La Spagna è sempre la Spagna

La Nazionale di Luis Enrique ha raggiunto la semifinale ma l'ha fatto senza brillare, forse perché non può e non riesce a staccarsi dai modelli vincenti del suo passato.

«La nostra idea di gioco è sempre la stessa: dominare la partita, avere il pallone, recuperarlo il più presto possibile e pressare di squadra». Questo è un piccolissimo di una lunga intervista che Sergio Busquets, capitano della Nazionale spagnola a Euro 2020, ha concesso pochi giorni fa al quotidiano iberico As. Nell’intervista, il mediano del Barcellona parla di un sacco di cose, del suo tempo con la Roja, della semifinale contro l’Italia, arriva fino a raccontare la mancata convocazione di Sergio Ramos. Ma quella frase è importante perché racconta e insieme sintetizza alla perfezione lo stile di gioco della Spagna. Non solo quello di questa Spagna: quelle poche parole sono una fotografia della cultura, dell’approccio, della la filosofia calcistica di una nazione intera, ormai quasi vent’anni. È vero, Luis Enrique è diventato ct proprio con l’idea di apportare dei correttivi, di deviare leggermente dal percorso, esattamente come aveva fatto al Barcellona: il suo compito, l’ha detto lui stesso, era favorire «un’evoluzione, non una rivoluzione» nella Spagna. Ci sta provando, a piccoli passi. Ma oggi, a vedere le Furie Rosse, sembrerebbe impossibile immaginare una squadra troppo diversa dal passato, dalla sua storia recente. Insomma, la Spagna è rimasta sempre la stessa.

A Euro 2020 la Spagna ha giocato cinque partite, sempre contro formazioni tecnicamente con meno qualità, dall’approccio tattico reattivo, avversari disposti a lasciare il palleggio a Koke, Pedri e compagni. Il risultato è che finora gli Europei della Roja sono tutti condensati in azioni-fotocopia – a eccezione di alcuni momenti più wild, quasi tutti contro la Croazia – in cui gli uomini di Luis Enrique masticano il pallone in quel lungo ferro di cavallo ideale che avvolge la metà campo avversaria, con periodiche verticalizzazioni per cercare il gol, soprattutto dopo per premiare le sovrapposizioni dei terzini, i giochi a due e/o a tre con le mezzali e gli esterni offensivi. È chiaro che tutto ciò sia anche una conseguenza del fatto che, di frontek c’erano Svezia, Polonia, Slovacchia, Croazia, Svizzera. Ma dall’altro lato vale anche quello che ha scritto Jonathan Wilson sul Guardian dopo gli ottavi di finale: «Il problema è che la Spagna ha bisogno di passarsi la palla. Avevano subito solo 12 tiri nella fase a gironi, meno di tutte le altre squadre, e avevano preso solo un gol. Contro la Croazia, che pressava più forte, la Nazionale di Luis Enrique ha dovuto cedere parte del suo abituale possesso, perdendo perciò certezze e sicurezze».

Per essere davvero efficace, quindi, la squadra di Luis Enrique deve – suo malgrado? – diventare l’outlier di tutte le statistiche collettive: considerando Euro 2020, è la Nazionale con più passaggi tentati e riusciti, quella con la percentuale di possesso palla più alta, quella che ha fatto più azioni d’attacco e più conclusioni, più tanti altri primati che rendono le partite della Spagna una specie di esercitazione infinita attacco contro difesa. Non è solo un discorso tattico, ma anche psicologico, emotivo, umano: il palleggio spagnolo è diventato un destino, anche perché le nuove generazioni di giocatori spagnoli sembrano uguali alle precedenti. I giocatori della Roja di oggi non sono Iniesta e Xavi, Xabi Alonso e David Villa, ma sembrano essere stati fatti con lo stesso stampo. E allora Luis Enrique deve provare ad arrangiare una nuova Spagna modellando la stessa argilla, la stessa materia prima. Così diventa più difficile separarsi dalle versioni precedenti, anche se l’intenzione era proprio quella, almeno in parte.

Lo scorso gennaio scrivevo che in Spagna non si producono più talenti universalmente forti, ma solo giocatori di sistema. Quindi, elementi che sono ingranaggi perfetti per il gioco di posizione, ma che difficilmente potranno andare oltre i limiti di questo approccio al gioco. Se non fosse un’eresia, si potrebbe individuare il colpevole di tutto questo in Pep Guardiola: il manager del Manchester City non può considerato l’uomo che ha rovinato il calcio spagnolo – anzi, in realtà lo ha elevato più in alto di quanto chiunque potesse sperare – piuttosto l’allenatore che ha mostrato a tutti il paradiso, rendendo impossibile tornare a vivere – e a giocare – sulla Terra, come si fa sulla Terra. Alle porte degli Anni Dieci, il Barcellona di Guardiola ha di fatto inventato il calcio moderno, portando il gioco di pressing e possesso a livelli mai immaginati prima. Tutta la Liga ne ha beneficiato, il movimento nazionale è cresciuto al punto da produrre talenti esportati ovunque, ai massimi livelli – soprattutto in Premier League, per ovvi motivi economici. Solo che una rivoluzione di quel tipo può anche diventare una trappola, può determinare un blocco, perché può spingere a diventare conservatori ben oltre i propri interessi, ad affezionarsi a qualcosa che, presto o tardi, diventerà il passato, e allora si prova a tirare la corda finché non si spezza (o forse anche oltre). Non è solo una questione di vittorie raggiunte e, quindi, di inevitabile fascinazione, ma è anche un discorso di congiunture culturali: James Horncastle ha scritto su The Athletic che «nell’ultimo decennio, il gioco è diventato sempre più omogeneo. Quasi tutti i Paesi hanno in gran parte rinunciato alle proprie religioni, per cercare di riprodurre ciò che Pep Guardiola insegnava al Camp Nou, vale a dire un aggiornamento cruyffiano che è stato globalizzato come nessun altro nella storia, grazie al suo successo e all’emergere in un momento in cui i social media erano in aumento e l’accesso a i campionati stranieri, grazie alla televisione, ha raggiunto un picco».

Aymeric Laporte è il giocatore che ha effettuato più passaggi (510) di tutti i giocatori che hanno partecipato agli Europei; di questi, ne ha completati 519 con successo, 120 in più del secondo calciatore di questa particolare classifica, il suo compagno di reparto Pau Torres (Anatoly Maltsev/Pool/Getty Images)

Il problema, se vogliamo, è il progresso, è il nuovo: il calcio va avanti, e quindi una cosa che funziona viene copiata e anche riscritta, perfezionata altrove. O addirittura viene usata per farne il negativo: il gioco praticato per anni dalla Spagna, un gioco in cui il possesso del pallone viene usato come strumento per rallentare il ritmo e finisce per diventare un principio difensivo, prima che offensivo, è stato ribaltato. Questo ribaltamento ha dato vita al gegenpressing, un approccio nato ed esaltato dalla scuola tedesca dei laptop trainer. E sulla linea del tempo, siamo già intorno al 2014, al 2016, mentre invece l’ultimo successo della Spagna a livello di Nazionali è l’Europeo del 2012, quello vinto con Fábregas schierato da punta centrale (più o meno). Insomma, in virtù di tutto questo non è un caso che oggi Luis Enrique non schieri Pedri o Thiago Alcántara o anche Ferrán Torres nel ruolo di attaccante, che il delantero della Roja sia Morata, un centravanti vero per quanto atipico. Utilizzare un attaccante puro era uno degli aggiornamenti che per Luis Enrique sono stati praticamente obbligatori fin da subito. Domenica scorsa, Azpilicueta ha spiegato che Lucho «è davvero soddisfatto solo quando la sua squadra riesce a giocare ad alta intensità, tenendo i ritmi elevati per lunghe fasi di gioco». Nel calcio di oggi, sarebbe impossibile per chiunque coniugare questo stile e, insieme, replicare il possesso – anche un po’ soporifero, in certi segmenti – della Spagna di Del Bosque: quel calcio articolato e cerebrale era possibile solo in quella particolare congiuntura storica, con gli Iniesta, gli Xavi, i Fabregas e i David Silva tutti insieme, che a loro volta affrontavano avversari che non avevano ancora preso le misure a quella rivoluzione.

Oggi la Spagna si gioca una semifinale, la partita più importante da (quasi) un decennio a questa parte. Ma l’andamento del torneo ha reso evidente che l’evoluzione promessa o cercata da Luis Enrique sia ancora un work in progress, che la Spagna sia ancora legata ai miti del passato. E in un certo senso va bene così, va bene giocarsi una partita con questo peso specifico nel pieno di una transizione, di un (possibile) percorso di crescita. Un po’ perché l’obiettivo principale del mandato di Luis Enrique erano e restano i Mondiali di Qatar 2022, non questo Europeo, e un po’ perché per la prima parte del lavoro del ct, prima ancora di costruire la nuova versione della Spagna, era un’opera di decostruzione dei modelli passati, che non è ancora finita  – anche perché c’è stato più di qualche contrattempo di mezzo. Non è detto che la Spagna del futuro possa davvero distaccarsi dal suo passato, così come non è escluso che l’opera di decostruzione possa rivelarsi un’utopia. Ma per il momento ci sono anche – se non soprattutto – dei risultati da portare a casa. E un tabellone reso comodo, se non addirittura semplice, almeno finora, dall’eliminazione della Francia ha fatto in modo che Luis Enrique e i suoi uomini riuscissero a metter in mostra i propri pregi, e a nascondere i propri difetti. Insomma, per dirla in breve: la Spagna di Luis Enrique ha una mole di talento sconfinata che la tiene ancora in corsa per salire sul tetto d’Europa, ma il suo è stato un cammino accidentato, passato per rigori, supplementari e partite dominate senza riuscire a graffiare davvero. La domanda che ci si dovrebbe porre è se la Spagna, una Nazionale ancora costretta a rimanere sempre uguale a se stessa, possa tornare sistematicamente forte come la formazione che ha dominato un decennio. Le prime risposte arriveranno tra poche ore, dopo la sfida contro un avversario dal gioco simile – l’Italia di Mancini – ma che ha appena iniziato a praticarlo, e quindi vive l’entusiasmo della novità. Mentre la Spagna, invece, è sospesa tra nostalgia, incertezze e fiducia nel futuro.