Gli allenatori italiani e l’arte della trasformazione

I nostri tecnici continuano ad avere un grande appeal anche all'estero. Merito della loro capacità di evolversi, di sapersi adattare ai cambiamenti del gioco. Una tendenza evidente anche nell'albo d'oro del premio come "Miglior Allenatore AIC", consegnato al Gran Galà del Calcio.

«Il bravo allenatore è quello che adatta il gioco alle caratteristiche dei giocatori. Se ho Modric e Kroos non posso pretendere di fare pressing alto. Sarei un idiota se con un attaccante come Vinicius, che ha un motorino sotto i piedi, non puntassi sul contropiede. Ti faccio un ultimo esempio: se davanti ho Ronaldo, studio il modo di fargli arrivare spesso la palla, non gli chiedo di sfiancarsi con i rientri. Lo stesso con Ibra». La recente intervista rilasciata da Carlo Ancelotti al Corriere dello Sport può essere considerata il manifesto programmatico di una scuola, quella degli allenatori italiani, che ha imparato – e sta imparando – ad andare oltre se stessa, oltre i propri limiti, oltre tradizioni e dogmatismi superati dal mondo e dal tempo, oltre il primato del risultato ad ogni costo, oltre le semplificazioni narrative che si concretizzano negli –ismi del momento, polarizzando un dibattito che non può essere declinato attraverso la classica dicotomia ontologica migliore/peggiore.

«Non ho mai coltivato un’ideologia, il guardiolismo, il sarrismo. Il mio credo è l’identità di squadra», ha detto Ancelotti, raccontando e raccontandosi come un tecnico per il quale l’adattabilità e la comprensione di contesto e momenti sono doti fondamentali se si vuole allenare ad altissimo livello. Se si vuole restare per tanto tempo ad altissimo livello, che poi è la cosa più difficile. Perché se è vero che i titoli sono l’unità di misura del lavoro dell’allenatore, è altrettanto vero che la prestazione, ciò che si propone quotidianamente sul campo, in partita ma anche in allenamento, costituisce il metro per valutare la replicabilità e l’effettiva possibilità di un successo e di un certo metodo, soprattutto nel calcio contemporaneo.

Il fatto che Ancelotti sia l’allenatore di un Real Madrid che sta dominando la Liga pur vivendo una fase di profonda ricostruzione tecnica, dimostra che la duttilità e il progressivo adeguamento ai cambiamenti imposti dal gioco non hanno età, anche se si proviene da un’altra era calcistica. Questo dettaglio si può intuire andando a leggere l’elenco dei vincitori del “Miglior Allenatore AIC”, uno dei riconoscimenti che verrà assegnato il prossimo 31 gennaio al Gran Galà del Calcio, l’evento organizzato dall’Associazione Italiana Calciatori che premia i grandi protagonisti calcistici della stagione. Si tratta di un premio che Ancelotti ha vinto due volte – nel 2001 e nel 2004, collezionando un totale di sette nomination, record assoluto – e che negli ultimi anni è andato a dei tecnici che hanno saputo coniugare tradizione e innovazione, difesa delle eccellenze made in Italy e assimilazione dei principi di stampo europeo e internazionale, diventando un vero e proprio elogio al melting pot, all’arte della trasformazione, alla capacità di “contaminarsi” e di cambiare per migliorare e migliorarsi, pur restando fedeli a se stessi.

È un processo che non era scontato, che è ancora in corso. E che, per questo, ci appare ancora come una novità, come una cesura netta rispetto a un passato più o meno recente: Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, già nel settembre 2020 disse a TMW Radio che «il percorso che stiamo facendo ora è quello di essere meticci, imparando a mescolare le nostre culture. Ci conforta che Guardiola ha cominciato a verticalizzare di più, che Klopp che verticalizzava troppo, ora palleggia di più. I grandi allenatori devono imparare queste cose. E noi abbiamo tecnici che sono a questo livello». Un considerazione per certi versi ampliata da Gian Piero Gasperini, architetto dell’Atalanta (non più) dei miracoli e vincitore delle ultime due edizioni del premio: «Migliorare i propri risultati e superare i propri obiettivi, arrivare in Champions League per più anni di fila e in finale di Coppa Italia sono risultati importanti. Si tratta di vittorie importantissime, anche senza la certificazione di un trofeo. Superare se stessi rende vincenti».

In effetti, scorrendo i nomi dei premiati dell’ultimo decennio, sembra quasi di riscoprire e ripercorrere le idee, le tendenze, le innovazioni che hanno permesso al calcio italiano di consolidare una sua peculiare posizione di forza all’interno del movimento europeo – nonostante l’ultimo trofeo internazionale per club sia ancora la Champions vinta dall’Inter di Mourinho nel 2010 e una congiuntura economica complessa, che rende sempre più difficile attrarre campioni del presente e potenziali giocatori generazionali. Intervistato da Undici qualche mese fa, Emiliano Battazzi – autore del libro Calcio Liquido: l’evoluzione tattica della Serie A, pubblicato da 66thand2nd – disse che la Nazionale campione d’Europa «è frutto dell’evoluzione del campionato: non esiste l’Italia di Mancini senza Insigne, Jorginho e il Napoli di Sarri, non esiste Spinazzola che gioca così alto senza la Roma di Fonseca», ribadendo come il CT abbia saputo coniugare tutto ciò che il massimo torneo professionistico proponeva di volta in volta con un suo personalissimo «approccio di rottura», basato sul dominio tecnico di tempo, palla, spazi e avversari.

In principio furono la Juventus e Antonio Conte – vincitore del premio “Miglior Allenatore AIC” per tre anni consecutivi, tra il 2012 e il 2014, e candidato anche per l’edizione 2021 – a ibridare gli stili, a sperimentare il compromesso tra il gioco di posizione e la ricerca esasperata della verticalità in fase di possesso; poi è toccato a Maurizio Sarri, vincitore del premio nel 2017, grazie alla rivisitazione dei principi del calcio di Guardiola che hanno fatto del suo Napoli una realtà riconosciuta e riconoscibile in tutto il mondo; infine ecco il già citato Gasperini,  trionfatore nelle edizioni 2018 e 2019 grazie al lavoro fatto con l’Atalanta, considerata come la squadra italiana più europea per via dei ritmi esasperati, della fisicità dominante, della ricerca dell’uno contro uno a tutto campo in entrambe le fasi. Senza dimenticare Massimiliano Allegri, il tecnico più premiato al Gran Galà del Calcio – quattro riconoscimenti tra il 2011 e il 2018 – ma anche quello che ha saputo mettere insieme tutto questo, che è riuscito a cambiare approccio e identità a seconda di contesti, momenti, situazioni, senza perdere nulla in termini di efficacia e risultati raggiungi. Con i calciatori al centro di tutto: «Ringrazio chi sta con me tutti i giorni, soprattutto i giocatori: sono loro quelli che vanno in campo e vincono le partite. Ho avuto a disposizione tanti calciatori, mi ritengo fortunato per quelli che ho allenato» disse nel 2018, quando fu premiato dopo aver condotto la Juventus al quarto double consecutivo.

Da quando è diventato allenatore dell’Atalanta, nell’estate 2016, Gasperini ha accumulato 139 vittorie, 66 pareggi e 58 sconfitte in 263 gare ufficiali di tutte le competizioni; ha vinto il titolo di “Miglior Allenatore AIC”, consegnato in occasione del Gran Galà del Calcio, nel 2019 e nel 2020; nel 2009, ai tempi del Genoa, è arrivato al terzo posto dietro Mourinho e Allegri (Henry Browne/Getty Images)

Conte, Allegri, Sarri, Gasperini, sono oggi i principali interpreti, diversi ma uguali, di un cambiamento che si è reso necessario per stare al passo con l’evoluzione velocissima e ininterrotta del gioco. Il calcio, del resto, è una materia estremamente fluida, anno dopo anno riesce ad andare oltre i suoi stessi modelli tattici: considerando solo le ultime cinque stagioni, gli analisti e i narratori calcistici di tutto il mondo hanno dovuto celebrare il Real Madrid di Zidane, il Liverpool di Klopp, il Chelsea di Tuchel, l’Ajax di Ten Hag, le varie versioni del City di Guardiola, il Bayern che ora ha affidato a Nagelsmann il compito di portare a compimento l’opera di rivoluzione culturale iniziata da Van Gaal ormai più di dieci anni fa, e che con Flick ha raggiunto il suo apice nel 2020. Aggiornarsi, evolversi, rivedere le proprie posizioni di partenza, vincere le naturali resistenze verso ciò che viene proposto in contesti filosoficamente differenti, è l’unico modo per poter competere – più o meno – alla pari con queste realtà mutevoli e fortissime, sopperendo con le forza delle idee alle mancanze in termini di possibilità economiche, quindi di costruzione della rosa.

Gli allenatori italiani hanno dimostrato, e stanno ancora dimostrando, di poterlo fare. Perché, in fondo, l’hanno già fatto. Con la vecchia e, soprattutto, la nuova generazione: per un Roberto De Zerbi che ha scelto di proseguire il suo percorso formativo allo Shakhtar Donetsk, ci sono un Vincenzo Italiano, un Alessio Dionisi e, perché no, un Aurelio Andreazzoli che, stanno proponendo qualcosa di nuovo e di tangibile pur partendo da realtà e dimensioni solo nominalmente “minori”. Stanno mettendo in mostra un calcio in grado di lasciare il segno in termini di efficacia, efficienza, replicabilità, anche a livelli più bassi. «Devo confessare che ho molto rispetto per Dionisi e per questa nuova generazione di allenatori che fanno un percorso come il suo o come quello di Italiano, un percorso che li fa arrivare dove sono con tanto merito». Queste parole sono state pronunciate da Josè Mourinho, uno che in Italia è ritornato con la consapevolezza di chi sa che «questa Serie A è diversa rispetto a quella che avevo conosciuto dieci anni fa. Oggi ci sono un paio di squadre di livello diverso, ma poi ce ne sono altre sette-otto con qualità e che giocano a calcio. Non c’è la mentalità della piccola che viene nello stadio grande ad aspettare. La Fiorentina e il Sassuolo vanno ovunque e giocano per vincere, per imporre il loro calcio». Questione di mentalità, questione di allenatori. Italiani, naturalmente.