Maxime Cressy vuole reinventare il serve & volley

È possibile aggiornare il gioco dei pionieri, quello più estremo, al tennis di oggi?

So boring! A metà di un imprevisto quarto set, Daniil Medvedev ha pensato di commentare così, dal campo, la partita che era costretto a giocare. La noia è una questione di punti di vista, naturalmente, e da quello di Medvedev lo sfogo si poteva anche capire. A partire dalla fine del primo set, nei turni di servizio di Maxime Cressy, il puppetmaster numero 1 del circuito si ritrovava infatti a interpretare, senza variazioni, un copione rigidissimo, che non solo non aveva scritto, ma non riusciva a capire. Funzionava più o meno così. Cressy serviva prime e seconde all’incirca alla stessa velocità, intorno ai 200. O le piazzava al centro, e nove su dieci erano ace, o gli dava una traiettoria talmente esterna che l’altro era costretto a rinviare, dai tabelloni laterali, una palletta inerte verso il centro della rete: cioè verso Cressy, libero di appoggiarla in un punto qualsiasi del campo vuoto.

È uno schema che dubito abbiano riconosciuto in molti, perché in realtà quasi nessuno lo ha mai visto eseguire in diretta. Il paragone più immediato è infatti quello col gioco ferocemente ossessivo, e unanimemente rimpianto, dei grandi attaccanti anni Settanta e Ottanta. Solo che c’è una differenza, importante. Tutti i geniacci di quella generazione, da McEnroe a Noah, da Cash a Edberg, andavano sì a rete il prima possibile, ma scambiavano quando e quanto serviva, portando a casa anche in difesa un bel po’ di punti. Quelli che si trattenevano sulla linea di fondo giusto il tempo di battere, e quando gli toccava rispondere tentavano sempre e comunque un vincente, erano semmai i loro padri, cioè i ragazzi degli anni Cinquanta adepti di quello che Jack Kramer, dopo averlo teorizzato, aveva deciso di chiamare il Big Game. Cioè il gioco che adesso, saltando all’indietro di parecchie generazioni, Maxime Cressy intende riproporre nella sua versione originaria.

Non è una scelta indolore – e proprio per la ragione efficacemente sintetizzata da Medvedev. Per quanto paradossale – ma toglietegli i paradossi e il tennis diventa uno sport normale – proprio il serve and volley che oggi tutti invochiamo come antidoto al tedio dei bracci di ferro da fondocampo ai tempi del suo apogeo veniva esecrato, per le medesime ragioni. Non del tutto a torto – e parla un apologeta del genere. A giocarsi, e anche a vedersi, è un’esaltante celebrazione dello stile più puro, ma perché rifulga deve opporsi al suo contrario. Andate a rivedervi un vecchio filmato dei tempi in cui la dottrina Kramer era egemone, e la mettevano in pratica quasi tutti. Uno dei due batte, scende, chiude. Quattro volte, cinque se fa un errore, o l’altro lo passa. Game. Batte l’altro, scende, fa punto. Eccetera. Immaginate la scena ripetuta per tre o quattro ore, fino a che uno dei due non cede, e vi ritroverete come pubblico e pundit di allora a invocare una riforma delle regole, o una modifica degli attrezzi.

Oggi la scena è comunque diversa, e fino a ieri notte era opinione comune che quel tipo di problema fosse superato. Alla velocità e alla potenza del tennis attuale, ripeteva chiunque, nessuno può battere e scendere impunemente. In genere, qui arrivava l’esempio: se persino Roger, che per il gioco al volo ha sempre avuto una certa predisposizione, dosa con estremo giudizio le sue avventure a rete, una ragione ci sarà. E in effetti c’era, fino a che non si è dissolta con l’ingresso in campo di un late bloomer 24enne, attualmente al numero 70 della classifica ATP, ma intenzionato a scalare le 69 posizioni sopra la sua. Non è il solo attaccante quasi classico in circolazione (Hurkacz e Van de Zandschulp partono da presupposti abbastanza simili), ma certo è quello che porta la logica di Kramer alle sue estreme conseguenze. Che estreme lo sono davvero.

Un video per chi ha nostalgia della partita giocata ieri notte. E anche, insieme, del tennis di una volta.

Per chi adotta quello schema, ad esempio, un gioco già molto più solitario di quanto si percepisca diventa solipsistico, e l’avversario si riduce a una sagoma in movimento. Quando Cressy dichiara che non gli importa chi ha davanti, perché nelle giornate buone i suoi colpi funzionano contro chiunque, dice semplicemente una cosa vera. Se il servizio ha una certa angolazione, l’1 e il 300 al mondo rispondono allo stesso modo; e se ti presenti a rete nella frazione di secondo giusta, né l’1 né il trecento al mondo arriveranno mai sulla tua volée. Sarebbe semplice, non fosse circa la cosa più difficile da fare con una racchetta in mano. Perché quel sistema di sincronie non si inceppi è infatti richiesta una concentrazione demoniaca, e per ottenerla ognuno ha i suoi espedienti. Quelli di Cressy sono nascosti in un quadernetto piuttosto bisunto, che consulta a ogni cambio di campo. Pare contenga essenzialmente due raccomandazioni: “Espira”, “Inspira”.

Nell’intervista post match Medvedev – che è un genio, quindi un simpaticissimo figlio di puttana – si è scusato per il suo comportamento in campo. A metà. Prima infatti ha ammesso di non essere stato carino: quelle cose non si dicono, ha continuato, solo che lui a volta pensa ad alta voce, e gli scappano. Subito dopo, con uno dei suoi sorrisetti alla Myskin, ha buttato lì che però, chissà, forse quel piccolo monologo qualche dubbio in testa a Cressy alla fine lo aveva messo – s’intende sul fatto che prima o poi, sul più bello, quel meccanismo perfetto rischi di incepparsi. Curioso. In ogni spazio lasciato libero dai memo respiratori citati poco fa, Cressy scrive, o sottolinea, o ricalca, due parole ancora più importanti, sempre le stesse: “INSTILL DOUBT”. S’intende il dubbio sul fatto che attacco e difesa dal fondo siano davvero l’unico tennis possibile, e non esista un universo alternativo. Stavolta, sul 5-5 del quarto set, il dubbio ha finito per instillarglielo Medvedev. Ma la prossima, chissà, potrebbe aprirsi un varco nello spazio-tempo che non sapevamo esistesse.