I dati statistici hanno un peso enorme nel racconto del calcio moderno: alimentano e in qualche modo verificano delle tesi, rendono più credibili delle analisi, permettono di andare oltre le percezioni basiche e quindi di smentire affermazioni semplicistiche. In alcuni casi i numeri creano anche dei contrasti, nel senso che possono esistere delle rilevazioni in contraddizione tra loro: è così che scoppiano e poi si alimentano vere e proprie battaglie di religione/posizione su quel giocatore, quell’allenatore, quel determinato argomento tecnico-tattico – si pensi, per esempio, alle infiniti discussioni sulla rivalità Messi-Ronaldo o sull’efficacia della costruzione dal basso. Per fortuna, però, ci sono delle cifre evidentemente inoppugnabili, dei dati che certificano un fatto in maniera incontrovertibile. Ad esempio: dal 2008 a oggi, cioè da quando è diventato tecnico del Borussia Dortmund e poi in seguito del Liverpool, Jürgen Klopp ha accolto nella sua squadra 66 nuovi calciatori acquistati da altri club, stando alle cifre di Transfermarkt; ebbene, tra questi giocatori solo tre avevano già vinto una o più edizioni di una delle cinque leghe top (Premier, Liga, Serie A, Bundesliga, Ligue 1) e/o della Champions League, vale a dire Shaqiri, Fabinho e Thiago Alcántara.
Questo non ha impedito al Borussia-di-Klopp e poi al Liverpool-di-Klopp di raggiungere risultati di eccellenza assoluta, in campo nazionale e internazionale. Anzi, il paradosso è che proprio Shaqiri e Thiago Alcántara non hanno mai davvero incantato nel Liverpool, eppure erano gli unici due ad aver già vinto la Champions prima di incontrare il tecnico tedesco sul loro cammino – Fabinho è stato campione di Francia con il Monaco nella stagione 2016/17. Insomma, si può dire in maniera semplice ma non semplicistica, perché stavolta ci sono i dati a testimoniarlo: Jürgen Klopp costruisce campioni, e quindi grandi squadre, partendo da talenti in cerca di affermazione, da atleti non ancora giunti all’apice della piramide calcistica.
Attenzione: non stiamo parlando di giocatori scarsi e sconosciuti, quindi inevitabilmente poco costosi. Sarebbe miope, nonché ingeneroso, pensare e scrivere che i vari Lewandowski, Reus,, Mané, Van Dijk, Salah e Alisson, fino ad arrivare ai Diogo Jota, Konaté e Luis Díaz di oggi, fossero dei calciatori privi di un potenziale evidente, o che non avessero altre offerte provenienti da altri grandi club quando hanno deciso di unirsi al Borussia Dortmund o al Liverpool. Anche in questi casi sono i numeri, a parlare: per rilevare Reus dal Gladbach, il BVB ha investito 17 milioni, una cifra piuttosto alta nel 2012; e non c’è bisogno di ricordare quanto abbia speso il Liverpool per acquistare Van Dijk dal Southampton (85 milioni) e Alisson dalla Roma (62 milioni). Il punto è che tutti questi giocatori, prima di incontrare Klopp, non si erano ancora misurati con un contesto in cui vincere è un’ambizione realistica e non un sogno, in cui erano (almeno) dei co-favoriti per trionfare in campionato e/o in Champions League. Ed è stato il lavoro con Klopp a renderli adatti per pressioni di questo tipo, a farli crescere come individui e in un contesto di squadra, a permettergli di entrare nell’olimpo dei migliori, a riempire le loro bacheche personali con i trofei più ambiti.
In un articolo pubblicato dal Guardian dopo la matematica conquista della Premier League 2019/20, un successo che per il Liverpool e per i giornalisti inglesi ha avuto un impatto e un valore molto superiori rispetto al trionfo in Champions League colto nella stagione precedente, Andy Hunter ha scritto che «Klopp non ha mai deviato dalla sua filosofia di base, quella per cui i giocatori possono sempre essere migliorati attraverso l’allenamento». È un concetto semplice eppure rivoluzionario, che in qualche modo cancella – o comunque ridimensiona – alcuni dei più classici diktat imposti da altri allenatori per allestire squadre competitive o vincenti: per Klopp non esistono età minime da rispettare quando si devono acquistare nuovi giocatori, e allora anche i giovani possono essere risorse spendibili qui e ora, a patto che siano disposti a integrarsi e a crescere seguendo i suoi metodi, mettendo in pratica i suoi consigli; per Klopp non esistono nemmeno giocatori-feticcio, anzi il mercato è un’occasione per ampliare gli orizzonti tattici della squadra che gestisce. Anche queste affermazioni sono supportate dai dati: se consideriamo i sette giocatori acquistati dal Liverpool dall’estate 2020 a oggi, solo uno è arrivato ad Anfield quando aveva più di 26 anni (Thiago Alcántara). E poi: da quando si è seduto sulla panchina dei Reds, e ormai sono passati più di cinque anni e mezzo, il tecnico tedesco non ha ancora avallato l’acquisto di un solo giocatore che aveva già allenato al Borussia Dortmund.
Quest’ultimo aspetto è fondamentale, perché individua e definisce un tratto della professionalità ma anche della personalità di Klopp: il manager del Liverpool, esattamente come Pep Guardiola, è culturalmente aperto al nuovo, al diverso, non si è mai fossilizzato né tantomeno appiattito su un’unica idea calcistica, su un modulo, su un set inalienabile di principi di gioco. Certo, il Liverpool di oggi ha un’identità chiara e radicata e immediatamente riconducibile al suo allenatore, eppure ha un’anima tattica completamente diversa rispetto a quella del Borussia Dortmund che ha vinto per due volte la Bundesliga tra il 2011 e il 2012 – l’ultima squadra a riuscirci che non sia il Bayern Monaco – e che ha sfiorato il trionfo in Champions League nel 2013. In verità, riflettendoci bene, anche lo stesso Liverpool è cambiato molto nel corso delle ultime stagioni, distaccandosi un po’ dalle etichette semplicistiche (quelle relative al Gegenpressing, alle transizioni positive, al calcio “Hard Rock”) apposte una vita fa sul gioco di Klopp e quindi su di lui: nella prima stagione ad Anfield Road del tecnico tedesco, la percentuale media di possesso dei Reds era inferiore al 55%; oggi il dato relativo ai match di Premier League è pari al 60%, mentre nella Champions League 2019/20 è arrivato a sfiorare il 63%. Questo non vuol dire che Salah, Mané e compagni non amino più attaccare in campo aperto, non a caso le azioni di pressing nell’ultimo terzo di campo, il marchio di fabbrica del gioco di Klopp, sono addirittura aumentate nelle ultime cinque stagioni (da 36 a 42 per match). Ma il punto è proprio questo: l’arrivo di nuovi giocatori ha permesso a Klopp, quindi al Liverpool, di ampliare il menu tattico, di evolvere e completarsi senza smarrire i propri riferimenti iniziali. È un po’ come la storia dei bambini che diventano adulti e scoprono che anche le verdure sono buone, ma al tempo stesso non cancellano la propria predilezione per la pasta, la carne, il cibo-spazzatura – e ci mancherebbe altro.
L’approccio profondamente formativo di Klopp va ben oltre i discorsi relativi alla tattica: in un articolo pubblicato su Goal, Melissa Reddy ha raccontato come il manager tedesco abbia creato «un ambiente di lavoro sereno e rilassato» utilizzando gruppi WhatsApp in cui dà indicazioni ai calciatori anche quando non sono a Melwood e quindi non può seguire da vicino i loro allenamenti, e poi attraverso un’attenzione costante agli eventi della loro vita privata – i rapporti con le partner e le famiglie d’origine, la nascita dei figli. Allo stesso tempo, però, ha imposto che nel centro sportivo del Liverpool non fossero permesse visite a mogli, fidanzate, agenti e altri faccendieri dei giocatori, se non su appuntamento. Una volta Dejan Lovren ha detto una frase significativa, in questo senso: «Klopp è un amico dei suoi giocatori, ma non è il loro migliore amico».
Questi aspetti e quelli di campo finiscono inevitabilmente per mescolarsi tra loro: un esempio su tutti è il recente ricorso a un’azienda specializzata in neuroscienze per migliorare la gestione emotiva di alcune situazioni di gioco, per esempio le punizioni e i rigori. Insomma, per Klopp ogni cosa e ogni momento rappresentano un’occasione per poter penetrare nella testa dei calciatori che allena, per dargli modo di avere fiducia in lui e nel suo progetto. Questo suo atteggiamento si è spinto fino all’estremo: a cavallo tra gennaio e febbraio 2020, prima dello scoppio della pandemia, aveva promesso ai suoi giocatori alcuni giorni di riposo, una sorta di pausa di metà stagione un po’ arbitraria e un po’ artigianale, incoraggiata anche dalla Federazione dopo gli impegni nel Mondiale per club; un replay match di FA Cup contro lo Shrewsbury sembrava dover annullare questi piani, invece Klopp ha deciso di far andare in campo solo giocatori provenienti dalla squadra riserve e dalle giovanili, pur di non rimangiarsi la parola.
Nel processo di individuazione dei migliori giovani, quindi dei grandi talenti del futuro, lo scouting è ovviamente la parte più importante. Anche perché la complessità dell’era contemporanea impone che non si tratti semplicemente di scovare calciatori in un bacino immenso e di acquistarli prima degli altri, ma anche di trovare quelli che hanno caratteristiche – tecniche, fisiche, emotive – più affini a una determinata squadra, a un certo progetto tattico. Dopo questa prima fase – che si potrebbe definire istruttoria, utilizzando il linguaggio giudiziario – entrano in gioco altri fattori, altre qualità: la capacità di individuare e valorizzare le doti degli atleti così come le inclinazioni dei ragazzi/uomini, la sensibilità necessaria per comprendere se sono pronti e quando sono pronti per andare in campo, su cosa farli allenare perché possano sviluppare il proprio potenziale, come rapportarsi con loro dal punto di vista umano, prima ancora che tecnico. Ecco, in tutto questo Klopp è una garanzia assoluta, nel senso che affidargli un giocatore ancora giovane e/o non affermato vuol dire fare un investimento con un enorme margine di profittabilità a medio e soprattutto a lungo termine. Anche in questo caso parlano i dati, parla la storia. Una vecchia statistica aveva rilevato come la presenza del manager tedesco avesse permesso alla rosa del Liverpool di aumentare il suo valore del 500%. Se c’è ancora qualcuno che non si lascia convincere dai numeri, ecco un’altra evidenza. Prima abbiamo già snocciolato una lista di grandi calciatori che sono stati allevati e lanciati da Klopp. Era volutamente incompleta, eccone un altro po’: Aubameyang, Mkhitaryan, Gündogan, Firmino, Wijnaldum, Alexander-Arnold, Robertson. E il tassametro corre. Forse questo elenco può bastare per affermare che Klopp sia un tecnico in grado di creare valore, di costruire campioni. È tra i migliori da questo punto di vista, se non il migliore in assoluto.