Cristiano Ronaldo, la Juventus e la fine di un amore imperfetto

CR7 si è sempre sentito al di sopra di tutto, mentre la Juventus voleva una scorciatoia, voleva semplificare la sua strada. Cosa resta di questi tre anni così intensi?

Non c’è cattiveria nel merito né crudeltà nel metodo della decisione di Ronaldo di lasciare la Juventus: la razionalità è impassibile ed è interessata ma non si compiace dell’altrui sofferenza, né della propria indifferenza. Sono sicuro che Ronaldo non avesse nessuna intenzione di sembrare così cattivo nei confronti della Juve: avrà semplicemente – razionalmente – deciso che questa squadra non era il finale adatto per il film basato sulla sua vita, come sono sicuro che i diritti per la trasposizione cinematografica della carriera di CR7 siano al sicuro nella procura di Jorge Mendes. A spingerlo a lasciare la Juve deve essere stata la stessa componente robotica che a Torino lo aveva portato tre anni fa: quella componente che gli notifica in qualsiasi momento l’esatto rapporto tra grasso e muscolo nel suo corpo, che gli calcola il numero minimo di palloni che deve toccare in ogni partita per raggiungere il numero desiderato di gol alla fine della stagione, che gli fa sapere sempre cosa è meglio per lui. E siccome una cosa non può essere allo stesso tempo se stessa e il suo contrario, Ronaldo non può essere sia regale (come spesso è stato descritto in Italia, dove il racconto della grandezza è fatto di idolatria finché conviene e di dannazione appena si può) che venale quando nelle sue scelte segue sempre la stessa stringentissima logica.

Tre anni fa la Juve era la scelta perfetta: chiudere la sua straordinaria storia da calciatore vincendo una Champions League più importante per gli altri (squadra, società, città) che per lui era il finale giusto, era un gesto di altruismo alla fine di una carriera che ne ha fatto il più grande solista, il più impenitente egoista della storia del pallone. Tre anni dopo, quello al Manchester City e quello al Manchester United sono entrambi finali giusti allo stesso modo: perché, nel primo caso, Ronaldo è quello che vive abbastanza a lungo da diventare il cattivo, nel secondo è quello che finisce da eroe. Che alla fine sia tornato ai Red Devils è del tutto irrilevante, come è del tutto irrilevante il retroscenismo che lo vuole convinto dai messaggi di compagni di squadra di oggi e di ieri, da Rio Ferdinand a Bruno Fernandes: è successo perché alla fine era l’unica cosa che poteva succedere, leggeremmo le stesse storie se fosse andato a stringere la mano a Guardiola all’Etihad o ad abbracciare Messi al Parco dei Prìncipi.

Questo ragionamento può andar bene finché non si tifa per la Juve, ovviamente: in questo caso è giusto che Ronaldo sia cattivo nel merito e crudele nel metodo. Anche perché questa spiegazione fa arrabbiare ma l’altra mette tristezza. L’altra spiegazione è quella secondo la quale tra Ronaldo e la Juve non c’è mai stato niente di quello con cui ci piace, ci serve imbellettare i rapporti tra noi che tifiamo per le squadre e i calciatori che per le squadre ci lavorano. Business, just business, e forse è questa consapevolezza nascosta ma conosciuta ad aver reso il rapporto tra Ronaldo e la Juve quello che doveva essere, nulla più: azione e reazione, stimolo e risposta, Ronaldo segnava e urlava “siuuuuu”, i tifosi esultavano e urlavano “siuuuuu”, ma la sensazione era che tra loro e lui ci fosse un cuscinetto di imbarazzo per l’inevitabilità della cosa, uno strato di fastidio per le continue concessioni all’ego, un impaccio che rimane sempre quando ci si ritrova un vip in famiglia – e che quindi in famiglia non ci entrerà mai davvero. Nei suoi messaggi di addio, ovviamente via social cioè via terzi, se non proprio di altri, Ronaldo ringrazia i «tiffosi» bianconeri e dice «grazzie» alla Juve: una sciatteria insopportabile per un uomo che dell’immagine ha fatto sostanza. Probabilmente il torto più grande che Ronaldo ha fatto alla Juve è stato questo: considerarla meno di sé e al di sotto di sé. Ronaldo ha minato le certezze degli juventini con quel suo volersene andare immediatamente che ha costretto Allegri a cantare la canzoncina consolatoria che fa «i giocatori vanno e vengono, la Juve resta». Ronaldo ha incrinato la fierezza degli juventini con quella sua disponibilità a guadagnare la metà pur di andarsene: va a finire che è mercenario se resta e non se va via, questa eventualità non è coperta nel manuale dell’indignazione, cosa dice lo statuto dei contestatori in questi casi? Ronaldo ha spezzato il rapporto fiduciario che c’è (c’era?) tra i tifosi e i manager della Juve, e nello spazio di questa rottura è cresciuto il dubbio terribile che il migliore di loro, dei manager, fosse quello che oggi lavora per l’Inter e che avrebbe lasciato Ronaldo al Real Madrid se la decisione fosse stata concessa a lui.

Commentando i fatti di questi giorni, Paolo Condò ha detto che alla fine tra CR7 e bianconeri la storia è durata un anno. Forse anche meno, forse Ronaldo e la Juve hanno ballato assieme fino alla partita di Amsterdam o fino alla tripletta contro l’Atlético. Forse l’acredine con cui si lasciano oggi è conseguenza della pazienza con cui si sono sopportati fino a ieri, incastrati in un rapporto che non aveva nemmeno la bontà di andar male abbastanza da giustificare il ricorso al conscious uncoupling. Chissà non sia questa la ragione per la quale vedere il riepilogo numerico degli anni di Ronaldo alla Juve è fastidioso: non è quello il punto, non è quello che è mancato. Se la scorsa non fosse stata una stagione di partite giocate nel silenzio, magari avremmo capito tutto prima e meglio. Un amico juventino che si lamenta di Ronaldo ce lo abbiamo tutti, d’altronde. Ma un amico non è un campione statistico affidabile, uno stadio invece sì. E se avessimo sentito il mugugno dagli spalti all’ennesimo doppio passo che si conclude con un passaggio all’indietro per il compagno più vicino, forse ci saremmo accorti che le concessioni all’ego rimanevano le stesse nella quantità ma diminuivano nella qualità. Forse Cristiano Ronaldo e la Juventus hanno davvero ballato assieme solo quando lui era ancora al Real Madrid: il momento più autentico, più sincero, più romantico tra le parti è stata quella rovesciata seguita da quell’applauso degli juventini a Ronaldo, di Ronaldo agli juventini. Forse tutto ciò che è venuto dopo è stato solo un incidente favorito dalle circostanze.

Di cosa si preoccupa Ronaldo adesso? Di quello di cui si è preoccupato sempre: della cosa più grande che c’è, cioè di sé stesso. E anche in questo caso: una cosa non può essere se stessa e il suo contrario. Se tre anni fa Ronaldo era quello che serviva alla Juve perché le partite era capace di vincerle da solo (che poi questo non sia mai stato vero era un discorso che aveva senso fare all’epoca e che oggi è invece giusto trascurare), tre anni dopo non può essere stato quello sbagliato perché ha sempre giocato come se in campo fosse da solo. Accusarlo oggi di aver frenato la crescita di Dybala, di non aver fatto da mentore a Chiesa e Kulusevski, di non essere andato a mangiare la pizza con Bentancur, Rabiot e Ramsey (più una serie di chicche dei giornalisti bene informati che, naturalmente, vengono rivelate solo ora e che proprio per questo non meritano nemmeno di essere conosciute) sa di tifosi feriti, di pezzi di pane che non hanno resistito perché lui se ne è andato. Non era quello il piano e soprattutto non era quello il patto: Ronaldo era quello che mancava tre anni fa e non lo si può accusare di essere quello che è mancato tre anni dopo. Ha giocato sempre e ha segnato tanto, e questa è una verità. Solo che di verità ce n’è anche un’altra, e dice che Ronaldo ha dato tutto e che comunque non è stato abbastanza. Ed è una verità dolorosa da accettare perché misura la differenza tra la Juve e la percezione che la Juve ha (aveva) di sé: non è bastato Cristiano Ronaldo a colmare la distanza tra l’una e l’altra.

Nei suoi tre anni alla Juventus, Ronaldo ha accumulato 134 presenze e 101 in competizioni ufficiali; ha vinto due scudetti, una Coppa Italia e due Supercoppe Italiane (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Cos’è che Ronaldo voleva dalla Juve? Ronaldo voleva un luogo in cui le sue vanità venissero portate costantemente, entusiasticamente in fiera: voleva dalla Juve quello che Rossi aveva avuto dalla Yamaha dopo aver lasciato la Honda, voleva quello che aveva avuto LeBron James tornato a Cleveland dopo aver portato i suoi talenti a South Beach, voleva quello che aveva avuto Federer dopo essere tornato in testa alla classifica ATP alla soglia dei 37 anni. Voleva la dimostrazione di essere più grande del contesto, più importante del resto, più rilevante del gioco stesso, una cosa che il Real Madrid, quel Real Madrid, non gli aveva dato e non avrebbe potuto dargli. Voleva un posto in cui nessuno gli ricordasse la differenza tra i calci di punizione da lui tirati e quelli da lui segnati, in cui a nessuno venisse in mente di insinuare tiratori di punizioni e rigoristi decisi nello studio di un notaio. Voleva una squadra in cui nessuno si azzardasse a ricordargli che l’unico modo che un attaccante ha per rallentare il tempo è avvicinarsi alla porta, che il solo modo per evitare di perdere colpi è spararne di meno: «Gli altri a 32, 33, 34 anni sono finiti. Io no», disse durante la conferenza stampa di presentazione. E aveva ragione lui, non era e non è finito. Solo che questa verità ne contiene una più profonda, confermata da questi tre anni juventini: nessuno è più grande del gioco stesso, nemmeno Ronaldo che non era e non è finito. E quindi sì, in questo senso CR7 è stato un flop: le ambizioni erano assolute e i successi sono stati relativi, e anche in questo caso non si può essere una cosa e il suo contrario, monarchi assoluti e cittadini comuni. Non si può essere il Greatest Of All Time e lasciare la Juve con l’umiltà posticcia di una dichiarazione che fa «alla fine possiamo guardarci indietro e vedere che abbiamo fatto grandi cose, non tutto quello che volevamo ma abbiamo comunque scritto una bellissima storia insieme». La frustrazione viene da questa sensazione che lui sia soddisfatto davvero: poteva andare meglio ma non è andata manco male. Per me. «Sarò sempre uno di voi. Voi siete ora parte della mia storia come io sento di essere parte della vostra», dice Ronaldo in un messaggio che è il più grande saggio sul solipsismo mai scritto.

Cos’è che la Juve voleva da Ronaldo? Ovviamente la Champions, probabilmente la luce riflessa, segretamente una pausa. Un momento che fosse facile perché l’analisi era semplificata: vittoria e sconfitta ridotti a un giocatore soltanto, al solo Cristiano Ronaldo. Un intervallo di pigrizia alla fine di un decennio di fatica, indispensabile per ripartire ma impossibile senza fermarsi. Ronaldo era il solo mezzo per raggiungere il fine, l’unico giocatore abbastanza grande da essere allo stesso tempo, per le stesse ragioni, G.O.A.T e capro espiatorio: se si vince è certamente merito suo che è il più grande di tutti i tempi, se si perde non è affatto colpa di chi lo ha circondato di mediocrità. E forse Cristiano Ronaldo e la Juventus almeno questa cosa se la sono data davvero, lui e lei, lei a lui: hanno costruito un rapporto veramente paritario in cui sono stati l’uno la speranza dell’altra, l’uno la giustificazione dell’altra, l’uno il peso dell’altra e, adesso, l’uno la liberazione dell’altra.