«Ogni cosa che fai evita che tu ne faccia un’altra che magari poteva essere fantastica». Simpatico. L’ultimo dei romantici, il documentario su Massimo Moratti prodotto e realizzato da Dazn – disponibile da venerdì 20 agosto – comincia con un understatment, un’umana presa di coscienza che si può sempre fare meglio di quello che si è fatto, che cattura l’anima dell’ex presidente dell’Inter, ormai anziano ma ancora lucidissimo, meglio di qualsiasi autoritratto di Van Gogh.
Tifo Milan, eppure l’altra sera mi sono emozionato rivivendo i ricordi dei cugini dell’altra sponda del Naviglio durante i 18 anni della proprietà Moratti. Naturalmente non è una cosa che mi capita spesso. E il valore di Simpatico è tutto qui, in un amico che mi scrive «se facessero una roba così sul Milan mi piacerebbe anche da interista», perché il documentario racconta l’Inter che prima «non vincete mai», poi era Pazza e infine è diventata campione d’Europa, sì, ma racconta soprattutto un presidente che ha gestito una società di calcio come se fosse un tifoso fra tanti, ha ascoltato la pancia invece della testa, e forse qualche volta ha detto sì quando doveva dire no, e per questo ha vinto meno di quanto avrebbe meritato.
Sono cresciuto che la Juventus era di Agnelli, il Milan di Berlusconi e l’Inter di Moratti, binomi che sembravano inscindibili, una sicurezza novecentesca tutta italiana che a lungo abbiamo dato per scontata e che tramortisce rispetto alla realtà di questi giorni. Proprio venerdì scorso, nella sua newsletter, il corrispondente del calcio europeo per il New York Times, Rory Smith, si è occupato dell’attuale situazione finanziaria dell’Inter. «Quello che è successo, da un giorno all’altro, all’Inter – e quello che è successo, ancora più drammaticamente, al Jiangsu – è quello che succede quando i club vengono comprati e venduti non per perseguire la gloria sportiva o anche, per quanto possa essere sgradevole da dire, il profitto finale. È quello che succede quando il calcio si lascia usare per la politica e per la postura e, soprattutto, per il potere», ha scritto. Moratti invece non ha cercato alcun potere. Ha speso oltre un miliardo di euro per perseguire la gloria sportiva, la felicità personale, che poi era anche la felicità di tutti i tifosi interisti, perché come dice Pierluigi Pardo nel documentario quella tra Moratti e l’Inter «è una storia strettamente familiare, intima, privata».
Non a caso Samuel Eto’o lo definisce tutt’oggi «papà Moratti». Ha trattato i suoi calciatori come dei figli, qualcuno fin troppo (ancora si emoziona parlando di Recoba), ma l’ha fatto con un garbo e una serietà da padre d’altri tempi. È ancora Eto’o a spiegare che durante la loro prima telefonata Moratti parlava un francese perfetto, senza accento italiano, mentre «generalmente gli stranieri che parlano francese hanno il loro accento. Lui invece nulla». Sono questi i dettagli che fanno la differenza in una trattativa, e che a volte fanno vincere il Triplete.
Nel primo episodio di Simpatico, Moratti racconta che prima ancora di trasferirsi all’Inter nel 1997, quand’era ancora un attaccante del PSV Eindhoven e sarebbe poi passato al Barcellona, Ronaldo lo andò a trovare nel suo ufficio di Milano insieme alla sua fidanzata dell’epoca, come un figlio che accetta l’invito a pranzo dei genitori per presentargli la sua nuova ragazza. Ronaldo è il fulcro dei primi anni della presidenza Moratti all’Inter, nel bene della Coppa Uefa del 1998 e nel male del 5 maggio 2002. La sconfitta dell’Olimpico ha un grande spazio nel documentario, e probabilmente è stata la pietra sulla quale è stata costruita l’ultima parte della storia nerazzurra dell’ex presidente, quella dei trionfi. «Quella partita mi ha aiutato a essere non umile, ma quasi. Non avevo tante difese, dovevo solo chiedere scusa», ammette Moratti. «Così ho fatto. E così abbiamo fatto tutti della squadra. Quando tocchi il fondo, c’è qualcosa che ti spinge e ti dice: da adesso in poi andrà certamente bene». Il 5 maggio l’Inter ha perso, ma ha capito come vincere in futuro.
Due anni fa, a marzo 2019, Moratti rilasciò una lunga intervista all’edizione milanese del Corriere della Sera. I modi in cui decise di comprare Javier Zanetti e Wesley Sneijder meriterebbero un’ospitata da Lundini più che un documentario di Dazn. «Avevo notato un giovane terzino destro, Zanetti. Mandai Suarez e altri collaboratori in Argentina», raccontò sull’attuale vicepresidente nerazzurro. «Una notte mi chiamarono: “Noi procediamo, ma è sicuro?”. Risposi di attendere cinque minuti. Svegliai uno dei miei figli e gli dissi di mettere su al volo una videocassetta. Presi il telefono e ordinai di acquistare Zanetti». Sneijder, invece, fu il consiglio di un barista: «Mi fermò a Forte dei Marmi. “Presidente, ci manca un unico giocatore. Quello che darà le accelerate decisive in mezzo al campo. Sneijder”. Parlò con tale forza persuasiva che io, per non commettere errori, chiamai Branca chiedendogli di sentire Mourinho. Branca richiamò e disse che Mou aveva esclamato: “Magari!”. Partimmo con la trattativa, che si sbloccò anche perché al Real Sneijder non trovava spazio. Quel barman non l’ho più rivisto. Lo volevo ringraziare».
Chi fa così il calciomercato oggigiorno? L’Inter di Moratti è stata passione, impulsività, anche ingenuità, un amore di quelli in cui metti tutto te stesso e non è detto che verrai ripagato allo stesso modo. «Sono stato un presidente più romantico e meno razionale?», si chiede ancora Moratti in Simpatico. «Se chiamiamo romantico il fatto che il sentimento abbia un’importanza notevole nelle decisioni, allora sì. Uso anche del sentimento nelle decisioni». In questi trent’anni il calcio è cambiato, non del tutto in peggio come si ostina a pensare qualcuno. Ma non ci sono più presidenti come Massimo Moratti.