Per iniziare a spiegare l’eliminazione della Juventus agli ottavi di Champions League, bisogna partire da un doppio dato. Il primo è quello relativo al valore della rosa bianconera secondo Transfermarkt: 553 milioni di euro, il più alto del campionato italiano. Il secondo deriva direttamente dal primo: mentre Allegri e i suoi giocatori sono quarti in Serie A, negli altri quattro campionati top in Europa le squadre con l’organico dal valore economico più alto (Manchester City, Real Madrid, Bayern Monaco, Psg) sono in testa alla classifica. Tra questi club, per di più, solo il Manchester City non ha ancora ipotecato il successo finale – e il merito è unicamente del Liverpool, che a sua volta ha una rosa che vale 890 milioni di euro. Se poi vogliamo aggiungere una terza cifra che aiuta a comprendere, basta andare a vedere qual è la valutazione economica complessiva della rosa del Villarreal: 362 milioni di euro.
Questi numeri forse c’entrano poco con Juventus-Villarreal 0-3, con una sconfitta molto meno netta e rotonda di quanto non dica il risultato finale. Ma sono utilissimi, anzi fondamentali, per comprendere come i bianconeri siano arrivati a questa partita. A questa eliminazione. La classifica di Serie A e l’esito della sfida contro la squadra di Emery dicono che la squadra di Allegri non sta rendendo secondo i suoi reali valori, e questo è un fatto. Ma poi bisogna andare oltre, vanno considerati aspetti di cui certe valutazioni – certi algoritmi – non possono tener conto: la storia della rosa in questione, il modo in cui è stata assemblata, in cui viene allenata e fatta giocare.
Dopo la partita, Massimiliano Allegri ha detto – in diverse interviste – di non avere «nulla da rimproverare ai suoi ragazzi». E che conosce «i valori dei suoi giocatori». Il tecnico livornese non lavora certo a Transfermarkt, utilizza altri parametri di valutazione, sente e vive la squadra tutti i giorni, in ogni seduta d’allenamento. Come dire: c’è da fidarsi delle sue sensazioni. Eppure, numeri e dati alla mano, non è ancora riuscito a trovare il modo per trarre il meglio dai suoi giocatori, una formula di incastri e meccanismi in grado di esaltare i pregi e nascondere i difetti del gruppo che ha a disposizione. E allora deve lavorare come un bartender, cioè deve mischiare idee, principi, tipi diversi di gestione del campo e del tempo.
Basta riavvolgere il nastro di Juventus-Villarreal (o anche di Villarreal-Juventus, se vogliamo) per capire quest’ultimo punto: la squadra bianconera è scesa in campo ed era ordinata e aggressiva, ha messo gli avversari in soggezione e ha anche creato un certo numero di occasioni da gol, senza concretizzarle. A Vila-Real era andata più o meno allo stesso modo, solo che era arrivato anche il gol di Vlahovic, ma qui stiamo parlando di approccio, non di risultato: la Juventus ha iniziato le due gare con gli spagnoli tenendo un atteggiamento chiaro, definito. Poi però è calata, è scesa di intensità difensiva e quindi – inevitabilmente – offensiva, è passata in modalità gestione, come se non avesse la benzina fisica e anche mentale per poter continuare a giocare in quel modo. A quel punto, il Villarreal – che di per sé, come ogni squadra di Emery, ama giocare in maniera reattiva – ha annusato il cambio di vento, ha potuto prendere in mano la partita e ha costruito le occasioni che gli servivano per portarla a casa. Poche ma giuste.
Juventus-Villarreal 0-3
È qui, proprio in questo punto, che si manifestano gli equivoci storici della rosa bianconera. Perché la Juventus di Allegri, intendiamo quella del periodo 2014-2019, era una squadra che poteva permettersi questo tipo di approccio alle partite, la modalità gestione. Aveva un’anima difensiva d’acciaio, dei centrocampisti in grado di gestire lunghe fasi di gioco sotto palla senza perdere lucidità in fase di costruzione, aveva attaccanti in grado di accendersi all’improvviso e decidere così le partite. Per alcuni, anche quella Juventus era una squadra troppo conservativa per non dire speculativa, ma i numeri e gli albi d’oro sono lì a dimostrare che Allegri allenava nel modo giusto, e poi non stiamo facendo una discussione sul valore ontologica del calcio proattivo e di quello reattivo, non è questa la sede, non è questo il punto. Il vero punto è che la Juventus di oggi non può essere guidata e gestita e messa in campo allo stesso modo. Perché, molto semplicemente, Bonucci è ancora Bonucci, Alex Sandro è ancora Alex Sandro, Cuadrado è ancora Cuadrado, Dybala è ancora Dybala. Ma Danilo, De Ligt, Arthur, Locatelli, Rabiot e Vlahovic sono diversi da coloro che li hanno preceduti. Hanno bisogno di un contesto diverso, di essere azionati e supportati in un altro modo rispetto a Chiellini, Pjanic, Matuidi, Mandzukic, Higuaín, Ronaldo.
Quando nell’estate 2019 la Juve decise di assumere Sarri al posto di Allegri, fece una scelta forte. Di rottura. Impostò e impose un cambio di identità, non solo di allenatore. E proseguì in quella direzione, più o meno, anche con Pirlo. Giusta o sbagliata che fosse, ripetiamo che il punto non è questo, quella doppia rivoluzione ha cambiato la squadra bianconera. Perché oggi non siamo più nel 1991, quando passare da Zoff a Maifredi a Trapattoni in poco più di dodici mesi era un processo fattibile: il calcio contemporaneo vive di progettualità a lungo – se non lunghissimo – termine, e quindi tutte le strategie tecniche e manageriali vanno portate avanti seguendo dei principi-guida che riguardano il campo. Non per forza difensivi, non per forza offensivi, anche se questi due aggettivi finiscono per banalizzare i concetti, ma di certo non si può pensare di mettere in campo una squadra coerente, in grado di difendere in maniera aggressiva o nella propria area per 90 minuti, se in rosa ci sono De Ligt e anche Bonucci, Chiellini e anche Rugani, Alex Sandro e anche De Sciglio – e lo stesso discorso vale per i meccanismi e i giocatori offensivi, ovviamente.
I dati che abbiamo snocciolato all’inizio spiegano che la Juventus non è una squadra costruita male, che possiede del talento qui e ora, ma anche in prospettiva. Allo stesso tempo, però, quegli stessi numeri evidenziano come Allegri non sia – o non sia ancora – il tecnico migliore per poter ottenere il massimo dai suoi attuali giocatori. Il suo modo di allenare e lavorare, in attesa che la dirigenza gli dia gli strumenti di cui ha bisogno, non è quello giusto per alcuni dei suoi calciatori. E allora la Juve è inevitabilmente limitata, soprattutto contro avversari di primo livello: non è un caso, insomma, che i bianconeri abbiano vinto una sola delle dieci partite stagionali giocate contro Milan, Napoli, Inter, Chelsea e Villarreal – le prime tre in classifica della Serie A e le due squadre migliori incrociate in Champions, tutte con principi di gioco radicati, riconoscibili. Magari l’anno prossimo qualcosa cambierà, magari arriveranno dei giocatori che permetteranno ad Allegri di poter far valere di nuovo le sue qualità migliori. Al momento, però, è difficile pretendere di più da lui e dalla Juventus, da persone ed entità che sono sospese tra passato e futuro, e che quindi non hanno un’identità su cui poggiare nei momenti di difficoltà. Qualunque essa sia.