Manchester City-Real Madrid è stata una sfida tra due filosofie

Chi ha vinto il confronto generazionale tra Guardiola e Ancelotti?

Quante volte capita, nella vita, che qualcosa che si attende con un’ansia bellissima e spasmodica non tradisca le aspettative? Ma che anzi, le superi, in un moto di oltraggiosa bellezza? Di retorica per raccontare Manchester City-Real Madrid 4-3 se ne potrebbe usare parecchia. C’è chi già l’ha definita la partita dell’anno, e forse ha ragione. Ma la sfida giocata all’Etihad è andata oltre qualsiasi aspettativa, anche perché ha assunto fin da subito le sembianze di una lotta tra filosofie: il gioco collettivo e connettivo di Guardiola contro il pragmatismo tattico di Ancelotti, la bellissima coerenza di Pep che sfida la mentalità adattiva di Carlo. Due allenatori profondamente diversi tra loro, nati in momenti differenti, che sono antitesi l’uno dell’altro e guidano due squadre distanti per storia e tradizione, ma figlie entrambi di un progetto vincente, costruito sul talento, sulle idee – e ovviamente su grossi investimenti.

Il Real è a un passo dal vincere la Liga (basta un punto sabato prossimo contro l’Espanyol), il Manchester City è in testa alla Premier, e vivrà fino alla fine del torneo, contro il Liverpool di Jürgen Klopp, una delle più belle rivalità della nostra epoca. Insomma sia Ancelotti che Guardiola stanno primeggiando nei propri campionati, anche se in modo diverso, e sono meritatamente tra le prime quattro d’Europa. Proprio questa loro diversità fa sì che dentro City-Real, dentro una sola partita, ci fosse spazio per cento storie e cento immagini, e altre cento ce ne saranno al ritorno. Ma per rappresentare e raccontare lo scontro tra due modelli di calcio diversi e comunque vincenti, forse ne bastano solo alcune.

Il Blue Moon che accompagna il City in campo è carico di tensione, aspettative, pressione. Perché sono anni che all’Etihad sognano la Champions League, ultimo tassello mancante della nuova nobiltà dei Citizens. Eppure da queste parti dovrebbero saperlo: la continuità di risultati di Guardiola non si riduce a un trofeo alzato, ma è un processo di crescita che ogni stagione rende il Manchester un pizzico migliore. E anche se di perfetto non può esserci niente, l’approccio alla partita di ieri sera ci si avvicina molto. Pochissimi minuti dopo il Blue Moon arriva già il gol di De Bruyne, vale a dire il più veloce mai segnato in una semifinale di Champions. Che non è solo un gol, ma è il manifesto perfetto del calcio di Guardiola: gli scambi rapidi e pazienti di una squadra intera già riversatasi nella metà campo avversaria riescono a trovare Mahrez libero sulla sinistra; non è un caso che l’algerino sia il giocatore che forse si sposa meno con la filosofia dell’ex tecnico del Barcellona, ma proprio per questo garantisce una scintilla di imprevedibilità fondamentale nel gioco del City – nel bene e nel male. Col tempo Pep è riuscito a integrare la creatività dell’ex Leicester all’interno della sua macchina calcistica, come si vede quando Mahrez converge verso il limite dell’area sgusciando tra due avversari, e aspettando l’inserimento del suo capitano. Valverde è bruciato in partenza, Carvajal è anticipato: uno a zero dopo nemmeno due minuti di gioco.

Come detto, dietro un gol che sembra rapidissimo nella sua esecuzione ci sono schemi frutto di un lavoro perfezionato negli anni. C’è Rúben Dias, di mestiere difensore centrale, che aspetta lo scarico di Zinchenko oltre la linea di centrocampo, un chiaro segnale di spinta offensiva, sia verso la propria squadra che verso gli avversari. E poi c’è l’attesa di chi conosce il momento giusto per partire, e per De Bruyne quel momento è il terzo dribbling di Mahrez, preludio a un cross che gli mette il pallone sulla testa.

Il gol di De Bruyne

Per quanto bello ed efficace però, il calcio totale di Guardiola è difficile da praticare per novanta minuti alla stessa intensità, con la stessa concentrazione. Basta allentare la tensione per un attimo, per farsi male. Specialmente se da quelle parti c’è Karim Benzema. E allora quando Mahrez – sempre lui – pecca di egoismo sprecando il 3-0 e un controllo leggermente troppo lungo di Foden vanifica un’altra ripartenza perfetta, la legge del calcio vuole che il primo pallone in area del City si trasformi inevitabilmente in gol. Come per la rete di De Bruyne, l’ennesimo gol di Benzema e anche l’assolo per il 3-2 di Vinícius sono delle rappresentazioni perfette dello stile di gioco di Ancelotti. Del modo di concepire il calcio dell’allenatore emiliano.

Più che principi, più che filosofia, quello di Ancelotti – quindi del Real – è infatti uno stile di gioco che si adatta alla varie fasi della partita. Capace di soffrire, di tenere la testa bassa, ma in agguato per ripartire contando sul talento e la personalità dei suoi leader. Il cross di Mendy può sembrare estemporaneo, quasi casuale, ma in realtà è il frutto di un cambio di atteggiamento, del fatto che il Real avesse progressivamente alzato il suo baricentro dopo lo shock iniziale per il doppio svantaggio. I terzini sono sulla linea dei centrocampisti e Modrić è sceso per velocizzare l’impostazione della manovra. Ancelotti sa di esporsi ai contropiedi potenzialmente letali del City, ma capisce che è il momento di rischiare. E sperare nel colpo di talento dei tuoi campioni, dopotutto, non è ancora considerato un peccato da nessuna chiesa calcistica. Anche perché le chiese calcistiche non esistono. E allora il meraviglioso tocco al volo di Benzema così come il velo – con tunnel incorporato – di Vinícius non sono solo delle improvvisazioni, piuttosto delle giocate cercate, alimentate dalla squadra di Ancelotti, dal suo modo di stare in campo, di gestire il pallone, con la certezza che i campioni, alla fine, produrranno qualcosa. Il fatto che si tratti di veri campioni fa sì che questo avvenga puntualmente.

Il bellissimo gol di Benzema

Anche quella di Ancelotti è una strategia. Diversa da quella di Guardiola, ma ugualmente valida: la ricerca di supremazia completa e assoluta da una parte, una reazione nervosa ma lucida dall’altra. Il 4-3 finale segna una vittoria momentanea di Guardiola su Ancelotti, dei principi  identitari sull’adattamento perpetuo. Di un gioco più contemporaneo rispetto all’approccio senza tempo. Ma certe filosofie non muoiono mai, e per fortuna ci saranno altri novanta minuti per metterle di nuovo alla prova, l’una contro l’altra.