Il calcio europeo a due velocità

Sei squadre di sei Paesi diversi nelle finali continentali: sembra una nuova era democratica, ma in realtà i top club sono sempre più forti, sempre più distanti da tutto il resto.

Il gol di Tammy Abraham contro il Leicester significa diverse cose. La prima, ovviamente, riguarda la Roma, il fatto che i giallorossi disputeranno una nuova finale europea a 31 anni da quella persa in Coppa Uefa contro l’Inter. La seconda è un po’ più ampia, e riguarda il gruppetto delle squadre qualificate per l’ultimo atto delle tre competizioni Uefa: provengono da sei campionati diversi – vale a dire Liverpool/Inghilterra, Real Madrid/Spagna, Eintracht/Germania, Rangers/Scozia, Roma/Italia e Feyenoord/Olanda – e si tratta di una novità rilevante, considerando che l’Europa League viene vinta solo da società inglesi o spagnole addirittura dal 2012. E che gli ultimi dodici slot disponibili per le finali continentali, le sei disputate  dal 2018 al 2021, sono andati sette volte alle squadre di Premier, tre alle squadre di Liga e poi gli altri – Francia, Germania, Italia – si sono spartiti ciò che è rimasto. Ovvero, le briciole.

L’introduzione della Conference League ha sicuramente aperto spazi che prima erano chiusi, o meglio inesistenti. Ma ha anche contribuito a sottolineare una tendenza netta nell’ambito del calcio europeo, quella per cui esistono due mondi che viaggiano in parallelo, che sono enormemente distanti tra loro: quello dei top club e quello dei comuni mortali, in cui le distanze sono decisamente più ridotte. Al primo mondo appartengono le società che si giocano la Champions League, quindi le più ricche, le più forti: Chelsea, Manchester City, Liverpool e poi l’altra delle Big Six che si qualifica per la Champions League, a rotazione tra Tottenham, Manchester United e Arsenal; e poi ci sono il Bayern, il Psg e le due grandi di Spagna, Barcellona e Real Madrid. Non a caso, da questo circolo elitario vengono fuori le vincitrici e tutte le finaliste di Champions League dal 2018 al 2022. E in realtà ci sarebbero anche tutte le semifinaliste se non fosse per le incursioni a sorpresa, per gli exploit che si sono comunque arrestati a un passo dall’ultimo atto: Roma 2018, Ajax 2019, Lione e Lipsia 2020 (in un’edizione particolarissima causa pandemia), Villarreal 2022.

La composizione del lotto dei club irraggiungibili chiarisce che la Premier League viaggia su standard economici e tecnici ormai fuori scala, ma solo se guardiamo ai top club. Per il resto, ormai, ha poco senso parlare con i vecchi termini e codici nazionali, quindi di calcio inglese, calcio italiano, spagnolo, tedesco o francese, anche perché il Bayern e il Psg sono da anni al top nonostante provengano da due leghe oggettivamente inferiori alla Premier, soprattutto nel caso del Psg. Il problema, guardando in casa nostra, non è che la Serie A sia poco competitiva, piuttosto che gli aspiranti top club italiani (Juventus, Inter e Milan prima di tutti) hanno vissuto o stanno vivendo delle crisi strutturali e gestionali che inficiano il loro status attuale, la loro competitività internazionale – esattamente come è accaduto o sta accadendo ora al Barcellona, all’Arsenal, al Manchester United. Non a caso la Juventus resta l’ultima squadra fuori dal nostro elenco dei top club, quello fatto nel paragrafo precedente, ad aver raggiunto la finale di Champions. E per ben due volte, nel 2015 e nel 2017. Questo vuol dire che cinque e sette anni fa la Juve aveva valori non uguali ma comunque vicini a quelli delle squadre più forti d’Europa, solo che nel frattempo i bianconeri hanno perso terreno e il gap ha finito per allargarsi. Quello stesso gap che Inter e Milan, per ragioni diverse, magari dovute anche all’ecosistema arretrato – stadi e infrastrutture in genere, governance, strategie a lungo termine – della Serie A, non sono ancora riuscite a colmare.

Con la vittoria in semifinale sul Manchester City, il Real Madrid ha conquistato la sua quinta finale nelle ultime nove edizioni della Champions League. Nel 2015, 2019, 2020 e 2021, gli anni in cui non è arrivato all’ultimo atto, il club spagnolo si è fermato due volte agli ottavi e due volte in semifinale (Angel Martinez/Getty Images)

Sotto questo olimpo dorato, a cui è difficilissimo avere accesso, la situazione è molto diversa, è meno netta, più sfumata. Basta riguardare l’elenco delle finaliste e delle semifinaliste dell’Europa League per rendersene conto, sempre considerando l’arco temporale che va dal 2018 a oggi: anche se alla fine il trofeo è andato solo a squadre spagnole (Atlético Madrid, Siviglia, Villarreal) o inglesi (Chelsea), sono arrivate all’ultimo atto anche dei club di Ligue 1 (Marsiglia 2018), Serie A (Inter 2020), Bundesliga e Scottish Premier League (Eintracht e Rangers 2022); e in semifinale ci sono arrivate squadre come Lipsia, Roma, Shakhtar, ancora Eintracht, Valencia e Salisburgo. I risultati e l’andamento delle partite di quest’anno hanno dimostrato che, almeno in questo secondo livello del calcio europeo, i valori sono simili a prescindere dai campionati d’appartenenza: il Lipsia secondo nella Bundes 20/21 ha giocato alla pari con l’Atalanta terza nella Serie A 20/21 e poi è stato eliminato dai Rangers, il West Ham sesto nell’ultima Premier League ha eliminato il Siviglia retrocesso dalla Champions e poi è stato sconfitto dall’Eintracht reduce dal quinto posto in Germania. E lo stesso discorso vale per la Conference League: la Roma settima nell’ultima edizione della Serie A ha domato con relativa tranquillità quel Leicester City che nelle ultime due stagioni ha sfiorato la qualificazione in Champions League, e che era stato superato anche dal Napoli in Europa League; in semifinale il Marsiglia non ce l’ha fatta a sconfiggere il Feyenoord, a sua volta giustiziere della squadra di Bundesliga qualificata al torneo, l’Union Berlin.

È evidente che ci troviamo in un’era calcistica caratterizzata da una profonda stratificazione economica, quindi da un livellamento tecnico nettamente sbilanciato verso l’alto, verso un ristretto circolo di super-club destinati a sconfiggersi solo tra loro, almeno per la Champions League, o comunque a perderla solo in casi estremi. Che, non a caso, non si verificano da moltissimo tempo: è dal 2010, dalla vittoria dell’Inter di Mourinho, che la Champions League resta all’interno dell’élite che abbiamo tracciato, ovvero tra Chelsea, Liverpool, Bayern, Real Madrid e Barcellona. Il resto delle squadre, anche in Italia, sta dando vita a progetti sempre più strutturati e quindi interessanti ed efficaci, solo che alla fine il fossato scavato dai top club riduce il tutto a una periferia. Una perfieria in cui ci si può comunque divertire, ma in tono un po’ minore. Dalla quale si può uscire, ma ci vogliono anni e investimenti enormi, e non ci sono margini d’errore.