Manifesto del nuovo mediano

Come sono cambiati i centrocampisti di rottura, oggi? Sono diventati calciatori tecnici, in grado di fare i registi ed essere determinanti anche in attacco.

La prima mossa tattica di Zinédine Zidane allenatore, subito dopo aver sostituito Rafa Benítez sulla panchina del Real Madrid, fu il passaggio dal 4-2-3-1 al 4-3-3: di conseguenza, uno dei grandi talenti offensivi del Real – James Rodríguez, per l’esattezza – fu sacrificato, vide ridursi il proprio spazio in campo a vantaggio di Casemiro. La promozione del brasiliano, il suo utilizzo e il suo grande rendimento come pivote, come scudiero di Kroos e Modric, uniti alle vittorie in serie del Real Madrid, alimentarono l’eterna suggestione per cui una grande squadra non può mai rinunciare a un centrocampista di rottura, a un mediano vecchio stampo in grado di coprire gli spazi lasciati liberi dai giocatori d’attacco. Anche Sid Lowe, sul Guardian, parlò di quella decisione accostandola alla storia immarcescibile del gioco, a quella della sintonia perpetua tra Zidane e Makélélé, dipinse Casemiro come «il giocatore diligente e disciplinato che serve a mascherare, o quantomeno a tamponare, i limiti del Real Madrid».

È tutto vero, ci mancherebbe. Ma è solo una parte del tutto. Nello stesso articolo, infatti, c’erano anche alcune dichiarazioni piuttosto interessanti di Julen Lopetegui: l’attuale allenatore del Siviglia, che aveva lavorato con lui al Porto, spiegava che «Casemiro è un giocatore intenso, che ha carattere, che vince molti duelli corpo a corpo. Ma è anche un centrocampista di qualità, bravissimo a cambiare gioco e a servire passaggi interni che tagliano il pressing avversario». Ecco, questo è un concetto importante. È una chiave, o meglio una lente attraverso cui è possibile vedere e capire la modernità del gioco: in effetti Casemiro era – ed è ancora – un ragionatore ordinato, un centrocampista che corre tantissimo e difende benissimo, che sa posizionarsi in campo, ma era – ed è ancora – anche un calciatore dalla tecnica non scontata, in grado di controllare e smistare il pallone, sul corto e sul lungo. Sì, certo: è ovvio che anche Makélélé e gli altri mediani di rottura del suo tempo – Gattuso, Roy Keane, Cambiasso –  avessero dei valori tecnici importanti ben oltre la corsa e la foga agonistica, che fossero giocatori molto più dotati di quanto riusciamo o vogliamo ricordare. Da allora, però, le cose sono cambiate moltissimo. Sono migliorate moltissimo, se le guardiamo da una certa prospettiva: oggi i centrocampisti di rottura sono dei calciatori completi, e molto spesso sono anche bellissimi da veder giocare col pallone tra i piedi. Ma come e perché è avvenuto questo cambiamento?

Come tutti i fenomeni umani, anche la tattica calcistica segue un’evoluzione che tende alla complessità, alla sofisticatezza. Nel caso specifico, gli allenatori contemporanei hanno compreso che l’approccio migliore per vincere le partite è controllare il più possibile ogni situazione di gioco, limitando così gli eventi fortuiti o incidentali. Secondo le statistiche, uno degli strumenti migliori per realizzare questa pretesa di dominio dell’imprevedibilità è il possesso palla, ed è per questo che i portieri e i difensori moderni devono avere maggiori qualità tecniche rispetto a quelli del passato. È un discorso che vale anche per i centrocampisti, anzi soprattutto per loro: qualsiasi squadra che coltivi anche la minima ambizione tattica deve per forza affidarsi a dei giocatori che, nel reparto di mezzo, siano in grado di andare oltre i passaggi elementari, sappiano condurre e muovere il pallone e puntare un avversario, abbiano caratteristiche tali da renderli spendibili, anzi utili ed efficaci, anche in fase offensiva. In realtà i rapporti di forza dei vari sistemi tattici sono quasi del tutto ribaltati: da tempo, ormai, le squadre più forti utilizzano il possesso palla come strumento difensivo, prima che di costruzione del gioco. Ed è una condizione che appartiene a tutti, non solo a chi pratica un calcio spettacolare e/o spregiudicato: uno dei primi allenatori a teorizzare e a mettere in pratica l’idea per cui i giocatori debbano riposarsi col pallone tra i piedi, così da minimizzare i rischi, è stato José Mourinho. Non proprio un tecnico dal gioco spumeggiante, se vogliamo apporre un’etichetta sul faldone che porta il suo nome. In seguito è arrivato Guardiola, con la famosa regola dei 15 passaggi necessari per riordinare i calciatori in campo, perché possano tornare a disporsi secondo il loro assetto migliore in vista dell’azione seguente. Era la stessa idea, solo declinata secondo una visione più offensiva, meno speculativa.

Anche le squadre e gli allenatori che non desiderano attaccare tenendo molto il pallone hanno dovuto imparare a governarlo, così da poter governare i ritmi delle partite: al termine della prima stagione con Klopp in panchina, ovvero il 2015/16, il Liverpool non si è qualificato alla Champions League e ha fatto registrare un possesso palla medio inferiore al 55%; nella stagione 2019/20, quella del trionfo in Premier dopo la vittoria della Champions, la stessa percentuale era salita fino al 60%, con una punta a quota 63% nelle gare internazionali. Merito degli acquisti fatti per gestire meglio la fase di costruzione: Alisson, Van Dijk, Fabinho, una cerniera dalla porta al cuore del centrocampo. Ecco, proprio la figura di Fabinho è perfetta per raccontare i mediani di rottura dell’era contemporanea: il suo fisico statuario (188 cm per 80 kg secondo Wikipedia) e il suo fantastico senso della posizione lo rendono un interdittore quasi insuperabile, eppure Fabinho è anche un giocatore molto valido dal punto di vista tecnico, che alterna lanci lunghi sulle fasce a intelligenti passaggi rasoterra, che sa aggirare gli avversari nello stretto pur senza possedere grande velocità.

Un altro calciatore che racconta la stessa evoluzione pur avendo un corpo e un approccio al gioco completamente diversi è N’Golo Kanté: il francese del Chelsea è l’erede dei grandi centrocampisti box-to-box del passato, è un passista del calcio che corre sempre ad alto ritmo, che insegue tutti gli avversari e calamita tutti i palloni, un marcatore onnipresente e asfissiante il cui moto perpetuo ricorda quello di Gennaro Gattuso, ma solo relativamente alla fase difensiva; sì, perché allo stesso tempo Kanté dimostra – ormai da anni – di essere un’arma offensiva micidiale, non solo per la sua corsa apparentemente infinita, ma anche per il modo in cui conduce la palla e affronta gli avversari, per la capacità di leggere i movimenti dei compagni e poi di servirli con i tempi giusti. Nella semifinale d’andata della Champions League 2020/21, giocata contro il Real Madrid, il francese ex Leicester è stato il giocatore che ha completato più dribbling in assoluto (6), il secondo per numero di palloni giocati (80) e quello che ha compiuto più inserimenti nell’area di rigore avversaria. E questi numeri e certe prestazioni sono abbastanza frequenti, per lui.

Se il gioco e lo stile di Fabinho oppure di Kanté non rispecchiano l’ideale storico di regia tecnica e illuminata, le prime partite di Franck Zambo Anguissa con il Napoli devono far riflettere su quanto sia anacronistica, ormai, l’idea per cui un centrocampista di movimento, dal grande impatto atletico, non sappia o non possa organizzare il gioco: Anguissa è un calciatore dinamico, tecnicamente ambizioso – con il 77% dei dribbling riusciti è tra i migliori in Serie A in questa particolare graduatoria – e durissimo da sconfiggere nei contrasti fisici; queste cifre e certe sensazioni farebbero e fanno di lui un’eccellente mezzala, solo che Anguissa è bravissimo anche a dirigere il traffico, a farsi dare e smistare il pallone con intelligenza, a cadenzare il ritmo della sua squadra alternando sagge pause e improvvise verticalizzazioni, in base all’andamento delle partite: in quella contro la Sampdoria, per esempio, il camerunese del Napoli ha giocato il pallone per 90 volte, una quota “alla Jorginho”, solo che Anguissa non è considerato un regista classico come l’italobrasiliano. Ecco, questo è un retaggio culturale che andrebbe abolito, perché forse è arrivata l’ora di pensare che fare regia è un compito che può essere eseguito a tutto campo, e non solo da un giocatore in posizione centrale – e infatti anche Jorginho, è diventato molto più mobile e imprevedibile, soprattutto rispetto agli anni vissuti proprio a Napoli.

Tanti altri giocatori confermano questa tendenza: Kessié ha iniziato da difensore centrale mentre Veretout era un trequartista, oggi sono entrambi dei centrocampisti di quantità e governo e inserimento indispensabili per gli equilibri di Milan e Roma; Nicolò Barella ha le caratteristiche tecniche e il temperamento dei vecchi mastini di centrocampo, ma è sempre decisivo con i suoi ripetuti movimenti ad allargare il campo, dentro o a ridosso dell’area avversaria; Marco Verratti, il gemello di Barella in Nazionale, è ancora uno dei palleggiatori più raffinati d’Europa, ma è diventato anche un formidabile recuperatore di palloni, un centrocampista che usa il suo corpo sgusciante e la sua tecnica superiore per difendere la propria porzione di campo, prima che per consolidare il possesso e ribaltare l’azione; l’incredibile Bayern Monaco degli ultimi anni ha schierato Kimmich e Goretzka nel doble pivote davanti alla difesa, ovvero due calciatori muscolari e dinamici, ma anche di grande qualità nelle rifinitura, negli inserimenti offensivi; tutti i mediani della Generazione Zeta – i vari Tonali, Tchouaméni, Locatelli, Rodri, Bennacer, Ndidi – rifuggono la staticità o il timore di superare la metà campo, di proporsi in avanti, sono delle armi tattiche che sanno cambiare il destino delle loro partite, la storia delle loro squadre, che orientano le scelte dei loro allenatori esattamente come facevano e fanno i trequartisti, gli esterni d’attacco, i centravanti puri.

Insomma, la decisione di schierare un centrocampista in più, oppure un mediano dalle spiccate doti fisiche, che sia Casemiro, Anguissa, Kanté o Tchouaméni, non può e non deve essere banalizzata, non può più essere considerata una scelta puramente difensiva, fatta solo in nome dell’equilibrio: certe letture e certe categorie a compartimento stagno cono ormai superate dal tempo, perché i grandi calciatori di oggi sono molto più completi rispetto a quelli del passato, ed è un discorso che vale per tutti, nel senso che non esistono barriere preventive legate alle misure antropometriche, al ruolo teorico, ai movimenti preferiti. Stiamo vivendo una democratizzazione della tecnica e del gioco offensivo che ha cambiato e sta cambiando il calcio, l’ha reso più spregiudicato e quindi ha reso più completi i calciatori, anche a centrocampo. A questo punto viene da dire: per fortuna.