L’anno dell’Italia

Gli Europei di calcio, e anche tanto altro: il 2021 azzurro ci ha restituito la possibilità di scegliere e classificare le gioie.

L’anno dell’Italia sta tutto in una manciata di secondi. Sono i secondi di festa che nessuno potrà mai restituire a Gianluigi Donnarumma, gli attimi venuti subito dopo il rigore calciato da Bukayo Saka e parato dal numero uno azzurro. Respinto il tiro dell’esterno inglese, Donnarumma si rimise in piedi e cominciò a camminare verso la linea di fondo, allontanandosi per un attimo dai compagni raccolti lungo la linea del centrocampo, convinto di dover cedere il posto in porta a Pickford per un altro giro di penalty. Nel frattempo gli azzurri che non erano Donnarumma avevano cominciato la corsa che nel calcio è sempre il primo pezzo della festa, chissà perché. Alla fine della corsa collettiva c’era proprio Donnarumma, che nel frattempo aveva smesso di camminare e si era messo a rimuginare. Non aveva capito, il portiere azzurro, che l’Europeo era finito ormai da qualche secondo e che l’Italia era appena diventata campione d’Europa grazie a lui: certe volte concentrazione e distrazione sono la stessa cosa e funzionano alla stessa maniera.

L’attenzione di Donnarumma per il compito da svolgere era stata tale da fargli perdere il conto dei rigori già calciati dai suoi e dagli avversari, dei tiri parati da lui e da Pickford. Per un attimo stupendo e memorabile, Donnarumma è stato due cose in una, due versioni di sé nello stesso momento: da una parte l’eroe impassibile uscito da un romanzo di Elmore Leonard, un Raylan Givens con i guantoni al posto della pistola, indifferente in ogni caso alla prodezza degli strumenti del mestiere; dall’altra, il ragazzo un poco tonto, un Homer Simpson in tre dimensioni, che davanti alle telecamere, microfono alla bocca, ammette di essersi dimenticato chi avesse segnato quale rigore e quando. L’anno dell’Italia sta tutto in questa manciata di secondi, in questo cortometraggio di ingenuità e meraviglia, sorpresa e incredulità, prodezza e goffaggine, gioa e imbarazzo, autocelebrazione e autocommiserazione.

L’anno dell’Italia in realtà è stato due anni, forse quattro, magari cinquantatré. Due sono gli anni dell’Europeo vinto dalla Nazionale: il 2020 in cui si sarebbe dovuto disputare il torneo e il 2021 in cui gli azzurri quel torneo lo hanno vinto. Nella differenza tra quando avrebbe dovuto essere e quando è stato c’è forse la spiegazione, l’origine del legame diverso, allo stesso tempo tragico e melenso, che abbiamo costruito con questa Nazionale: non ci sarà mai un metodo o uno strumento per ricordare la vittoria dell’Europeo senza ripensare alla pandemia. Due sono (per ora e speriamo per sempre) gli anni del Covid-19. Non arriverà mai il momento in cui questo ricordo non farà suonare due note diverse e contemporanee nelle orecchie, in cui non farà avvertire due sapori distinti e contrastanti nella bocca, in cui non farà lampeggiare davanti agli occhi due luci dai colori che tra di loro si sposano male. Come Donnarumma, il ricordo, questo ricordo, ci porta a essere due cose in una, due versioni di noi nello stesso momento: quella che ha vissuto gli ultimi due anni e quella che ha vissuto quei trenta giorni tra l’11 giugno e l’11 luglio 2021. Quella che per due anni ha perso il conto della propria esistenza e quella che per trenta giorni ha saputo esattamente cosa fare.

L’anno dell’Italia in realtà sono quattro anni. Quattro sono gli anni di Roberto Mancini sulla panchina della Nazionale e quattro sono gli anni passati da quella partita contro la Svezia, da De Rossi che sbotta dicendo che deve entrare Insigne perché la partita è da vincere, da Ventura che aspetta la certezza della buonuscita prima di mostrare la dignità delle dimissioni, dal Mondiale visto con la rilassatezza del gusto e senza il tormento del tifo. In Italia abbiamo l’abitudine di considerare solo l’ultima versione di noi stessi, una pigrizia che ci rende inaccessibile una memoria – storica, culturale, sociale e quindi sportiva – vera e propria e impossibile l’autostima (che altro non è che ricordo di sé). In questi giorni, settimane, mesi in cui la qualificazione ai Mondiali del 2022 resterà chiusa dentro la scatola in cui se ne sta acquattato anche il gatto di Schrödinger, tutto quello a cui riusciamo a pensare è l’ultima versione di noi stessi che si è trovata in questa stessa situazione. Il trauma del 2017 è stato tale e tanto che viene da pensare al buco nero, le fauci dello spazio sconosciuto che inseguono, catturano e divorano la luce. E la luce nella galassia sportiva italiana si è (ri)accesa quattro anni fa ed è divampata quest’anno, il compito nostro dovrebbe essere quello di proteggerla dal buco nero della nostra stessa ansia, del nostro stesso trauma.

L’anno dell’Italia sono i i quattro anni da commissario tecnico di Roberto Mancini, che avrebbe meritato di meglio della soddisfazione meschina di chi non aspettava altro che dire che all’Europeo è stata la mano di Dio, non certo la sua. Il ct avrebbe meritato di più di essere ridotto – lui ma anche i suoi giocatori, la sua squadra, la sua storia – a due partite sbagliate e sfortunate contro la Svizzera. Eppure non se ne è stupito nessuno, dell’improvvisa dimenticanza: le partite contro Belgio, Spagna, Inghilterra appartengono a una versione di noi al cui ricordo ormai sembriamo (già) non più capaci di accedere. Mancini non ha solo riportato in Italia una coppa che mancava da cinquantatré anni. Mancini ha restituito alla Nazionale l’autostima e lo ha fatto scansando il tradizionalismo, il conservatorismo, la reazione, l’autostima bastarda e storpiata con la quale ci gonfiamo nel tentativo di allontanare la paura, la minaccia, l’avversario come fanno gli animali messi alle strette.

I rigori di Italia-Inghilterra

Mancini non ha solo portato un’immagine (la sua) cool alla Nazionale, bella, giovane, stilosa, controllata quando si deve come vogliono i tempi moderni ed emotiva quando si può come vuole il carattere nazionale (l’abbraccio con Vialli è un’immagine di amore fraterno che allo stesso tempo scalda e spezza il cuore, e ancora una volta ci si trova a pensare alla Nazionale e a essere due cose in una). Ha anche e soprattutto – ora che dalla vittoria dell’Europeo è passato del tempo lo si capisce meglio, lo si ammette più facilmente – dimostrato che la peculiarità è bellezza ed efficienza, una convinzione empia e peccaminosa nella storia recente del nostro calcio. Se qualcosa resterà della vittoria dell’Europeo e dell’anno dell’Italia (e speriamo sia così pur dubitandone assai), sarà la dimostrazione che nel calcio moderno la vittoria si realizza nell’esaltazione di ciò che rende i giocatori diversi e non nel tentativo di ridurli a funzione: l’allenatore moderno è un corniciaio, non un pittore. È per questo che l’anno dell’Italia è l’anno di Mancini e l’anno di Mancini è l’anno dei giocatori peculiari sui quali è riuscito a costruire la sua Nazionale (e sui quali è stato capace di orientare un dibattito che altrimenti sarebbe certamente, inevitabilmente fino per l’ennesima volta all’esaltazione della tradizione difensiva): Spinazzola, Verratti, Jorginho, Chiesa, stranezze tecniche e tattiche che in altri tempi, da altri allenatori sarebbero state considerate disfunzioni da curare, problemi da risolvere. L’anno dell’Italia è stato l’anno di Mancini, che ha rifiutato (beato e furbo lui) i discorsi sull’identità e ha abbracciato (moderno e giovanile) il concetto di fluidità: la cosa che ha ripetuto più spesso è una filastrocca che dice che in campo bisogna sapere fare tante cose, tutte assieme, tutte bene.

L’anno dell’Italia non è stato solo l’anno della Nazionale di calcio, ovviamente. L’elenco delle vittorie è ormai talmente lungo e ripetuto che rifarlo non ha senso: ormai queste vittorie sono la materia di cui sono fatti i meme dell’Internet e la propaganda della politica, e a chi importa degli uni e dell’altra. C’è stato un momento del 2021, però, che racconta questo anno di opulenza meglio di quanto io (o i meme o la propaganda) non potrò mai fare. Il presidente del Coni Giovanni Malagò parla al telefono dentro uno stadio senza pubblico, l’eleganza da conservatore che spesso gli porta – suo malgrado – la candidatura a possibile leader del centrodestra italiano appena scompigliata dall’assurdità di quanto appena successo. Marcell Jacobs ha vinto l’oro olimpico nei cento metri piani, Gianmarco Tamberi quella nel salto in alto. Dall’altra parte della conversazione che Malagò sta facendo al telefono c’è il Presidente del Consiglio, Mario Draghi. «Mario, questo vale più dell’Europeo», pare abbia detto un presidente all’altro presidente. Ecco, alla fine l’anno dell’Italia è stato questo: l’anno in cui lo sport ci ha restituito la possibilità di scegliere e classificare le gioie a disposizione, dopo due anni di catalogazione dei dolori e delle privazioni.