L’anno prossimo, otto delle prime dieci squadre dell’ultimo campionato di Serie A avranno un allenatore diverso rispetto a quello della stagione appena terminata. La notizia più sorprendente riguarda di certo l’Inter campione d’Italia, che rinunciando a Conte ha tacitamente preannunciato un ridimensionamento che potrebbe portare anche alla cessione di qualche big. La Juventus invece ripartirà da Allegri, provando a ricucire il filo che si era spezzato due anni fa con l’eliminazione ai quarti di finale di Champions League per mano dell’Ajax – nel frattempo non è che sia andata molto meglio. La Roma e il Napoli, con gli annunci di Mourinho e Spalletti, hanno nel mirino il ritorno tra le prime quattro. Insomma, le uniche squadre che in panchina hanno scelto la continuità sono l’Atalanta di Gasperini e il Milan di Stefano Pioli, che ha raggiunto l’obiettivo di inizio stagione e si è meritato una conferma che in realtà non è mai stata veramente in discussione in questi mesi.
Ma cosa sarebbe successo se, dopo 36 giornate su 37 trascorse virtualmente in Champions League, di cui 21 in testa alla classifica, all’ultimo turno i rossoneri fossero scivolati fuori dalle prime quattro posizioni? O meglio: come si valuta il campionato di un allenatore, di una squadra, la bontà di un intero progetto societario, in una stagione in cui tra il secondo e il quinto posto c’è una differenza di appena due punti e in cui la quota Champions è la più alta di sempre nella storia della Serie A a 20 squadre? La risposta non è semplice, perché il calcio non è semplice.
Nella contrapposizione manichea tra risultato e prestazioni, il Milan aveva un solo reale obiettivo: arrivare quarto a ogni costo. È arrivato secondo e (giustamente) ha festeggiato. Ma molto spesso le partite, e talvolta le stagioni, si decidono nei dettagli. E fa venire quasi i brividi la perfetta coincidenza fra tre situazioni che hanno in qualche modo indirizzato il campionato dei rossoneri: il tiro di destro di Theo Hernández nel primo tempo del derby di ritorno, la conclusione di Raspadori nei minuti finali di Milan-Sassuolo, il tentativo di Duván Zapata nel secondo tempo di Atalanta-Milan, match dell’ultima giornata. Il tiro di Hernández, scoccato quando il punteggio era sull’1-0 in favore dei nerazzurri, è finito fuori di un niente; la conclusione di Raspadori è entrata in rete dopo aver colpito il palo interno; il tentativo di Zapata, invece, ha sfiorato il legno spegnendosi sul fondo con Donnarumma immobile al centro della porta. Immaginare esiti e scenari diversi è una perdita di tempo, eppure ricordare questi potenziali turning point è importante per provare a superare una cultura del commento ormai sempre più impigrita, appiattita, sulla semplice lettura della classifica finale. Insomma, tutto sarebbe potuto cambiare, così come le prospettive del Milan. Ma alla fine la reale consistenza del progetto rossonero sarebbe stata la stessa.
Il Milan ha chiuso il campionato con 74 gol segnati, solo il quinto miglior attacco dietro ad Atalanta (90), Inter (89), Napoli (86) e Juventus (77); i rossoneri, però, hanno totalizzato 75,05 expected goals, e questo dato li rende una delle otto squadre in Serie A che hanno concretizzato meno rispetto a quanto costruito. La differenza tra reti realizzate ed expected goals, seppur minima, indica una scarsa capacità di finalizzazione, che si è palesata in alcuni momenti chiave della stagione, per esempio nella penultima gara contro il Cagliari a San Siro – giocata senza Ibrahimović infortunato. Del resto lo stesso Milan, non investendo su un vice Ibra la scorsa estate, e ripiegando su un impresentabile Mandzukic a gennaio, ha aggiunto un ulteriore elemento di complessità al discorso: è vero che Ibrahimović a 39 anni ha giocato solo 19 partite segnando ben 15 reti, ma il lettore malizioso potrebbe chiedersi che senso abbia allora il suo rinnovo per la prossima stagione a sette milioni di euro. Senza il carisma dello svedese, però, in quest’ultimo anno e mezzo il Milan avrebbe fatto il salto di qualità che l’ha riportato in Champions League per la prima volta dal 2014?
Il Milan è una squadra in costruzione, ha un allenatore che ha vinto solo gli Allievi Nazionali con il Bologna (vent’anni fa, tra l’altro) e che al termine della stagione 2020/21 ha ottenuto il miglior piazzamento in classifica della sua carriera. È evidente che Pioli sia cresciuto insieme ai giocatori e che possa crescere ancora, ma deve dimostrare di saperlo fare. La sua avventura al Milan è una continua scoperta di se stesso: per certi versi è anche una situazione affascinante. Nell’ultima stagione la società (che ha 151,8 milioni di debiti, molti meno di Juventus e Inter) gli ha messo a disposizione una rosa funzionale alla sua idea di calcio e lui, nonostante molti infortuni e numerose positività al Coronavirus, ha addirittura fatto meglio dell’obiettivo dichiarato del quarto posto. Il Milan aveva la quarta rosa d’Italia per valore complessivo secondo Transfermarkt, ed era la terza squadra con l’età media più bassa (24,9) tra i cinque principali campionati europei, eppure è riuscito ad arrivare al secondo posto in un campionato sporco e cattivo, nel senso di difficile, come la Serie A. Insomma, il progetto è in divenire, ma c’è. Ed è molto solido. Per fare un confronto, le uniche due formazioni più giovani del Milan nelle cinque leghe top, Nizza e Stoccarda, sono arrivate entrambe al nono posto, rispettivamente in Ligue 1 e Bundesliga.
A questo punto la domanda diventa: cosa bisogna aspettarsi dalla prossima stagione? Liquidato Donnarumma, sostituito con l’ex portiere del Lille Maignan per questioni economiche più che tecniche, le priorità sul mercato devono essere il riscatto di Tomori (in dirittura d’arrivo) e il rafforzamento dell’attacco, a partire da quel ruolo di vice-Ibrahimović che Olivier Giroud, campione del mondo e fresco vincitore della Champions League con il Chelsea, potrebbe rappresentare dignitosamente – nonostante compirà 35 anni il prossimo 30 settembre. Ma per aumentare il numero di gol servirà anche altro, come ha ammesso lo stesso Pioli intervistato ieri da Repubblica: «Zlatan non potrà giocarle tutte, ma lui sa quando forzare. Certo, la Champions al martedì o al mercoledì è meno pesante dell’Europa League giocata di giovedì, ma al Milan ci vuole il quarto attaccante».
La scorsa estate scrivevamo che nel 2020/21 il Milan poteva lottare al massimo per tornare in Champions League. Lo confermiamo anche per il 2021/22, pur consapevoli che un anno di esperienza internazionale in più, un mercato intelligente e i numerosi cambi sulle panchine delle altre big potrebbero regalare sorprese. Ma in realtà la dimensione attuale è questa, come ha fatto capire anche il presidente Paolo Scaroni, intervistato dal Foglio: «Non possiamo tornare al vertice d’Europa con questo San Siro». Anche Paolo Maldini, dopo la fine del campionato, ha ricordato: «Non è più il Milan di Berlusconi. Adesso bisogna essere creativi perché purtroppo sono cambiati i tempi». Creativi e realisti. Ma è esattamente la conoscenza dei propri limiti, e allo stesso tempo la quotidiana volontà di spingersi a osservare fino a che punto questi limiti arrivano, la miglior notizia per il Milan in vista del futuro.