Naomi Osaka ha parlato dei suoi problemi emotivi e dell’importanza della salute mentale

«Non ho niente contro i giornalisti, ma c'è un problema con le conferenze stampa».

Qualche settimana fa, il caso di Naomi Osaka ha acceso i riflettori sul rapporto tra i tennisti contemporanei e la stampa tradizionale, sublimata nella pratica delle conferenze post-partita. La tennista giapponese ha deciso di rinunciare al Roland Garros, uno dei tornei del Grande Slam, dopo le critiche ricevute per aver manifestato la sua volontà di non partecipare agli incontri obbligatori con i giornalisti dopo ogni partita. Osaka aveva raccontato i suoi problemi di depressione, aveva detto di accusare molto la pressione delle conferenze stampa classiche, ma per tutta risposta l’ATP aveva deciso di multarla; di conseguenza, l’ex numero uno del ranking WTA aveva preferito prendersi «un momento di pausa» perché non voleva essere «motivo di distrazione nel corso del Roland Garros».

Osaka è tornata a parlare della sua situazione in un articolo autografo apparso su TIME Magazine: anche in vista delle imminenti Olimpiadi di Tokyo, la tennista giapponese ha detto di aver appreso due lezioni fondamentali, una è quella per cui «non si può accontentare tutti», mentre l’altra è molto più complessa e arricchente, e riguarda il suo rapporto con la salute mentale. «Tutti, letteralmente tutti, soffrono di problemi legati alla salute mentale», ha spiegato Osaka. «Forse le mie azioni hanno confuso qualcuno, ma bisogna separare bene i piani. Io non ho niente contro i giornalisti, piuttosto contesto il formato tradizionale delle conferenze stampa: ho avuto sempre un ottimo rapporto con i media, ho rilasciato interviste individuali anche molto approfondite, però non sono una sportiva con una preparazione specifica per interagire con i media, tra me e loro non c’è alcun filtro, cerco di rispondere sempre sinceramente, col cuore. Proprio per questo, a mio parere, il formato delle conferenza stampa in sé è obsoleto e ha urgente bisogno di essere aggiornato. Credo che possiamo renderlo migliore, più interessante e più divertente per tutti. Meno soggetto contro oggetto, più peer to peer».

Per Osaka, molti giornalisti non erano e non sono d’accordo con la sua visione, perché «secondo loro la tradizionale conferenza stampa è sacra e non va messa in discussione». Ma il suo problema resta circoscritto: «Non avrei voluto capeggiare la rivolta, né tantomeno creare un precedente. Anzi, sembra che nessuno, dopo quanto successo a me, abbia saltato un incontro con i media. La mia intenzione era quella di guardare al mio e al loro lavoro in maniera critica e costruttiva: volevo preservare la mia salute mentale esercitando la cura di me stesso. Certo, so che ci sono degli impegni da rispettare fuori dal campo e che essere un giocatore di tennis è una posizione privilegiata, però mi sembra che nessun altro sportivo abbia degli obblighi così consistenti nei confronti della stampa. Forse è giunto il momento di dare agli atleti il ​​diritto di prendersi una pausa, di non partecipare ad alcune conferenze stampa senza essere soggetti a sanzioni severe. In qualsiasi altro tipo di lavoro, saresti perdonato per aver trascorso una giornata personale qua e là, purché non sia abituale. Il mio suggerimento numero uno è proprio questo: sarebbe giusto concedere un piccolo numero di “giorni di malattia” annuali in cui i tennisti sono esonerati dai loro impegni con la stampa, e non devono dare spiegazioni. Credo che questo porterebbe il nostro sport in linea con il resto della società».

Al termine del suo articolo, Osaka ha spiegato di essere «una persona molto introversa, che non brama la luce dei riflettori. Quando ho parlato dei miei problemi ai dirigenti del Roland Garros e dell’ATP, nessuno mi credeva. Non lo auguro a nessuno, e spero che si possano varare misure a tutela degli atleti, soprattutto quelli più fragili. Inoltre, vorrei non dover essere oggetto di un esame approfondito in merito alla mia storia medica personale, mai più. Quindi chiedo alla stampa un certo livello di privacy ed empatia la prossima volta che ci incontriamo. Ognuno di noi vive momenti difficili, ha a che fare con problemi che stanno dietro la propria immagine pubblica. Per quanto posso, cerco sempre di spiegarmi bene e di parlare di temi che ritengo importanti, ma questo mi mette ansia, mi fa sentire a disagio. Non ho tutte le risposte e quindi non posso essere un portavoce per gli atleti che hanno problemi di salute mentale, però spero che le persone e la stampa capiscono che è giusto e possibile non stare bene, ed è giusto e possibile discuterne. Micheal Phelps, una volta, mi ha detto che parlare pubblicamente di questi temi può voler dire salvare una vita. Se è vero, ne è valsa la pena».