Nella gabbia di Allegri

Il Gabbione è un particolare campo sul mare parte integrante dell’identità di Livorno. Per Massimiliano Allegri, che ci è cresciuto, è anche la base della sua filosofia calcistica.

Un soffio di libeccio mitiga il clima di una giornata di estate a Livorno. Camminando sul lungomare di viale Italia, e guardando verso il frastagliato panorama degli stabilimenti balneari, si stagliano con regolarità i profili metallici di grandi gabbie. Per i pochi forestieri che transitano da queste parti, la vista non è delle più suggestive. Per molti livornesi, invece, quelle chiazze perlopiù grigie e scure sparse a macchia di leopardo sul litorale sono il simbolo della stagione estiva. La più celebre si trova ai Bagni Fiume, un lido costruito nel 1918 dal commendator Tito Neri. Il Gabbio- ne nacque qui a metà degli anni Cinquanta, grazie a un’intuizione di Armando Picchi, storico capitano della Grande Inter di Helenio Herrera. Picchi, che d’estate ritrovava le sue radici labroniche, tra una caciuccata e un bagno in mare voleva tirare qualche calcio al pallone senza disturbare chi intendeva godersi il sole sui lettini. Insieme a un gruppo di amici, con l’attitudine artigianale degli uomini di un tempo, decise di recintare il campo da basket con delle reti da pesca e usare lo spazio delineato dai sostegni del canestro come porticine. Mai avrebbe immaginato che quell’opera rudimentale sarebbe diventata un tratto distintivo della sua città, un gioco amato e diffuso, lo spunto per un celebre spot di un brand leader dell’abbigliamento sportivo e un modello replicato dagli allenatori del futuro.

Passando per quelle gabbie artigianali, nelle estati degli anni Sessanta, si poteva incontrare gente come Suarez e Mazzola, Corso e Facchetti, campioni e compagni di Picchi nella Grande Inter che dai palcoscenici internazionali si ritrovavano a martoriare i loro preziosissimi piedi sul cemento di quei campetti recintati. Oggi il ritratto di Picchi in maglia nerazzurra campeggia all’ingresso dello stabilimento e sulla grata centrale del Gabbione dei Bagni Fiume, dove, il 28 maggio scorso, si è tenuta una gabbionata commemorativa per ricordarlo, a 50 anni dalla morte. Tra gli ospiti c’era Massimiliano Allegri, che il giorno prima aveva firmato il contratto che lo ha legato di nuovo alla Juventus dopo due anni di separazione.

«Non era scontato che venisse. Non so in quanti l’avrebbero fatto», dice Armando Neri, 58 anni, nipote di Tito e titolare dei Bagni Fiume. Definire Allegri ospite, tuttavia, è fuorviante. Appena arrivato si è fatto largo tra la fiumana di giornalisti per andare ad abbracciare Neri. «Ogni volta che torna qui è lo stesso di sempre. Quello che passava le giornate al lido, tra gabbione, scottature, e prese in giro con tutti, come è tipico di noi livornesi. “Acciuga” e Allegri allenatore della Juventus cinque volte campione d’Italia sono la stessa persona». D’estate i livornesi fanno le valigie e si trasferiscono negli stabilimenti balneari, costruiti come se fossero villaggi turistici. Case a tutti gli effetti, e quella di Allegri era ai Fiume.

«Non ho inventato niente, il merito è di quei ragazzini che giocavano nei lidi a Livorno. Semmai sono stato il primo a scopriro e a utilizzarlo in modo scientifico negli allenamenti», rispose Corrado Orrico a chi gli chiedeva cosa diavolo fosse quella gabbia che non solo esigeva venisse costruita nel centro di allenamento di tutte le squadre in cui andò, ma che arrivò a mettere come clausola nei suoi contratti. Un interesse successivamente condiviso da tecnici come Arrigo Sacchi, Marcello Lippi e Luigi Maifredi. Il Gabbione ha poche regole. Si gioca quattro contro quattro in un campo di circa 25 metri per dieci, delimitato nella parte più bassa dal muro e in quella più alta da grate e reti metalliche che fungono da sponde. Non esiste un “fuori”. Le due porticine alle estremità del campo, che misurano un metro e mezzo di lunghezza per circa due di altezza, possono essere difese da portieri a cui però non è concesso usare le mani, pena un rigore che viene calciato a porta libera da metà campo. Le partite durano 40 minuti, che in questo frullatore infernale sono un tempo infinito. Anche perché, negli anni, alla gabbia è stato aggiunto un tetto per evitare che il pallone finisse in mare, togliendo così l’unico momento per rifiatare.

Allegri è nato e cresciuto nel Gabbione. È stata la culla della sua infanzia calcistica, e ancora oggi, appena ne ha l’occasione, viene a chiudersi in quello che per lui resta uno spazio intimo. Da queste parti, d’altronde, funziona così. «Nel Gabbione ci entri per la prima volta a tre anni e puoi uscirne anche a 70», spiega Neri. È naturale pensare che nonostante gli anni di calcio ad alti livelli, prima da giocatore e poi da allenatore, i retaggi delle dinamiche che muovono il gioco nel Gabbione abbiano forgiato e influenzato la sua visione. Anche perché è difficile trovare un allenatore con lo status di Allegri che più di lui abbia costruito un’immagine pubblica così fortemente ricondotta alla propria terra. Ogni intervista, dichiarazione, conferenza stampa è intinta in evocazioni dirette o indirette della sua identità livornese. Che si tratti della sua passione giovanile per i cavalli, di modi di dire o abitudini provinciali, tutto ciò che Allegri comunica è legato a doppio filo con la sua città e la sua biografia. Allegri guarda il mondo e vede Livorno. Il Gabbione l’ha usato per descrivere il suo rapporto mistico con la vittoria: «Nella vita esistono le categorie: ci sono allenatori che vincono ed altri che non vincono mai. Nel Gabbione i tornei li vincevo tutti, ne ho perso solo uno: ci sarà stato un motivo».

Mario Simonti, detto “Cicio”, è stato suo compagno in molti di questi tornei, oltre ad averlo allenato nelle giovanili dell’Armando Picchi. Esile e sotto il metro e settanta, Simonti ha 65 anni, il volto dell’uomo di mare, e un taglio della bocca che gli disegna un ghigno anche quando è serio. Sarà un piacere vederlo dentro la gabbia un’ora dopo, con lo slip azzurro e le Superga ai piedi, muoversi con dinamismo tentacolare e sapienza tattica, non sbagliare un passaggio o una scelta. «È vero che vincevamo sempre. Perché eravamo più bravi, ma anche perché sapevamo gestire i momenti. Cosa che al Gabbione è fondamentale. Ci sono lunghe fasi di non possesso a difesa della propria porticina, e altre in cui bisogna sfruttare le occasioni», racconta. Basta assistere a una gabbionata per rendersene conto. Le dimensioni ridotte del campo e la presenza di un portiere rendono difficile segnare. La squadra che attacca si schiera a mezzaluna e fa circolare il pallone velocemente per trovare lo spazio per la conclusione. Quella che difende concentra tutte le energie in un’attesa paziente fatta di scalate e coperture. «L’obiettivo principale è cercare di non prendere gol, perché recuperare è difficile. Quando sei in vantaggio, invece, devi proteggerlo. Non serve cercare a tutti i costi di segnare ancora», aggiunge Simonti.

La teoria del corto muso nel Gabbione diventa dogma. Negli anni Allegri ne ha fatto il proprio manifesto ideologico, il marchio di un pragmatismo sbandierato e rivendicato, e a giudicare dalle prime parole con cui si è ripresentato al mondo juventino lo scorso 27 luglio, questi due anni lontano dal calcio non lo hanno minimamente cambiato. Con il solito tono secco e perentorio, e la praticità che lo ha sempre contraddistinto, ha detto che anche l’anno scorso ha vinto la squadra con la miglior difesa, che per lo scudetto servono tra gli 86 e gli 88 punti, e che bisogna segnare circa 75 gol, ovvero meno di due a partita. La Juventus che ha chiuso quarta, per dire dell’importanza che Allegri dà alla fase difensiva, ne ha segnati 77.

L’attenzione verso la qualità individuale, verso il guizzo capace di sconvolgere uno stallo, è un altro tratto che Allegri ha sempre caldeggiato, sebbene talvolta alcune sue scelte siano apparentemente andate in un’altra direzione. Ha parlato spesso di come la palla, alla fine, debba passare per forza da quello più bravo, portando ad esempio le giocate in isolamento del basket. Il parallelismo sarebbe stato comodo anche con il Gabbione, dove, visti gli spazi ristretti, a fare la differenza sono spesso le invenzioni personali. «Nonostante l’organizzazione militare, c’è spazio per l’individualità, soprattutto per chi è abile a costruirsi un tiro. Max in questo è molto bravo, anche se spesso si trovava davanti portieri come “il Bocca”, che a prendere pallonate in pancia o sul muso si caricava, urlandogli “tira più forte, Massi!”», dice col suo ghigno Simonti. In senso più ampio, all’interno di un contesto reso imprevedibile dalle sponde ma comunque irregimentato, è una concessione che viene fatta all’intuizione, all’istinto. La cosa in cui Allegri crede di più, che cerca sempre di assecondare convinto dell’efficacia di tutto ciò che sgorga spontaneamente, senza un’elaborazione eccessiva. «Quando non seguo il mio istinto, quando ho dubbi, allora faccio errori», ha detto una volta. Da giovane ha lasciato la sua ragazza all’altare. È capitato che la domenica mattina stravolgesse formazioni decise il venerdì pomeriggio. «Il momento migliore sono le sette e mezzo, l’ora alla quale solitamente contraddico me stesso».

Secondo Lamberto Giannini, docente di storia e filosofia, pedagogista e regista teatrale molto stimato a Livorno, «Allegri è la quintessenza della labronicità. È furbo, immediato, espressione perfetta di una città che vive di episodi, plateale ma molto asciutta. Livorno ha una doppia anima, da un lato la creatività e dall’altro è svegliezza». È anche da qui che ha origine la sua battaglia mediatica contro i “teorici” del calcio che spesso gli hanno fatto le pulci per la forma scarna della sua proposta estetica; contro chi, per come la vede lui, ama riempirsi la bocca parlando solo di moduli e prin-
cìpi di gioco. Aspetti che evidentemente anche Allegri esplora, servendosi di dati e analisti, ma che pubblicamente tende a esorcizzare per preservare il suo spirito istrionico e la sua aderenza alle cose semplici di cui Livorno si nutre: il sole, un asciugamano, un pezzo di torta di ceci.

Una città con l’abitudine connaturata di andare controtendenza, in cui si parla per contrasto, salutandosi con un’offesa e dicendo “brutta lei” per descrivere una bella ragazza. Una città isolazionista, in cui si sta sempre tra livornesi. Chiusa, come il Gabbione. «A Livorno non c’è la paura del giudizio. Ne La psicologia delle folle, Gustave Le Bon dice che una massa ragiona meno di un individuo, perché ha meno freni inibitori. Se a una massa dici di mettersi a ballare in discoteca balla, un individuo no. Ecco, al livornese piace farlo da solo. Far vedere che è lui. Un po’ come quando ad Allegri arriva un pallone in panchina e lo stoppa con il tacco», dice Giannini. È l’effetto di un retroterra storico povero rispetto a quello di altre città toscane come Firenze o Pisa.

Fino a 450 anni fa, Livorno era un villaggio di pescatori. Si è costruita un’identità chiudendosi in se stessa e rifiutando le sirene della modernità. Tracciando una traiettoria diversa e parallela. Il Gruppo Labronico, un movimento artistico fondato da Gino Romiti nel 1920 e molto attivo nella metà del Novecento, esprimeva una lingua indefinibile e per molto tempo non si misurò con l’arte contemporanea e le avanguardie, mantenendo un’impronta del tutto personale. Così come Pietro Mascagni e il suo modo controcorrente di fare musica. «Più che conservatrice, Livorno è una città anacronistica dove si vive fuori dal tempo, in un tempo che è solo nostro», continua Giannini.

Anche il Gabbione, in tutti questi anni, ha schivato il progresso adottando pochissimi cambiamenti. I più giovani hanno sostituito il vecchio Yashin 420 di cuoio con un pallone più leggero simile al Tango. Non si gioca più a piedi nudi o con le Superga di “Cicio” ma con le scarpe da calcetto, ed è necessario prenotare il campo alla mattina, mentre prima l’accesso era libero. Per il resto è tutto uguale, dalle recinzioni al terreno di gioco, che, salvo alcuni casi, è ancora in cemento come da tradizione, nonostante le richieste avanzate da qualcuno: «Qui ai Fiume hanno addirittura organizzato una raccolte firme per far mettere il sintetico, ma abbiamo resistito. Nel Gabbione devi sentire la palla che rimbalza, a costo di rimediare una braciola», dice Neri con fermezza romantica. È uno dei motivi per cui è quasi impossibile, oggi, vedere calciatori professionisti dentro la gabbia, anche chi, come Leonardo Pavoletti, ci è cresciuto dentro.

Troppo alto il rischio di farsi male. Succede spesso. Specie nelle partite più sentite, quelle in cui si sfidano i lidi rivali: Fiume, Lido, Pancaldi. Occasioni in cui viene fuori tutta la rudezza del Gabbione, le insidie di appoggiarsi alle reti per proteggere il pallone, alimentate dall’assenza di falli. Allegri, che a detta di Simonti «in quelle circostanze diventava molto competitivo», forse deve anche a quegli spigoli l’asprezza che non di rado emerge. «Fa parte del suo carattere. Forse dovrebbe provare a gestirla meglio perché il ruolo che ricopre esige una certa misura ed equilibrio». Un giorno al Gabbione sbagliò un controllo semplice e qualcuno gli disse “guarda, non sai stoppare il pallone e hai avuto il coraggio di mandare via Ronaldinho”. La ribellione è un tratto della sua personalità, ma anche, ancora, una parte del suo dna labronico, suggerisce Giannini: «A Livorno la riverenza è vietata. Essere riverenti nei confronti delle autorità è considerata una debolezza. Te lo insegnano da bambini». Anche Neri e Simonti rimarcano il concetto, spiegando che ad Allegri, nonostante l’amicizia che li lega da una vita, non abbiano mai chiesto nulla, né magliette né accrediti per assistere alle partite, che ricevevano grazie a gesti spontanei di Max.

In rete c’è solo un video che documenta Allegri che gioca nel Gabbione. Indossa una maglietta bianca, un costume corto e vecchie scarpe da ginnastica. Era l’estate del 2015, pochi giorni dopo la finale di Champions League persa dalla Juventus contro il Barcellona. Dalle luci dell’Olympiastadion di Berlino al cemento dei Bagni Lido, l’unico Gabbione che dà proprio sul mare, tanto che quando arriva la “libecciata” forte qui non si può giocare. Finita la partitella, mentre tutti si tolgono le scarpe, iniziano i soliti sfottò. Poi Allegri si spoglia e si avvicina alla scaletta per tuffarsi in mare, il rito conclusivo di ogni gabbionata. Tra le persone che scherzano con lui c’è anche Riccardo Ganni, il titolare dei Bagni Lido. Provare a chiedergli qualcosa su Allegri è inutile. È chiuso nella reticenza di chi pensa di fare un torto a un amico parlando di lui senza la sua autorizzazione. Dice solo che è felice che sia tornato alla Juventus. Per un livornese non c’è niente di meglio che tornare a casa.

Da Undici n° 40
Foto di Federico Floriani