I grandi campioni non invecchiano più?

I fuoriclasse del nostro tempo, soprattutto gli attaccanti, hanno delle carriere sempre più longeve: merito del progresso, ma anche della loro enorme passione, della loro professionalità.

Nel corso dell’ultima settimana, io e alcuni miei amici ci siamo resi conto di due cose che solo a pensarci sembrano assurde e invece sono vere, incontrovertibili. La prima: Karim Benzema e Gonzalo Higuaín hanno la stessa età, il Pipita infatti è nato solo nove giorni prima rispetto all’attuale centravanti del Real Madrid, suo ex compagno di squadra fino al 2013. La seconda: Ricardo Izecson dos Santos Leite, conosciuto in tutto il mondo con il suo apelido, Kakà, è nato il 22 aprile 1982, esattamente 201 giorni dopo Zlatan Ibrahimovic. Eppure Benzema e Higuaín sembrano appartenere a due epoche diverse, lontanissime tra loro, soprattutto oggi: mentre Karim domina la Champions League, Gonzalo starebbe pensando di ritirarsi o magari no, nel frattempo l’Inter Miami fa fatica con e senza di lui. Anche Kakà e Ibrahimovic hanno vissuto e vivono lo stesso equivoco temporale: l’ex fuoriclasse brasiliano del Milan ha idealmente passato lo scettro di giocatore più forte del campionato di Serie A a Ibra a cavallo tra il 2008 e il 2009, poi è andato a spegnersi nel Real Madrid; oggi, nel 2022, i fatti dicono che Kakà ha smesso ufficialmente di giocare da quasi cinque anni, anche se in realtà la sua carriera vera è finita molto prima, mentre Zlatan Ibrahimovic è ancora un calciatore decisivo in Serie A – forse meno decisivo rispetto a qualche mese fa, ma in fondo parliamo di un uomo che a ottobre taglierà il traguardo dei 41 anni, insomma, ci può stare.

È evidente che questi due confronti siano piuttosto estremi: Benzema e Ibrahimovic stanno vivendo una seconda (anche una terza, nel caso di Ibra) giovinezza abbagliante, mentre Higuaín e Kakà hanno abdicato molto presto. Il punto è che il calcio contemporaneo sta andando in una certa direzione, per cui quelle rappresentate da Benzema e Ibrahimovic non sono più delle eccezioni, piuttosto sono gli apici di una tendenza  sempre più chiara e consolidata. Per rendersene conto, limitando solo per un attimo l’analisi ai fuoriclasse del gol, basta consultare le classifiche marcatori di tutti i grandi campionati europei: in testa a quella della Bundesliga (e della Champions League) c’è Robert Lewandowski, 34 anni da compiere ad agosto; Ciro Immobile (32 anni compiuti a febbraio) e Wissam Ben Yedder (32 anni da compiere ad agosto) sono i migliori realizzatori di Serie A e Ligue 1; Karim Benzema, ovviamente, è l’attaccante più prolifico della Liga e pochi giorni fa è diventato il quarto giocatore a realizzare due triplette in due gare consecutive di Champions League – prima di lui c’erano riusciti Cristiano Ronaldo e Messi, altri due grandi attaccanti dalla carriera piuttosto longeva, e poi l’ex Milan Luiz Adriano, ai tempi in cui militava nello Shakhtar. Per chiudere il cerchio, andiamo in Premier League: in questo momento il capocannoniere del campionato inglese è Momo Salah, che non è vecchissimo ma comunque è a un passo dai trent’anni – li compirà il prossimo 15 giugno.

Jamie Cureton è un attaccante di 46 anni con una (inevitabilmente) lunga carriera alle spalle, coronata da 17 apparizioni (con quattro gol) in Premier League accumulate tra il 1994 e il 1995, quando vestiva la maglia del Norwich. Ancora oggi è tesserato (anche se in realtà il suo ruolo è quello di player-manager) con l’Enfield FC, una squadra londinese che milita nell’Isthmian League, vale a dire il settimo o l’ottavo livello della piramide calcistica britannica, e gioca le sue partite casalinghe al Queen Elizabeth II Stadium – sì, esatto, in uno stadio intitolato alla Regina Elisabetta. Cureton è stato intervistato dal Guardian nell’ambito di un articolo sulla longevità degli attaccanti, e ha spiegato che «la mia intelligenza calcistica, con il tempo, è diventata più acuta: a un certo punto ho iniziato a capire dove sarebbe finita la palla prima degli altri, ho imparato a leggere il gioco in anticipo, e questo mi ha permesso di preservare un po’ il mio corpo, di gestire le energie e quindi arrivare in condizioni migliori ai momenti chiave, quelli in cui devo fare gol. In questo senso, noi attaccanti siamo avvantaggiati rispetto ai difensori o ai centrocampisti: ci divertiamo a segnare, siamo dei tossicodipendenti del gol, mentre gli altri passano la vita a marcarci, a picchiarci, a cercare di fermarci. È una bella differenza». Quelle di Cureton sono parole significative: i parametri che ha citato non sono certamente empirici, ma basta riguardare le ultime partite di tutti i grandi attaccanti che abbiamo citato finora – Benzema, Ibra, Ronaldo, Immobile, ma anche Giroud, Suarez, Dzeko, Vardy, Mertens – per comprendere che sì, l’esperienza può avere un effetto positivo sulle prestazioni di una punta, sulla sua efficacia sotto porta, sulla sua capacità di lettura delle azioni, dei movimenti, delle giocate.

Ma il trend va ben oltre gli attaccanti, è una macchia d’olio che si allarga in tutte le direzioni: in un articolo pubblicato durante l’ultima fase finale della Coppa del Mondo, l’Economist ha rilevato che i calciatori selezionati per il torneo iridato in Russia avevano l’età media più alta dall’edizione del 1966 (27 anni e 11 mesi); un’altra ricerca, svolta dall’Università di Vigo, ha invece evidenziato che l’età media dei giocatori delle squadre iscritte al tabellone principale della Champions League è aumentata sensibilmente, da 24,9 a 26,5 anni tra le stagioni 1992/93 e 2017/18. Questi numeri certificano come il calcio dei teenager, quello che lancia in campo i Bellingham, i Donnarumma e gli Ansu Fati senza pensarci troppo, sia in realtà il calcio degli estremi: le carriere dei giocatori si stanno allungando in entrambe le direzioni, iniziano molto prima e finiscono molto dopo, quindi ora i 35enni e i 36enni sono considerati degli atleti ancora validi, anzi nei top club – o comunque nei campionati di alto livello – vengono schierati tranquillamente accanto a dei compagni di squadra che hanno la loro età diviso due.

Nonostante la sua prima stagione al Psg non sia stata proprio scintillante, Lionel Messi è ancora il calciatore nato negli anni Ottanta con la valutazione di mercato più alta: secondo Transfermarkt, il suo cartellino costa 60 milioni di euro (Matthias Hangst/Getty Images)

Su questo aspetto incidono inevitabilmente anche i cambiamenti di metodologie, tecnologie e conoscenze applicate agli allenamenti. Oggi gli staff tecnici e sanitari delle squadre di primo – ma anche di secondo – livello sono decisamente più vasti rispetto al passato, si compongono di tantissime figure specializzate che interagiscono tra loro e con l’allenatore; allo stesso modo, i centri sportivi sono diventati dei veri e propri poli di rigenerazione fisica, per esempio pochi giorni fa Goal ha pubblicato un articolo in cui si parlava dei benefici – e dei costi – altissimi delle camere in cui è possibile sottoporsi alla crioterapia, una pratica di recupero resa celebre da Cristiano Ronaldo ma ormai utilizzata da tantissime squadre. Allo stesso modo, diverse società stanno iniziando a scoprire l’importanza di curare la salute mentale dei giocatori grazie all’apporto di professionisti del settore, un aspetto che fino a pochissimi anni fa era completamente ignorato. E che, soprattutto nel caso di atleti con una carriera logorante alle spalle, può fare la differenza.

Tutti questi investimenti vengono fatti per proteggere i calciatori in quanto primo asset economico e strategico per le aziende calcistiche. Ma hanno avuto e stanno avendo anche un impatto sulla psiche degli atleti, sul loro modo di vedere e vivere il calcio, come se queste attenzioni avessero alimentato il loro capitale umano. Alberto Bartali, preparatore atletico ex Galatasaray e Sampdoria, oggi alla Ternana, aveva spiegato a Undici quella che possiamo definire una vera e propria transizione culturale: «Oggi i grandi giocatori tendono a costruirsi una professionalità rigorosa: conducono una vita sana, studiano le possibilità e i limiti del loro corpo, ad esempio fanno colazione in sede prima di iniziare l’allenamento, pesano il pane e il miele, conoscono le differenze tra i vari tipi di alimenti che possono assumere. Cercano di acquisire delle competenze e di individuare i migliori accorgimenti per allungare la loro carriera».

È così che una nuova generazione di calciatori ha imparato ad affrontare gli inevitabili scompensi dovuti all’età che avanza, senza cancellarli del tutto – una ricerca pubblicata nel 2019 dal Barça Innovation Hub ha rilevato che la distanza totale percorsa dai giocatori over 30 è inferiore del 2% rispetto a quelli più giovani, mentre il numero di sforzi o sprint ad alta intensità e la velocità massima raggiunta diminuiscono per una quota che sta tra il 5 e il 30% – ma riducendone l’impatto, soprattutto se parliamo di campioni e/o atleti importanti immersi in contesti di alto livello. Se oggi Benzema, Lewandowski e Cristiano Ronaldo sono ancora considerati i migliori attaccanti del pianeta, se oggi Modric continua a comandare le partite di Champions League, se Thiago Silva è un difensore infinito, è perché si tratta di fuoriclasse che hanno saputo sfruttare al massimo il progresso, quasi al punto che il loro tempo, l’avversario più difficile da battere per tutti gli sportivi e per tutti gli uomini, sembra scorrere più lentamente.