Da quando i ct delle Nazionali qualificate a Euro 2020 hanno diramato le liste definitive dei convocati, circa tre settimane fa, si parla del nutrito contingente di calciatori di Serie A agli Europei: oltre ai 22 giocatori chiamati da Roberto Mancini (quattro Azzurri militano all’estero), i club del massimo campionato italiano hanno inviato un totale di 50 calciatori nelle altre 23 Nazionali partecipanti alla fase finale. Solo la Premier League (122) e la Bundesliga (89) hanno fornito un numero di atleti più alto, mentre la Liga (39) e la Ligue 1 (29) sono lontanissime. Quando poi sono iniziate le partite, le ottime statistiche sul rendimento dei giocatori provenienti dalla Serie A – 21 gol su 71 realizzati in 30 gare disputate, più dieci premi di Star of the Match – hanno alimentato l’idea per cui il massimo campionato italiano abbia recuperato almeno in parte l’antico fascino, o quantomeno sia diventato più competitivo rispetto a qualche anno fa. Di contro, i critici in servizio permanente hanno sottolineato come le Nazionali più forti siano state composte ignorando o quasi la Serie A – sette convocati in tutto se consideriamo solo le rose di Belgio, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania – e che i club italiani non vincono una coppa europea dal 2010.
Come succede sempre, la verità finisce per abitare nelle sfumature in scala di grigio tra l’esaltazione e il disfattismo. In effetti gli ultimi calciatori che hanno vinto un Europeo o un Mondiale mentre militavano in una squadra di Serie A sono stati Blaise Matuidi, Miroslav Klose e Shkodran Mustafi, poi bisogna risalire fino al trionfo dell’Italia del 2006. Un dato ugualmente negativo è quello dei calciatori italiani vittoriosi in Champions League: Jorginho ed Émerson Palmieri, poche settimane fa, hanno interrotto un digiuno che durava dal 2010, da quando Balotelli e Materazzi sollevarono il trofeo più ambito al Santiago Bernabéu con la maglia dell’Inter. Allo stesso tempo, però, parlare delle mancate vittorie delle società di Serie A nelle coppe significa dimenticare che i 33 trofei europei per club messi in palio dalla Uefa negli ultimi dieci anni sono finiti nella bacheca di nove club, con il solo Bayern Monaco fuori dalla rotta Spagna-Inghilterra: insomma, parlare di calcio italiano vuol dire commettere un errore metodologico, la vera distanza in essere è quella tra i top club delle varie nazioni. In questo senso, il divario tra le grandi società italiane e quelle straniere è aumentato a dismisura a causa di politiche di gestione e diversificazioni degli introiti che, nel nostro Paese, sono state attuate con dieci anni di ritardo rispetto a quanto è successo negli altri campionati.
In virtù di tutto questo, si può dire che la Serie A è una lega che ha enormi difetti ma anche diversi pregi, che sta (finalmente) vivendo un periodo di transizione evolutiva, sta scoprendo una nuova progettualità tecnico-tattica, orientata all’individuazione e allo sviluppo del talento, a un gioco più spregiudicato, e quindi alla valorizzazione dell’asset economicamente più volatile, ma anche più redditizio: i calciatori. Tutto è collegato: la Serie A, tra i cinque campionati top in Europa, è quello che conclude più operazioni di mercato in assoluto (1000 nella stagione 2020/21, contro le 564 della Bundesliga, le 646 della Ligue 1, le 695 della Premier, le 708 della Liga); nel frattempo, però, la media gol è in costante aumento – da 1,3 reti per match del 1997/98 si è passati alle 2,61 dell’annata 2009/10 fino alle 3,06 dell’edizione 2020/21 – e così sono tornati a farsi vivi anche gli investitori, soprattutto quelli stranieri – nel 2011 la Roma era l’unica squadra ad avere una proprietà non italiana, oggi sono sette solo nel massimo campionato. Certo, esasperare il lavoro sul calciomercato e accumulare tesserati non è il modo più sicuro per dar vita a progetti solidi e di ampio respiro, e il gap economico con altre società internazionali – soprattutto quelle della Premier League – è ancora ampio. Ma forse proprio questa mancanza di stabilità e di liquidità, unita all’atavica (e politica) ritrosia a investire sulle infrastrutture, ha portato alla creazione di un nuovo contesto tecnico fondato sulla spasmodica ricerca del talento, a stimolare la fantasia degli scout, dei cacciatori e degli allevatori dei campioni del futuro.
Gli esempi più significativi, in questo senso, sono quelli che riguardano due dei grandi protagonisti di questi Europei: Robin Gosens e Patrik Schick. La storia dell’esterno tedesco è un distillato di grande lungimiranza calcistica, è una vicenda che racconta – forse meglio di ogni altra – quanto e come sia cresciuto il modello virtuoso messo a punto dall’Atalanta. Gosens, infatti, è arrivato a Bergamo nel 2017 – per integrarsi con Spinazzola, e poi per raccogliere la sua eredità – quando era un oscuro terzino dell’Heracles Almelo, club olandese di scarso blasone. È stato scelto perché le sue caratteristiche fisiche e tecniche sembravano potersi sposare alla perfezione con il gioco di Gasperini, ed era proprio così; col tempo, nel tempo, Gosens ha dimostrato di avere enormi margini di miglioramento e ora ha raggiunto l’apice della propria forza e della propria qualità, e si è imposto come titolare – e come giocatore decisivo – in una squadra che frequenta ormai stabilmente la Champions League e poi in una Nazionale di primissimo livello. Con Schick le cose sono andate in maniera più disordinata, ma resta il fatto che la Sampdoria l’ha scovato quando era un ventenne di proprietà dello Sparta Praga, al termine di una stagione in prestito a un’altra squadra della capitale ceca, il Bohemians. Le successive esperienze con Roma e Lipsia e Bayer Leverkusen non sono state luccicanti come ci si poteva aspettare, ma il calcio non è materia scientifica, è uno sport indecifrabile, un multiverso volubile, rischioso. In ogni caso, risulta evidente – e non da oggi – che Schick possieda un enorme talento, e questi Europei l’hanno ricordato un po’ a tutti.
Il discorso fatto per e con Schick può essere sovrapposto a quelli che riguardano Mikkel Damsgaard o Milan Skriniar o Joakim Maehle o Aleksej Miranchuk, ma anche giocatori che non stanno brillando agli Europei, ma intanto sono stati convocati – i vari, Stryger-Larsen, Muldur, Elmas, Barák. Certo, è probabile che molti di questi non diventeranno dei campioni affermati, e va detto anche che, fino a 15 anni fa, la Serie A era abituata a importare soprattutto dei calciatori riconoscibili su scala continentale come i Lukaku, i De Ligt, gli Eriksen e i Fabián Ruiz di oggi. Al tempo stesso, però, la subalternità economica ad altre realtà è una condizione che va accettata e che può essere addirittura sfruttata, per individuare e/o creare nuovi percorsi di sviluppo tecnici e manageriali, e quindi l’ambiente competitivo che serve per poter aspirare a colmare il gap che esiste con alcuni club di altri campionati, e quindi con altre leghe che al momento sembrano (sono) irraggiungibili.
È una questione di idee, come ha spiegato anche Simon Kuper in un’intervista a Undici: «Quando la Serie A era il campionato più prestigioso al mondo, il calcio inglese era pessimo, anche pericoloso. Loro hanno trovato il modo per ribaltare le cose, partendo dalla confezione, dalla comunicazione dell’evento sportivo». Col tempo, la rivoluzione avviata tramite l’istituzione della Premier League ha permesso al calcio inglese di diventare il più ricco e attrattivo d’Europa, quindi il più competitivo del mondo. Gli Europei in corso ci stanno dicendo che la Serie A – anche alla luce delle ottime prestazioni della Nazionale di Mancini – potrebbe aver avviato un percorso simile partendo da un altro approccio, dal campo, dal gioco, dal talento dei calciatori, dal mercato. Non sarà l’unica strada, forse non è neanche la migliore possibile, ma potrebbe essere l’inizio di qualcosa. A patto di saper individuare gli aspetti positivi e di concentrarsi su quelli, limitando il più possibile di esasperare quelli negativi.