sia chiesto: “Perché qui non mi amano come a Genova?”. Non era fatto per sgomitare in quel contesto.

Ⓤ: Appunto, però, alla Sampdoria è andata diversamente, perlomeno fino al 1993, cioè fino alla scomparsa di Paolo Mantovani.

Fra Paolo Mantovani e Boskov (allenatore della Sampdoria dal 1986 al 1991, nda), si sentiva a casa. Con loro il rapporto era paterno, famigliare. E, intorno, solo fiducia. Non a caso rimarrà a Genova anche mentre i compagni, dopo la finale di Coppa Campioni persa nel 1992, lasciano. Sarebbe stato comodo seguirli, piuttosto che restare in una squadra ridimensionata fino a 33 anni. Credo fosse rispetto per i tifosi, questione di orgoglio nel voler diventare una bandiera.

Ⓤ: Anche perché, come dici, la Sampdoria dal 1994 al 1997, cioè all’addio di Mancini, si ridimensiona.

E nonostante si parlasse di Sampdoria, per Mancini a livello personale quegli ultimi anni non sono facili. Segna molto, ma a volte sembra fuori controllo e la stampa lo attacca; e poi il rapporto con Enrico Mantovani, figlio di Paolo subentrato al padre dopo la sua scomparsa, non è sereno. Però Paolo era un petroliere con l’idea di trasformare la Sampdoria in una delle cose più belle d’Italia; Enrico, più che altro, deve fare i conti col bilancio. Comunque credo che la sua presenza, più di tutti, abbia spinto Mancini a lasciare Genova per andare alla Lazio.

Ⓤ: Dici che altrimenti sarebbe rimasto anche in una Sampdoria più operaia?

Non possiamo saperlo. Ma, secondo me, ci fosse stato un rapporto migliore con Enrico Mantovani sarebbe potuto rimanere anche a fine carriera.

Ⓤ: Invece, a 34 anni, scelse la Lazio.

E io, da tifoso, all’epoca ebbi l’impressione di un cambio di mentalità, che arrivò proprio con lui. Anche a Roma ci furono contrasti, stavolta con la tifoseria, perché il suo ingaggio – avvenuto insieme a quello del tecnico Sven-Goran Eriksson, già con lui alla Samp e di cui passava un po’ per “cocco” – in un certo senso spodestava la leadership di Signori, che infatti di lì a poco chiederà la cessione. Seguiranno mesi difficili, di contrasti; ma la verità è che, dopo anni di investimenti e nessun titolo, il suo arrivo porterà alla squadra da subito trofei, fino allo scudetto del 2000. Alla fine, ci rimane un Mancini che ha vinto due scudetti in piazze che altrimenti non ne vincono. Non è poco.

Ⓤ: E mi colpisce, in ogni caso, come lui abbia attraversato da protagonista un periodo che va dal 1981 al 2000, cioè vent’anni in cui il calcio è cambiato più volte.

A livello tecnico, Mancini è diventato e rimasto ciò che voleva essere. A Bologna, agli inizi, è una sorta di seconda punta, quasi un centravanti. Ragazzino prodigio, visto che non ha neanche diciotto anni. Nel 1982 va a Genova, dove Ulivieri è convinto di avere fra le mani il centravanti del futuro. Tant’è che lo fa giocare con la nove. Poi è come se, con l’arrivo di Boškov nel 1986, Mancini si scegliesse da sé la posizione in campo. Dice che non vuole più giocare davanti, allora il tecnico si inventa la coppia con Vialli: Mancini, libero di muoversi; e Vialli, che nelle stagioni prima giocava esterno sinistro, centravanti. Insieme diventano icone del calcio italiano nel mondo, oltre che di una Sampdoria vincente. Con un Mancini che ha poco da spartire con gli altri fantasisti dell’epoca.

Ⓤ: Perché?

Perché è libero di muoversi fra le linee, fra attacco e centrocampo. E perché, nonostante ciò, mantiene l’attitudine da centravanti. Se arriva un cross, sa come prendere il tempo al difensore; al contempo, il cross sa farlo anche lui. Questo dualismo con l’età andrà a sfumare, ma continuerà comunque a manifestarsi sporadicamente. Su tutti, il gol contro l’Arsenal in Coppa delle Coppe, nel 1995. Ha già passato i trenta, eppure quando arriva quella palla lunga, senza senso, da un rilancio dalle retrovie, sa come segnare. Perché il centravanti, lui, sapeva farlo benissimo; semplicemente, a un certo punto non gli è più interessato esserlo. Ha deciso di diventare un Dieci.

Ⓤ: Parliamo del Mancini tecnico della Nazionale.

Lui non è Sacchi, che veniva da un altro mondo. Ha attraversato tutte le fasi dei giocatori che allena, e credo che il pentimento per aver rifiutato Usa 94 lo abbia segnato. Al di là dei principi di gioco, infatti, la chiave del successo di questa Italia – almeno in questa prima fase – sta nel suo saper trasmettere ai giocatori quanto sia importante la Nazionale, quanto sia importante esserci. Ha creato un gruppo, che sta bene e si diverte a stare insieme.

Ⓤ: È un tecnico sottovalutato?

È stato sia sopravvalutato che sottovalutato. All’inizio, cioè alla Lazio (dal 2002 al 2004, nda) e all’Inter prima di Calciopoli (dal 2004 al 2006, nda), svolgeva un lavoro tattico impressionante, le squadre giocavano bene. Era sottovalutato. Poi, vincendo, è diventato sopravvalutato. Soprattutto al Manchester City (dal 2009 al 2013, nda), dove ha vinto una Premier (nel 2012, nda) mentre a livello europeo ha fallito, rispetto all’organico a disposizione. Non sto dicendo che il titolo del 2012 sia banale, ma neanche l’impresa che un po’ ci raccontiamo. Da lì, comunque, è entrato in un imbuto di scelte “particolari” – Galatasaray, Zenit, ritorno all’Inter – in cui pareva aver perso il tocco. Prima della Nazionale, in cui invece sembra tornato il tattico degli inizi. Negli ultimi anni, infatti, aveva dato l’impressione di aver allenato campioni, sì, allentando un po’ la presa dal punto di vista tattico.

Ⓤ: Pensi che col tempo abbia limato alcuni spigoli del suo carattere?

Credo sia sceso a patti con sé stesso. È più paziente, per quanto mantenga le stesse ambizioni di una volta. Ma i passaggi oscuri non mancano. Penso a quando allenava l’Inter e, dopo la sconfitta col Liverpool in Champions League, nel marzo 2008, annunciò che quello sarebbe stato il suo ultimo anno lì: aveva ancora diversi anni di contratto, il campionato era tutt’altro che chiuso; erano dichiarazioni evitabili, che non hanno giovato a nessuno. Oppure penso al litigio con Sarri del 2016: Mancini aveva assolutamente ragione, ma la reazione – così netta – ci ha riportato alla mente quelle che aveva da calciatore. Per non parlare della gaffe sul Covid. Anche a quasi sessant’anni, ha dei momenti in cui esce completamente dagli schemi. In parte, sì, è ancora “senza mezze misure”.